Se evoco: Fondo Nuove Competenze (FNC), a molti non vuol dire niente, ma è una iniziativa della Commissione Europea per facilitare la riconversione professionale degli occupati europei nelle imprese di tutti i comparti. Alle aziende e ai lavoratori italiani dice molto. Sono già state realizzate due annualità e i fondi destinati all’Italia sono stati tutti utilizzati. Vuol dire che migliaia di imprese, grandi e piccole, hanno aderito e sono state erogate milioni di ore di formazione, fondamentalmente per potenziare qualitativamente le professionalità degli occupati. L’hanno considerato un investimento, mentre per molto tempo quel poco di formazione che si faceva veniva considerato come una sorta di ammortizzatore sociale.
Quindi, a differenza di altri fondi, penso a quello GOL per i giovani disoccupati, non ci sono state somme non investite, forse perché il FNC è stato gestito centralmente tramite ANPAL, mentre il fondo GOL è affidato alle Regioni che, salvo qualche eccezione, notoriamente rischiano sempre di dover restituire somme, spesso ingenti, a Bruxelles. Il FNC ha avuto successo soprattutto perché le aziende, anche per la collaborazione e per l’esperienza dei Fondi interprofessionali, hanno apprezzato questo aiuto europeo in una fase di significative trasformazioni tecnologiche e organizzative e semmai si aspettano che diventi strutturale.
Ovviamente, non sono mancate difficoltà gestionali e appesantimenti burocratici, anche se specie nel passaggio dal primo bando al secondo, sono stati introdotti criteri e modalità operative che hanno consentito di chiudere nei tempi prestabiliti progetti esecutivi ed erogazioni dei contributi. Il terzo bando, quello per il 2024, è stato finanziato con 800 milioni di euro; ma non ne è stato ancora emanato il regolamento. Non è una grande cifra, ma tenerla in frigorifero è un’idiozia. Siamo quasi a metà del 2024 e l’obbligo di spesa è stato fissato, come per i precedenti, alla fine dell’anno. Restano pochi mesi per darne attuazione in modo decente.
Il Ministero del Lavoro sa di questo ritardo, ma non sembra preoccuparsene. E’ come se della formazione degli adulti, quella continua, non gliene importasse niente. C’è un deserto di interesse che certamente viene da lontano. Notoriamente, l’unico finanziamento pubblico alla formazione professionale in Italia si fa da sempre con i soldi dell’Unione Europea, gestiti dalle Regioni; fino a qualche tempo fa, per effetto del provvedimento Industria.4 il Ministero dello Sviluppo Economico e ora del Made in Italy (sic!) assicurava risorse per la formazione connessa all’innovazione tecnologica, ma ora se ne è persa traccia; degli Istituti Tecnici Superiori (ITS), invece se ne occupa il Ministero dell’Istruzione e del Merito (doppio sic!) che non ne agevola la diffusione pur sapendo che è da lì che passa il superamento del gap tra domanda e offerta del lavoro tecnico professionalizzato. Per l’orientamento dei giovani nelle scelte di studio per meglio rapportarsi alle tendenze del mercato del lavoro, siamo al “fai da te” dei dirigenti scolastici o, come vorrebbe il ministro Valditara, con gli stessi professori del corso, addestrati con 8 ore di informativa, limitatamente alle risorse del PNRR, quindi senza una logica strutturale.
E’ in questo contesto istituzionale, frastagliato e occasionale che imprese e lavoratori dovrebbero affrontare il cambiamento che, tanto l’emergenza climatica sempre più incombente, quanto l’innovazione tecnologica e digitale sempre più invasiva, impongono con tempi e condizioni che si fanno sempre più stringenti.
Il FNC sembrava essere un sistema di sostegno e di incentivazione alla riqualificazione degli occupati, per ridurre al minimo le conseguenze socialmente negative dell’impatto con il cambiamento. Ma se la sua operatività diviene asmatica, imprevedibile, poco strutturale, anche le scelte imprenditoriali diventano meno gestibili socialmente. Ci sono settori, ormai, come l’auto e il suo indotto, che delineano bene le tendenze: nuovi prodotti, nuove tecnologie, nuove regole ecologiche. Tutte implicano, a parità di occupazione complessiva (di per sé obiettivo arduo), un rimescolamento delle professionalità necessarie, con un conseguente mutamento dei lavoratori e delle lavoratrici, in parte riqualificabili, in parte nuove e assunti dall’esterno, in parte da accompagnare a nuove attività.
Di tutto ciò, l’attuale Ministro del Lavoro non sembra particolarmente interessata. A quanto pare, compartecipa più volentieri alla più generale scelta del Governo di procedere con provvedimenti congiunturali, parcellizzati e tradizionali. Qualche assunzione in più di personale per il controllo sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, assieme ad una innocua graduatoria a punti per distinguere le aziende corrette da quelle pirata, ex post. Una riverniciatura dell’apprendistato, senza intaccare le ragioni del suo sotto utilizzo. Fino alla reiterazione del vecchio strumento degli incentivi di riduzione del costo del lavoro (pari al sorprendente 120%) per le assunzioni a tempo indeterminato di giovani e donne nel Mezzogiorno, come se questo fosse il problema principale della disoccupazione meridionale.
Della formazione per adulti e per i giovani, come volano assieme agli investimenti produttivi nel processo di trasformazione dell’apparato economico del Paese, neanche l’ombra di una idea nuova, di una convocazione delle parti sociali per dare risalto alla questione, di una energica utilizzazione di ciò che si ha già a disposizione. E la vicenda del FNC ne è la più clamorosa conferma. Eppure, in un’epoca in cui l’intelligenza artificiale sta diventando sempre più prevalente nelle aziende, non sfruttare appieno uno strumento consolidato come il FNC rappresenta uno spreco significativo. Inoltre, non garantire che tale strumento possa diventare una soluzione permanente, mina la stabilità e la fiducia delle aziende in esso.
Certo, l’occupazione sta aumentano e di ciò non si può che essere soddisfatti. Ma senza esagerare, perché se nello stesso tempo non cresce anche la produttività del sistema, la sua prospettiva è la precarietà. Una volta per tutte, bisognerebbe prendere atto che non è con bassi salari e bassa qualificazione professionale che potrà crescere la ricchezza del Paese. I primi sono una evidente realtà, la seconda è marcata dalla maggiore diffusione del lavoro povero e dalla minore disponibilità di professionalità altamente qualificate.
Soltanto una massiccia diffusione della cultura d’impresa, del miglioramento delle condizioni di lavoro e dell’innalzamento della qualità delle competenze di chi lavora possono assicurare una solida prospettiva di benessere sociale ed economico. Resta sempre valido l’assioma di Romano Prodi: “un Paese non può rimanere a lungo ricco e ignorante; prima o poi uno dei due termini cederà il passo all’altro”. Ci stiamo avvicinando pericolosamente al redde rationem.