Ciò che era prevedibile si è avverato, l’esito del voto del 25 settembre ha determinato un salto storico nella vita del nostro Paese, e l’apertura di una nuova fase del sistema politico: una sorta di fine della seconda Repubblica.
I numeri del risultato ci indicano chiaramente i seguenti fatti politici: una netta vittoria del centrodestra per effetto della straordinaria crescita di FdI, frutto di una prevalente redistribuzione dei voti a danno dei suoi alleati. Mentre la Lega di Salvini cerca di abbozzare sulla grave sconfitta, fondando le proprie fortune future sullo stare al governo, Forza Italia, nonostante l’imprevista tenuta, appare orientato al tradizionale ruolo di cortigiano acritico, fondato sulla inesistente garanzia europea sul nuovo governo.
Certo, constatare, ad esempio, che, in Veneto FdI raddoppia i voti della Lega, dà il senso di una rivoluzione sconvolgente destinata a cambiare il nostro futuro. Nel centrosinistra il fallimento del campo largo ha determinato un insuccesso annunciato, con un deludente risultato del Pd sotto al 20%, frutto della incerta identità di questo partito e di una troppo debole risposta politica di Letta sia alle scelte ambigue e pericolose del centrodestra che alle bizze irresponsabili dei suoi potenziali alleati.
Lo stesso errore post voto di Letta, di annunciare di non presentarsi come segretario al prossimo congresso del partito, ha contribuito a creare la paradossale situazione per cui Il Pd e il suo segretario sono diventati il capro espiatorio su cui riversare tutti gli errori e relative responsabilità di questo esito del voto. In particolare, sta passando sotto silenzio, il risultato perdente del Terzo polo di Calenda e Renzi, che ha fallito l’obiettivo di un risultato a due cifre, a testimonianza del fatto che tra narcisismo e politica esiste sempre un rapporto contraddittorio.
La rimonta del M5S di Conte, soprattutto al Sud, con un risultato complessivo del 15%, una percentuale meno della metà del risultato delle precedenti elezioni, ha assunto il significato di un risultato positivo per aver invertito un precedente crollo verso una possibile estinzione.
Oggi, pur con gli strascichi che un voto di questa importanza inevitabilmente lascia, chi ha vinto deve governare. Ma per rendersi conto, al di là dei numeri, del significato e del valore della svolta rappresentata da questo voto, vanno precisati gli effetti strutturali di alcune scelte di questa destra che potranno avere enormi conseguenze sul futuro del Paese. Il primo elemento su cui riflettere è il tasso di astensione pari al 63%, il più basso di tutte le elezioni precedenti. La testimonianza di un grave problema di un rapporto deteriorato e trascurato tra sistema politico e società, evidenziato anche dal necessario intervento del Presidente della Repubblica nel proporre Mario Draghi a capo del governo.
Con la caduta del governo Draghi si è pensato che, improvvisamente, tutto fosse superato e si è dato vita, soprattutto dal centrodestra, a una campagna elettorale fondata si promesse in gran parte impraticabili per la situazione dei nostri conti pubblici. Ma più in generale, suscitano particolare preoccupazione quanto previsto nel programma del centrodestra in materia di riforma costituzionale e alcune scelte recenti in seno all’Europa.
Sulla Costituzione occorre prendere atto che, per la prima volta nella storia della Repubblica, dal punto di vista della cultura politica, vanno al governo coloro che, nel momento di dar vita alla nuova Carta costituzionale, si trovavano dall’altra parte, all’opposizione. Risulta chiaro quindi che il rapporto del nuovo governo, con la Costituzione è culturalmente problematico, e quando si decide di modificarla nel punto cruciale dell’organizzazione del vertice del potere istituzionale con il presidenzialismo sorgono non pochi dubbi. Tanto più che in campagna elettorale il presidenzialismo è stato descritto da Giorgia Meloni in maniera generica, talvolta declinandolo nella versione di semipresidenzialismo alla francese, e, proceduralmente, prima si è fatto cenno alla istituzione di una bicamerale mentre negli ultimi giorni si è proposta una riforma da parte del solo centrodestra.
L’altro problema cruciale è il rapporto con l’Europa, sul quale, nonostante le diverse rassicurazioni, si è già determinato un rapporto conflittuale. Il recente momento critico di tale rapporto è costituito dal voto contrario di Lega e FdI sulla mozione critica del Parlamento europeo nei confronti dell’Ungheria di Orban, per le violazioni dello Stato di diritto. Votando contro, la destra italiana ha espresso un parere negativo sui valori democratici fondanti dell’Ue, operando una svolta della politica europea dell’Italia rispetto alla posizione che è stata una costante di tutta la storia della Repubblica.
In tal senso la reazione della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, risulta chiaramente giustificata, e la polemica del centro destra su una sua presunta interferenza sulle elezioni italiane del tutto fuori luogo. Su queste questioni si giocherà gran parte della credibilità internazionale del nuovo governo e di conseguenza anche il suo futuro. Il tempo delle rassicurazioni ambigue è finito e Giorgia Meloni deve rendere chiare ed esplicite le sue scelte.
Le diverse reazioni negative che si sono verificate nell’Ue e nella stampa internazionale non sono l’espressione di un complotto pregiudiziale ma la reazione inevitabile di fronte a scelte che cambiano in profondità la linea del nostro Paese. Questo è anche il tempo di un ruolo vitale dell’opposizione e il Pd in particolare è chiamato a uscire da un dibattito interno fondato essenzialmente sulla sostituzione del segretario, che, nel dibattito post voto, lo riduce al ruolo grande malato della politica italiana, per assumere con forza e coerenza il ruolo di duro oppositore di ogni deviazione dal carattere libero e democratico del nostro Paese. L’esercizio attivo di un ruolo protagonista del promuovere e difendere la nostra democrazia rimane una via maestra per rendere più definita la propria identità.