L’introduzione della flat tax del 15% sulle partite Iva per il fatturato fino a 85 mila euro ha conseguenze strutturali fondamentali sull’Irpef, quasi tutte negative, eccetto ovviamente per i lavoratori autonomi interessati, ma come vedremo neanche del tutto per loro. Essendo una misura permanente, ha effetti strutturali per la progressività complessiva dell’Irpef e anche per quella tra i diversi lavoratori autonomi.
L’obiettivo di semplificare la vita ai piccoli contribuenti non c’entra piu niente, qui stiamo parlando di lotta sulla distribuzione del reddito, un tempo la chiamavamo “conflitto di classe”. Per non farci mancare niente, abbiamo per il 2023 anche una flat tax del 15 per cento sull’ incremento di reddito rispetto al maggiore dei redditi dichiarati nel triennio precedente, fino a un tetto massimo di 40 mila curo. Anche questa misura produce effetti distorsivi, introduce scalini e salti nelle aliquote mariginali e medie, ed è un altro colpo alla progressività dell’Irpef. Ma non sappiamo se verrà rinnovata nei prossimi anni.
Un primo effetto potrebbe essere quello della convenienza a lasciare il lavoro dipendente e mettersi in proprio. Essendo un regime forfettario – nessuna possibilità di dedurre i costi – sarebbe, inoltre, fortemente ridotta anche la convenienza ad investire in beni strumentali o a chiedere le fatture sugli acquisti. L’effetto più grande – come abbiamo scritto il 5 dicembre su queste colonne – è che I’Irpef sia definitivamente morta, e questo dovrebbe convincere chi ancora ha fiducia in essa, che vada ripensato l’ambito di applicazione della progressività, non solo per il sistema tributario ma anche per la spesa pubblica, come per l’incredibile regime obsoleto delle spese fiscali.
Resta il fatto che le potenzialità dell’Irpef in termini di equità sono state sopravalutate e progressivamente eliminate, dalle modifiche del mercato del lavoro, dall’evoluzione del diverso tipo di redditi e dalle modifiche della base imponibile. Esistono ormai tre tipi prevalenti di progressività: alla progressività dell’imposta (potenziale più che reale), se ne sono aggiunte altre due, che agiscono con la spesa sociale e le detrazioni fiscali ma forse almeno cinque, se si considerano i bonus edilizi e le cedolari sugli immobili a uso abitativo delle persone fisiche.
Il punto è che chi è soggetto alla progressività dell’imposta, è soggetto di norma anche alle altre progressività, chi sfugge alla prima sfugge anche alle altre. Si determina cosi un evidente squilibrio tra chi paga (progressività dell’imposta) e chi riceve (progressività della spesa).
Ma vi sono altri due punti che nel dibattito non sono emersi adeguatamente. Il primo riguarda l’onere di imposta effettivo che sopporterebbero i lavoratori autonomi rispetto a quello dei dipendenti e dei pensionati. La misura chiaramente avvantaggia, sul piano del gettito, i lavoratori autonomi rispetto ai dipendenti. Infatti, dire che gli autonomi non pagheranno però di meno, perchè devono pagare per intero i contributi sociali, mentre quelli dei lavoratori dipendenti son pagati per due terzi dai datori di lavoro, non rispetta le conclusioni ormai assodate della teoria dell’incidenza delle imposte, né quelle di un corpo di stime empiriche vastissimo. E irrilevante, come è noto, su quale parte del mercato si fissa l’imposta. E la teoria della traslazione dell’imposta: in condizioni normali, la differenza tra salario lordo e netto – il cuneo fiscale appunto – viene assorbito dal processo di traslazione e finisce per ridurre il salario netto. Per cui, considerando anche il carico contributivo, gli autonomi pagheranno decisamente di meno dei lavoratori dipendenti in termini di onere complessivo, non di più, date anche le aliquote contributive nettamente piu basse.
Nel dibattito odierno, sono riemerse alcune considerazioni in sé anche fondate, ma qui poco pertinenti quando si parla di onere tributario: che il lavoro autonomo rischia di suo – questo è vero ed è innegabile – mentre il lavoro dipendente, specie se pubblico, ha una maggiore sicurezza e non i rischi e le incertezze del lavoro autonomo che si può perdere all’improvviso. Possiamo aggiungere anche che lo sforzo e
l’intraprendenza del lavoro autonomo possono essere decisamente maggiori di quelli dei dipendenti, che in virtù della certezza del posto fisso potrebbero essere portati ad essere pigri e poco motivati. Vero anche questo, però tutto il ragionamento va allora ponderato per la differenza nelle possibilità di evasione del reddito e del fatturato, senza limite per il lavoro autonomo e di fatto impossibile per il lavoro dipendente regolare. Insomma, molti fattori, che non si compensano o annullano perfettamente e che confermano che dietro vi sono preferenze etiche in materia tributaria e scelte politiche di ricompensa degli elettori.
II secondo punto ha a che fare con il sistema di previdenza sociale e le forme di accumulo pensionistico ed è forse più rilevante del primo. Infatti, una pensione adeguata può essere accumulata con risparmi regolari derivanti dall’ applicazione di un’aliquota elevata (il 33%), oppure, date le aliquote contributive più basse, anche con consistenti proventi da evasione – spesso nascosti o collocati all’ estero – che finiscono per produrre economia sommersa. Ed è appena il caso di ricordare, che l’evasione sui ricavi porta spesso con sé anche forme di lavoro sommerso o di evasione contributiva dei lavoratori autonomi. Quindi, una diversa composizione delle fonti di accumulazione della pensione. Vi è però in queste differenze, un aspetto molto rilevante per la sua natura sistemica generale. I dipendenti pagano un ammontare nettamente maggiore di contributi sociali – non forse per una maggiore virtù, ma perché sono applicati alla fonte – e finiscono per avere in genere una pensione più elevata di quella degli autonomi. Questa situazione però, in un sistema a ripartizione, finisce per produrre due conseguenze ovvie: in primo luogo, i dipendenti pagando un ammontare elevato – e forse nettamente prevalente – di entrate contributive; sono i soggetti che sostengono l’Inps e pagano le pensioni di chi e in pensione adesso. In secondo luogo, se davvero sarà più conveniente per ragioni tributarie cambiare posizione da lavoro dipendente ad autonomo, ciò porterà a un notevole risparmio di imposta (e di ammontari contributivi) oggi, che però finirà per avere un risvolto negativo importante in termini pensionistici nel futuro. Quindi un profilo di accumulazione pensionistica rischioso, perchè inadeguato, dato l’aumento della speranza di vita, e forse anche irresponsabile per chi lo suggerisce.
II terzo punto riguarda il finanziamento del sistema sociale. Assistiamo da un lato a un progressivo svuotamento delle basi imponibili di imposte che sono state alla base del finanziamento del welfare (Irpef, Irap), alla diminuzione complessiva di contributi per la precarizzazione del mondo del lavoro, alla richiesta generalizzata di riduzione del cuneo contributivo e dall’altro a un aumento delle prestazioni di welfare di tipo universalistico. Insomma, una progressiva diminuzione delle fonti di finanziamento e un aumento continuo della spesa. Come regge il sistema? La progressività dovrebbe essere il principio ispiratore sostanziale di un sistema tributario: ma adesso, valendo solo per i redditi da lavoro dipendente e da pensione, ha poco senso. Lo smontaggio sistematico e graduale dell’imposta progressiva sui redditi e la messa fuori dal campo della progressività di larga parte dei redditi – da lavoro autonomo, da capitali, da abitazioni, ecc.- richiede una decisione definitiva. Siamo convinti che se si sceglie un approccio a una o due aliquote, debba valere per tutti. Ma bisogna valutarne gli effetti complessivi sul sistema paese.