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La direttiva europea apre una nuova fase

Il tema del salario minimo è da qualche tempo al centro (anche) del dibattito italiano, sollecitato tra l’altro dal fatto che l’Italia è uno dei pochi  paesi europei sprovvisti di una normativa in materia. Nonostante le opinioni favorevoli a tale normativa espresse da molti esperti, nazionali e internazionali, le proposte di legiferare sui minimi salariali  non hanno mai superato  la fase istruttoria: vedi già la legge  delega del  10.12.2014 n. 183 rimasta inattuata a causa della contrarietà delle parti sociali e in particolare dei sindacati.

Ora una ulteriore spinta a riprendere in considerazione il tema viene dalla proposta di direttiva europea appena approvata  e per altro verso  dall’aggravarsi  delle condizioni  di povertà  non solo della popolazione  ma anche dei lavoratori. Si stima che il lavoro povero abbia interessato già nel 2015 oltre 3 milioni di individui, concentrati in alcuni specifici settori, e abbia posto 2,2 milioni di famiglie in condizione di rischio povertà nonostante che almeno un componente del nucleo familiare risulti occupato. Ambedue queste cifre sono aumentate con il Covid.

E’ bene ricordare  che un’ampia  letteratura internazionale mostra come la incidenza e la diffusione del lavoro povero dipendano anche dalle modalità di determinazione dei minimi salariali, dalla presenza o assenza di un salario minimo fissato per via legislativa;  dal funzionamento del sistema di relazioni industriali e della contrattazione collettiva, e inoltre dal livello dei minimi retributivi, dalla copertura degli  stessi  e dalle procedure  di enforcement, comprese le eventuali  sanzioni.

Come sappiamo la fissazione dei minimi e dei livelli salariali in Italia dipende dalla contrattazione collettiva nazionale che definisce i salari da applicare per ogni livello di inquadramento dei lavoratori. Va ricordato, perché si tende a dimenticarla, la differenza fondamentale tra il salario minimo legale, che si applica indistintamente a tutti i lavoratori, e i minimi retributivi fissati dal contratto collettivo, che sono diversi per livelli di inquadramento e che non godono di alcuno strumento di estensione erga omnes. La copertura dei lavoratori appartenenti a organizzazioni non firmatarie di contratti collettivi è stata di fatto assicurata dall’interpretazione diffusa della giurisprudenza che, basandosi sull’art. 36 della Costituzione, ha identificato la giusta retribuzione con quella stabilita dai contratti nazionali.

Ma non va dimenticato che questo meccanismo non è facile da applicare perché dipende dalla iniziativa dei singoli lavoratori i quali devono attivare un giudizio con l’onere di provare che la loro retribuzione è inferiore al livello minimo fissato dal CCNL applicabile.

Fare un confronto con i livelli retributivi minimi fissati dai contratti collettivi non è facile, dal momento che esistono (ad oggi) oltre 800 contratti collettivi vigenti, di cui circa un terzo firmati da organizzazioni considerate maggiormente rappresentative (CNEL, 2019).

La mancanza di regole certe  per la determinazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali e datoriali, ha  favorito la proliferazione di contratti collettivi firmati da organizzazioni di cui non è facile misurare la consistenza. L’assenza di un meccanismo di estensione erga omnes dei contratti collettivi ha inoltre consentito ampi margini di discrezionalità alle imprese che, soprattutto in alcuni comparti, hanno operato vere e proprie forme di dumping contrattuale, siglando accordi al ribasso nei livelli dei salari e nelle condizioni di lavoro e andando ad incrementare di fatto la platea dei lavoratori poveri. Alcuni studi mostrano come, in media, il 10% dei lavoratori dipendenti siano pagati al di sotto dei minimi tabellari definiti nei CCNL, con punte fino al 30% in alcuni comparti.

Quindi la prima iniziativa da prendere nel contesto italiano è di rafforzare la capacità della contrattazione collettiva nazionale,  in particolare  nei settori più  esposti  alla concorrenza, al fine di contrastare le spinte  alla riduzione  dei salari  e la evasione  di quelli  contrattati;  anche con meccanismi  di estensione  erga omnes della parte salariale  dei CCNL, come hanno fatto  gran parte  dei paesi europei. La Corte   Cost. ha stabilito  che la  estensione limitata alla parte salariale dei contratti collettivi  è compatibile con  l’art. 39 Cost. Questa è una strada  indicata  anche nelle maggiori   confederazioni sindacali (con l’accordo del 14 gennaio 2016).

  1. Al riguardo la proposta   europea di direttiva sui “salari minimi adeguati”  offre preziose  indicazioni  utili  in particolare  per il dibattito  italiano. Questa proposta – ampiamente modificata  rispetto a una prima versione –  ha ricevuto un’ampia adesione da parte dei sindacati  europei, con riserve limitate ai paesi nordici. Business Europe resta  contraria auna direttiva in materia, ma è significativo che  le organizzazioni  datoriali  di Italia  e Francia  non hanno manifestato opposizione pregiudiziali, limitandosi a riserve specifiche di merito.

Tralascio qui le possibili obiezioni  riguardanti  la base giuridica  di una direttiva  in questa materia,  che non rientra  direttamente  nelle competenze dell’Unione; ma si tratta a mio avviso di obiezioni  superabili; specie se  come sembra  la Commissione  ha una  forte determinazione  a portare  avanti il dossier con il sostegno sindacale.

La novità principale  della proposta  è che essa indica due percorsi  diversi  per garantire  salari  adeguati, che riflettono  le situazioni  dei vari paesi, distinguendo il gruppo  di paesi (21)  che hanno già  una legislazione  sui minimi, da quelli (6)  che affidano la  fissazione  di tali minimi  alla contrattazione.

Per il primo gruppo di paesi la proposta indica alcune condizioni necessarie per assicurare che i salari minimi legali siano fissati a livelli adeguati secondo criteri definiti in maniera chiara e stabile, che garantiscano un effettivo coinvolgimento delle parti sociali e aggiornamenti periodici e puntuali dei minimi.

Per il nostro paese, che è interessato al secondo percorso della proposta, questa indica   che il criterio decisivo per eventuali interventi correttivi del legislatore è il tasso di  copertura   effettiva dei CCNL  fissato al 70% dei dipendenti interessati.

Il giudizio positivo  dei sindacati europei, fra cui quelli italiani, e del Cnel, è motivato anzitutto da questa preferenza  riconosciuta  alla via contrattuale  rispetto  a quella legislativa  per la fissazione  dei minimi salariali.

 Su questo punto  la proposta richiederà  alcune  precisazioni  e pone  al nostro sistema  vari  problemi applicativi.

Anzitutto il riferimento della proposta alla contrattazione nazionale è formulato in modo troppo indifferenziato, tale da comprendere anche contratti stipulati da organizzazioni non rappresentative. Per correggere tale punto andrebbe indicato che deve tenersi conto, nel valutare la copertura contrattuale, dei soli contratti collettivi nazionali conclusi dalle organizzazioni delle parti sociali maggiormente rappresentative, come definite dalle leggi nazionali.

In secondo luogo, le parti sindacali hanno rilevato la necessità che gli stati membri siano sollecitati ad azioni dirette a rafforzare la estensione della copertura contrattuale, e gli attori negoziali, perché questi in molti casi non sono adeguatamente sostenuti e anzi sono indeboliti dalla situazione economica e dalle politiche spesso adottate.

Una richiesta sindacale, anche in sede europea, è di rendere esplicito che i sistemi nazionali, come quello italiano, che hanno una copertura contrattuale nazionale (mediamente) superiore al 70% possono essere considerati ben funzionanti e quindi non necessitano d’interventi legislativi in materia di salario minimo.

Altre osservazioni avanzate da sindacati anche italiani, richiedono che i piani di azione da adottare per rafforzare la contrattazione e la sua copertura siano obbligatori e abbiano contenuti definiti.

Nei paesi ove esiste la sanzione legale del salario minimo si richiede inoltre di fissare in modo vincolante, e non solo opzionale, gli obiettivi minimi di adeguatezza, pari al 50% del salario medio e al 60% del mediano, con il pieno coinvolgimento delle parti sociali.

Per garantire la effettiva applicazione delle indicazioni comunitarie in materia si ritiene importante che da una parte si rafforzino i sistemi di enforcement e di ispezione del lavoro e dall’altra si metta in atto un efficace e accessibile sistema di monitoraggio e di raccolta dati sul funzionamento degli strumenti legali e contrattuali esistenti nei vari paesi, in particolare, per quanto ci riguarda, sulla copertura dei contratti collettivi nazionali.

Su questo aspetto l’archivio dei contratti gestito dal Cnel, in collaborazione con INPS, contiene informazioni preziose che vengono via via integrate e aggiornate. Da tali informazioni si può rilevare come il tasso di copertura dei contratti nazionali nei principali settori sia molto alto, superiore alla soglia indicata dalla Unione, ma come in alcuni altri comparti necessiti di un rafforzamento, per i quali il nostro sistema deve prevedere le misure auspicate dalla proposta di direttiva.

Anche per questo è opportuno aprire una nuova stagione di legislazione di sostegno alla contrattazione  collettiva  che comprenda  i due aspetti  sopra ricordati: una  definizione delle regole  sulla rappresentatività delle parti  della contrattazione  e un meccanismo di estensione  della parte salariale dei CCNL.

Una volta attuati questi interventi, la eventuale introduzione dei minimi legali  risulterebbe  marginale. Sarebbe limitata  a  quei settori  e aree dove i contratti collettivi  fossero di dubbia  rappresentatività  o conclusi da associazioni  fantasma. Inoltre potrebbe applicarsi a quei settori  in cui si verificasse che il tasso di copertura  e di applicazione  effettiva  dei contratti  nazionali scende  sotto una certa  soglia minima,  o dove si  registrano diffusi tassi  di evasione  dei  minimi contrattuali.

La definizione di queste ultime ipotesi di intervento presenta evidenti  difficoltà e andrebbe verificata fra le parti sociali e con l’INPS sulla base dei dati oggettivi circa i contenuti, la copertura dei contratti e la rappresentatività delle parti stipulanti. Del resto questo è il metodo applicato nella maggior parte dei paesi che hanno introdotto il salario  minimo legale. Infatti le parti sociali sono state coinvolte in tutte le fasi della procedura: dalla verifica delle condizioni per adottare i minimi, alla definizione sia dei livelli a cui stabilirli sia dei casi e dei modi per il loro aggiornamento nel tempo.

 

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