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La crisi in atto come crisi di senso

dalla Newsletter n.30 anno 2 del 29 settembre 2009

1. Due sono i tipi di crisi che, grosso modo, è possibile identificare nella storia delle nostre società: dialettica l’una, entropica l’altra. Dialettica è lacrisi che nasce da un conflitto fondamentale che prende corpo entro una determinata società e che contiene, al proprio interno, i germi o le forze del proprio superamento. (Va da sé che non necessariamente l’uscita dalla crisi rappresenta un progresso rispetto alla situazione precedente). Esempi storici e famosi di crisi dialettica sono quelli della rivoluzione americana, della rivoluzione francese, della rivoluzione di ottobre in Russia nel 1917. Entropica, invece, è la crisi che tende a far collassare il sistema, per implosione, senza modificarlo.

Questo tipo di crisi si sviluppa ogniqualvolta la società perde il senso – cioè, letteralmente, la direzione – del proprio incedere. Anche di tale tipo di crisi la storia ci offre esempi notevoli: la caduta dell’impero romano; la transizione dal feudalesimo alla modernità; il crollo del muro di Berlino e dell’impero sovietico.

Perchè è importante tale distinzione? Perché sono diverse le strategie di uscita dai due tipi di crisi. Non si esce da una crisi entropica con aggiustamenti di natura tecnica o con provvedimenti solo legislativi e regolamentari – pure necessari – ma affrontando di petto, risolvendola, la questione del senso. Ecco perché sono indispensabili a tale scopo minoranze profetiche che sappiano indicare alla società la nuova direzione verso cui muovere mediante un supplemento di pensiero e soprattutto la testimonianza delle opere. Così è stato quando Benedetto, lanciando il suo celebre “ora et labora”, inaugurò la nuova era, quella delle cattedrali. (Mai si dirà abbastanza della portata rivoluzionaria, sul piano sia sociale sia economico, dell’impianto concettuale del carisma benedettino. Il lavoro, da secoli considerato attività tipica dello schiavo, diviene piuttosto con Benedetto la via maestra per la libertà: è per diventare liberi che occorre lavorare. Non solo, ma il lavoro viene sollevato al livello della preghiera. Come dirà poi Francesco, guai a separare Laborantes e contemplantes; in ciascuna persona preghiera e lavoro devono sempre procedere in parallelo).

Ebbene, la grande crisi economico-finanziaria tuttora in atto è di tipo basicamente entropico. E dunque non è corretto assimilare – se non per gli aspetti meramente quantitativi – la presente crisi a quella del 1929 che fu, piuttosto, di natura dialettica. Quest’ultima, infatti, fu dovuta ad errori umani commessi, soprattutto dalle autorità di controllo delle transazioni economiche e finanziarie, conseguenti ad un preciso deficit di conoscenza circa i modi di funzionamento del mercato capitalistico. Tanto che ci volle il “genio” di J.M. Keynes per provvedere alla bisogna. Si pensi al ruolo del pensiero keynesiano nella articolazione del New Deal di Roosevelt. Nella crisi attuale è certamente vero che ci sono stati errori umani – anche gravi come ho mostrato in Zamagni (2009) – ma questi sono stati la conseguenza non tanto di un deficit conoscitivo, quanto piuttosto della crisi di senso che ha investito la società dell’occidente avanzato a far tempo dall’inizio di quell’evento di portata epocale che è la globalizzazione.

2. Sorge spontanea la domanda: in cosa si esprime e dove maggiormente si è manifestata questa crisi di senso? La mia risposta è: in una triplice separazione. E precisamente, la separazione tra la sfera dell’economico e la sfera del sociale; il lavoro separato dalla creazione della ricchezza; il mercato separato della democrazia. Vedo di chiarire, seppure in breve, cominciando dalla prima.

Una delle tante eredità non certo positive che la modernità ci ha lasciato è il convincimento in base al quale titolo di accesso al “club dell’economia” è l’essere cercatori di profitto; quanto a dire che non si è propriamente imprenditori se non si cerca di perseguire esclusivamente lamassimizzazione del profitto. In caso contrario, ci si deve rassegnare a far parte dell’ambito del sociale, dove appunto operano le imprese sociali, la cooperative sociali, le fondazioni di vario tipo, ecc. Questa assurda concettualizzazione – a sua volta figlia dell’errore teorico che porta a confondere l’economia di mercato, che è il genus, con una sua particolare species e cioè il sistema capitalistico – ha finito con l’identificare l’economia con il luogo della produzione della ricchezza (un luogo il cui principio regolativo è l’efficienza) e a pensare il sociale come il luogo della redistribuzione dove la solidarietà e/o la compassione, (pubblica o privata che sia) sono i canoni fondamentali. Si sono viste e stiamo vedendo le conseguenze di tale separazione. Come il celebre storico-economico Angus Madison ha mostrato, negli ultimi trent’anni gli indicatori della diseguaglianza sociale, interstatale e intrastatale, hanno registrato aumenti semplicemente scandalosi, anche in quei paesi dove il welfare state ha giocato un ruolo importante in termini di risorse amministrate. Eppure, schiere di economisti e di filosofi della politica hanno creduto per lungo tempo che la proposta Kantiana: “facciamo la torta più grande e poi ripartiamola con giustizia” fosse la soluzione del problema dell’equità. Non si

può non ricordare, a tale proposito, la potenza espressiva dell’aforisma lanciato dal pensiero economico neo-conservatore secondo cui “una marea che sale solleva tutte le barche”, da cui la celebre tesi dell’effetto di sgocciolamento (trickle-down effect): la ricchezza, a mò di pioggia benefica irrora prima o poi tutti, anche i più poveri. E dire che già il grande economista francese Leon Walras, nel 1873, aveva avvertito: “quando porrete mano alla ripartizione della torta non potrete ripartire le ingiustizie commesse per farla più grande”. Parole queste che la crisi attuale ha tristemente inverate.

La recente lettera enciclica Caritas in Veritate di papa Benedetto XVI indica a tutto tondo che la via d’uscita dal problema qui sollevato è nel ricomporre ciò che è stato artatamente separato. Prendendo posizione a favore di quella concezione del mercato – tipica dell’economia civile – secondo cui il legame sociale non può venire ridotto al solo “cash nexus”, l’enciclica suggerisce che si può vivere l’esperienza della socialità umana all’interno di una normale vita economica e non già al di fuori di essa come vorrebbe il modello dicotomico di ordine sociale. La sfida da raccogliere è allora quella della seconda navigazione nel senso di Platone: né vedere l’economia in endemico e ontologico conflitto con la vita buona perché vista come luogo dello sfruttamento e dell’alienazione, né concepirlo come il luogo in cui possono trovare soluzione tutti i problemi della società, come ritiene il pensiero anarco-liberista.

3. Passo al secondo caso di separazione. Per secoli l’umanità si è attenuta all’idea anche all’origine della creazione di ricchezza c’è il lavoro umano – dell’un tipo o dell’altro non fa differenza. Tanto che Adam Smith apre la sua opera fondamentale, La Ricchezza delle Nazioni (1776) proprio con tale considerazione. Quale la novità che la finanziarizzazione dell’economia, iniziata circa un trentennio fa, ha finito col determinare? L’idea secondo cui sarebbe la finanza speculativa a creare ricchezza, molto di più e assai più in fretta dell’attività lavorativa. Una miriade di episodi e di fatti ce ne danno conferma. In Gran Bretagna – paese che ha dato i natali alla rivoluzione industriale – il settore manifatturiero contribuisce oggi con un modesto 12% al PIL nazionale e, fino al 2008, gli occupati nel settore della finanza erano giunti a oltre sei milioni di unità (oggi, metà di questi sono senza lavoro). Negli ultimi decenni, nelle migliori università del mondo, i dipendenti e i programmi di ricerca di business studies sono letteralmente esplosi, spiazzando e/o impoverendo altre aree di studio. (Si veda anche la distribuzione dei fondi tra aree di ricerca. E si vedano ancora le scelte dei corsi di laurea, o dei piani di studio, da parte degli studenti iscritti alle facoltà di economia). E così via. L’affermazione e la diffusione dell’ethos della finanza sono valsi – complici i media – ad accreditare il convincimento che non v’è bisogno di lavorare per arricchirsi; meglio tentare la sorte e soprattutto non avere troppi scrupoli morali.

Le conseguenze di tale pseudo rivoluzione culturale sono sotto gli occhi di tutti. (Si pensi al maldestro tentativo di sostituire alla figura del lavoratore quella del cittadino-consumatore come categoria centrale dell’ordine sociale). Oggi, ad esempio, non disponiamo di un’idea condivisa di lavoro che ci consenta di capire le trasformazioni in atto. Sappiamo che a partire dalla Rivoluzione Commerciale dell’XI secolo, si afferma gradualmente l’idea del lavoro artigianale, che realizza l’unità tra attività e conoscenza, tra processo produttivo e mestiere – termine quest’ultimo che rinvia a maestria. Con l’avvento della rivoluzione industriale prima e del fordismo-taylarismo poi, avanza l’idea della mansione (segno di attività parcellizzate), non più del mestiere, e con essa la centralità della libertà dal lavoro, come emancipazione dal “regno della necessità”. E oggi, che siamo entrati nella società post-fordista, che idea abbiamo del lavoro? C’è chi propone l’idea della competenza declinata in termini di figura professionale, ma non ci si rende conto delle implicazioni pericolose che ne possono derivare. Una fra tutte: la confusione tra meritocrazia e principio di meritorietà, come se i due termini fossero sinonimi. La civiltà occidentale poggia su una idea forte, l’idea della “vita buona”, da cui il diritto-dovere per ciascuno di progettare la propria vita in vista di una civile felicità. Ma da dove partire per conseguire un tale obiettivo se non dal lavoro inteso quale luogo di una buona esistenza? La fioritura umana – cioè l’eudainomia nel senso di Aristotele – non va cercata dopo il lavoro, come accadeva ieri, perché l’essere umano incontra la sua umanità mentre lavora. Di qui l’urgenza di iniziare ad elaborare il concetto di eudaimonia lavorativa che per un verso vada oltre l’ipertrofia lavorativa tipica dei tempi nostri (il lavoro che riempie un vuoto antropologico crescente) e per l’altro verso valga a declinare l’idea di libertà del lavoro (la libertà di scegliere quelle attività che sono in grado di arricchire la mente e il cuore di coloro che sono impegnati nel processo lavorativo).

Chiaramente, l’accoglimento del paradigma eudaimonico implica che i fini dell’impresa – quali che ne sia la forma giuridica – sono irriducibili al solo profitto, pur non escludendolo. Implica dunque che possano nascere e svilupparsi imprese a vocazione civile in grado di superare la propria autoreferenzialità, dilatando così lo spazio della possibilità effettiva di scelta lavorativa da parte delle persone. Non si dimentichi, infatti, che scegliere l’opzione migliore tra quelle di un “cattivo” insieme di scelta non significa affatto che un individuo si merita ciò che ha scelto. La libertà di scelta fonda il consenso solamente se chi sceglie è posto nella condizione di concorrere alla definizione dell’insieme di scelta stesso. Aver dimenticato il fatto che non è sostenibile una società di umani in cui tutto si riduce, per un verso, a migliorare le transazioni basate sul principio dello scambio di equivalenti e, per l’altro verso, ad agire su trasferimenti di tipo assistenzialistico di natura pubblica, ci dà conto del perché sia così difficile passare dall’idea del lavoro come attività a quella del lavoro come opera.

4. Infine, di una terza separazione al fondo della crisi attuale mette conto dire. Si tratta di questo. Da sempre la teoria economica – specialmente quella della scuola di pensiero neo-austriaca – sostiene che il successo e il progresso di una società dipendono crucialmente dalla sua capacità di mobilizzare e gestire la conoscenza che esiste, dispersa, tra tutti coloro che ne fanno parte. Infatti, il merito principale del mercato, inteso come istituzione socio-economica, è proprio quello di fornire una soluzione ottimale al problema della conoscenza. Come già F. von Hayek ebbe a chiarire nel suo celebre (e celebrato) saggio del 1937, al fine di incanalare in modo efficace la conoscenza locale, quella cioè di cui sono portatori i cittadini di una società, è necessario un meccanismo decentralizzato di coordinamento, e il sistema dei prezzi di cui il mercato basicamente consta è esattamente quel che serve alla bisogna. Questo modo di vedere le cose, assai comune tra gli economisti, tende tuttavia ad oscurare un elemento di centrale rilevanza.

Invero, il funzionamento del meccanismo dei prezzi come strumento di coordinamento presuppone che i soggetti economici condividano e perciò comprendano la “lingua” del mercato. Valga un’analogia. Pedoni e automobilisti si fermano di fronte al semaforo che segna il rosso perché condividono il medesimo significato della luce rossa. Se quest’ultima evocasse, per alcuni, l’adesione ad una particolare posizione politica e, per altri, un segnale di pericolo è evidente che nessun coordinamento sarebbe possibile, con le conseguenze che è facile immaginare. L’esempio suggerisce che non uno, ma due, sono i tipi di conoscenza di cui il mercato ha bisogno per assolvere al compito principale di cui sopra si è detto. Il primo tipo è depositato in ciascun individuo ed è quello che – come bene chiarito dallo stesso F. von Hayek – può essere gestito dai normali meccanismi del mercato. Il secondo tipo di conoscenza, invece, è quella che circola tra i vari gruppi di cui consta la società ed ha a che vedere con la lingua comune che consente ad una pluralità di individui di condividere i significati delle categorie di discorso che vengono utilizzate e di intendersi reciprocamente quando vengono in contatto.

E’ un fatto che in qualsiasi società coesistono molti linguaggi diversi, e il linguaggio del mercato è solamente uno di questi. Se questo fosse l’unico, non ci sarebbero problemi: per mobilizzare in modo efficiente la conoscenza locale di tipo individuale basterebbero gli usuali strumenti dimercato. Ma così non è, per la semplice ragione che le società contemporanee sono contesti multi-culturali nei quali la conoscenza di tipo individuale deve viaggiare attraverso confini linguistici ed è questo che pone difficoltà formidabili. Il pensiero neo-austriaco ha potuto prescindere da tale difficoltà assumendo, implicitamente, che il problema della conoscenza di tipo comunitario di fatto non esistesse, ad esempio perché tutti i membri della società condividono il medesimo sistema di valori e accettano gli stessi principi di organizzazione sociale. Ma quando così non è,

come la realtà ci obbliga a prendere atto, si ha che per governare una società “multi-linguistica” è necessaria un’altra istituzione, diversa dal mercato, che faccia emergere quella lingua di contatto capace di far dialogare i membri appartenenti a diverse comunità linguistiche. Ebbene, questa istituzione è la democrazia deliberativa. Questo ci aiuta a comprendere perchè il problema della gestione della conoscenza nelle nostre società di oggi, e quindi in definitiva il problema dello sviluppo, postula che due istituzioni – la democrazia e il mercato – siano poste nella condizione di operare congiuntamente, fianco a fianco. Invece, la separazione tra mercato e democrazia che si è andata consumando nel corso dell’ultimo quarto di secolo sull’onda dell’esaltazione di un certo relativismo culturale e di una esasperata mentalità individualistica ha fatto credere – anche a studiosi avvertiti – che fosse possibile espandere l’area del mercato senza preoccuparsi di fare i conti con l’intensificazione della democrazia.

Due le principali implicazioni che ne sono derivate. Primo, l’idea perniciosa secondo cui il mercato sarebbe una zona moralmente neutra che non avrebbe bisogno di sottoporsi ad alcun giudizio etico perché già conterrebbe nel proprio nucleo duro (hard core) quei principi morali che sono sufficienti alla sua legittimazione sociale. Al contrario, non essendo in grado di autofondarsi, il mercato per venire in esistenza presuppone che già sia stata elaborata la “lingua di contatto”. E tale considerazione basterebbe a sconfiggere da sola ogni pretesa di autoreferenzialità. Secondo, se la democrazia, che è un bene fragile, va soggetta a lento degrado, può accadere che il mercato sia impedito di raccogliere e gestire in modo efficiente la conoscenza, e quindi può accadere che la società cessi di progredire, senza che ciò avvenga per un qualche difetto dei meccanismi del mercato, bensì per un deficit di democrazia. Ebbene, la crisi economico-finanziaria in corso – una crisi di natura appunto entropica e non dialettica – è la migliore e più cocente conferma empirica di tale proposizione. Si pensi, per fare un solo esempio, alla prevalenza, nelle sfere sia economica sia politica, del corto termismo (short termism), dell’idea cioè secondo cui l’orizzonte temporale delle decisioni ha da essere il breve periodo. La democrazia, invece, ha necessariamente di mira il lungo periodo. Se le preposizioni del mercato sono senza – contro – sopra (senza gli altri; contro gli altri; sopra gli altri), quelle della democrazia sono con-per-in (con gli altri; per gli altri; negli altri). In definitiva, abbiamo bisogno di ricongiungere mercato e democrazia per scongiurare il duplice pericolo dell’individualismo e dello statalismo centralistico. Si ha individualismo quando ogni membro della società vuol essere il tutto; si ha centralismo quando a voler essere il tutto è un singolo componente. Nell’un caso si esalta a tal punto la diversità da far morire l’unità del consorzio umano; nell’altro caso, per affermare l’uniformità si sacrifica la diversità.

Mi piace chiudere con un pensiero antico, e dunque attuale, di B. Pascal. Scrive il filosofo francese che vi sono tre ordini di cose: l’ordine dei corpi cui corrisponde lo spirito di geometria (l’esprit de geometrie); l’ordine dei cuori cui corrisponde lo spirito di finezza (l’esprit de finesse); l’ordine delle carità cui corrisponde lo spirito di profezia. E se fosse che la povertà di voci profetiche – e quindi di minoranze profetiche – che si nota in giro dipendesse dall’affievolimento dell’ordine della carità?

(*) economista, è stato Presidente dell’Agenzia per il terzo settore. Insegna Economia politica all’Università di Bologna.

 

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