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E’ poco “epocale” questa riforma

Il Governo ha presentato la “epocale” riforma del mercato del lavoro con l’obiettivo  di rimettere  il contratto a tempo indeterminato al centro e farlo diventare la “forma comune di rapporto di lavoro” (così recita l’art. 1 del d.lgs 81/2015 entrato in vigore lo scorso 25 giugno), un proponimento condivisibile, da attuare, a detta del Governo, con il contrasto alla cattiva flessibilità, il rafforzamento degli  ammortizzatori sociali ed un nuovo potente sistema di politiche attive.

La spinta ad assunzioni/trasformazioni a tempo indeterminato è stata messa in pratica attraverso 3 strumenti che tengono conto di quelle che da sempre sono le richieste delle aziende: abbassamento del costo del lavoro, realizzato attraverso l’introduzione in Legge di Stabilità di un esonero contributivo totale per 3 anni; abbattimento componente Irap sul lavoro; maggiore flessibilità in uscita, attraverso il nuovo sistema sanzionatorio in caso di illegittimo licenziamento, incentrato sull’indennizzo economico che si applica agli assunti a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo u.s.

Dall’altra però, ed è questo l’aspetto più preoccupante dell’intero impianto, manca una sostanziosa ed efficace copertura di quello che sarà il nuovo sistema di ammortizzatori sociali ed, in particolare, vi è assoluta incertezza di come funzionerà il nuovo sistema di politiche attive. Su questi due fondamentali aspetti della riforma del lavoro, che riguardano il sistema di protezione in costanza e fuori dal rapporto di lavoro, i decreti legislativi già emanati (Nuova Aspi) ed emanandi (integrazioni salariali e politiche attive), rischiano di non garantire gli equilibri che si andranno a creare tra le esigenze di flessibilità (in entrata ed in uscita) richieste dal sistema di imprese e le necessarie misure di sicurezza sociale.   

Rispetto, quindi, alle mirabolanti promesse che annunciavano la costruzione di un sistema di protezione sociale inclusivo (quantitativamente rafforzato e temporalmente più lungo), volto a fronteggiare un evidente indebolimento del lavoratore in presenza di aziende che intendano licenziare o ridurre il personale, o anche ad includere chi è stato espulso dal mercato del lavoro, ci troviamo, purtroppo, con un sostanziale arretramento del sistema.

Dal 1 maggio u.s., infatti, pur essendo divenuto più lungo, rispetto all’ormai vecchio sistema, il periodo di copertura della Nuova Aspi, presumibilmente, si determinerà un aumento del numero dei potenziali disoccupati per effetto sia del nuovo sistema dei licenziamenti, sia per la prevista riduzione delle durate della cassa integrazione.

Tra l’altro, come la UIL ha pubblicamente denunciato, molti lavoratori (stagionali soprattutto) rischiano una forte penalizzazione per come è stato costruito il sistema di calcolo della Nuova Aspi. Inoltre, come accennato, viene  indebolita la protezione “in costanza di rapporto di lavoro” all’interno di un quadro che vede migliaia di lavoratori esclusi dalla possibilità di evitare il licenziamento, in quanto le tutele fino ad oggi garantite attraverso la cassa integrazione in deroga, sono state fortemente ridotte (massimo 5 mesi) per scelta politica del Governo.

A questo aggiungiamo il timore dovuto alla prossima “estinzione” (nel 2017) della indennità di mobilità già prevista dalla legge Fornero.

Il tutto ad invarianza di risorse e con coperture attualmente insufficienti!

Se  a questo aggiungiamo che, per  coprire i minori introiti derivante dall’ennesimo sconto alle imprese per la il versamento Cigo,  si aumenterà il ticket di accesso alle imprese in crisi in maniera molto onerosa, il timore aumenta.

Questa nuova infrastruttura del sistema di protezione sociale rimane, quindi,  debole al contrario di ciò che era stato annunciato e si accompagna al secondo grande “difetto” dell’impianto del Jobs act: l’annunciata costruzione di un innovativo, potente, esteso sistema di politiche attive, di cui, però, ad oggi, non vi è traccia. Un sistema, che così come è scritto nella L.183/14 e nella proposta di decreto attuativo, dovrà reggersi su un’“Agenzia Nazionale per le politiche attive (ANPAL)” che, sostituendosi all’attuale sistema di incontro domanda-offerta di lavoro, non sempre efficiente ed efficace, dovrebbe diventare  il fulcro delle opportunità di inserimento e ricollocazione delle persone.

Tale rinnovamento nel sistema delle politiche attive ha però il difetto di essere condizionato dalle novità che dovranno essere contenute nella Riforma Costituzionale attualmente all’attenzione del Parlamento, e dall’invarianza di risorse che porterà inevitabilmente (purtroppo)  ad una conferma della sostanziale insufficienza di un “servizio” essenziale come quello delle politiche attive.

Inoltre occorre tenere in considerazione la confusione politico-istituzionale derivante dai provvedimenti sul superamento delle Province senza aver costruito un sistema amministrativo di gestione dei servizi per l’impiego utile e necessario alla definizione di un nuovo modello che favorisca, realmente, l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, orientamento e percorsi di qualificazione e riqualificazione delle persone. E non è neanche condivisibile la teoria che induce a spostare meccanicamente risorse dalle politiche passive a quelle attive poiché le prime, in gran parte, si fondano su un sistema mutualistico-assicurativo (e quindi con contribuzione privata) e, pertanto, andrebbe rivisto il meccanismo di compartecipazione di imprese e lavoratori.

Non possiamo, quindi, che valutare in maniera critica questo primo impianto in cui la “flessibilità” sul e nel lavoro, continua a non essere bilanciata dalla dovuta e necessaria “sicurezza” lavorativa.

Infine, la riflessione più delicata: è indubbio che da questa serie di interventi, in  primis il licenziamento “facile”, ma anche la recente entrata in vigore delle novità sul “demansionamento unilaterale” e la prossima revisione delle regole sui “controlli a distanza”, ne esca confermato lo sbilanciamento dei rapporti di forza, a favore del datore di lavoro rispetto al lavoratore.

Al di la degli effetti sulle persone, non è difficile avventurarsi in una previsione che porta ad una conclusione: in tempi (non lunghi) la capacità rivendicativa, soggettiva e collettiva, del lavoratore si ridurrà ed, inevitabilmente, ciò influirà anche sulla crescita, o tenuta, salariale. L’effetto sulle persone è ovvio, ma l’effetto sul “sistema” (economico) va osservato poiché’ l’impatto sui consumi, specie quelli derivanti dal mercato interno (servizi e terziario in particolare), potrebbe essere significativo con un inevitabile, e negativo, rimbalzo, sulla crescita e la ripresa economica.

Queste ragionevoli considerazioni, confermano che la scelta di contrastare queste intenzioni fino a proclamare uno sciopero generale, restano tutt’ora valide soprattutto se esse sono accompagnate da una costante: il considerare la contrattazione, sia essa nazionale sia aziendale, come un valore e non come un ostacolo. Un rinnovato sistema di relazioni industriali, finalizzato alla ricerca del necessario equilibrio tra crescita, produttività e tutele resta, a nostro avviso, la strada maestra per portare il Paese fuori dal pantano della crisi e, soprattutto, della bassa occupazione.

 

 (*) Segretario Confederale UIL

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

 

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