Gino è un ottantenne anomalo. È della prima generazione che ha rinnegato la cultura dei luoghi, quella che ha interpretato l’apparente contraddizione del sorriso dei genitori, pur di fronte ai calli sulle mani, al sudore, alla pelle bruciata dal sole, come supina accettazione di ingiustizia sociale, quella che – forse inconsapevolmente – ha innescato la miccia per i processi di insostenibilità ambientale del pianeta.
Gino, invece, ha mantenuto intatto lo sguardo sognante di sua madre, china nell’orto, felice quando osservava – per l’ennesima volta – il risveglio della natura all’alba o quando descriveva la ripresa dei suoi ulivi, quell’anno, e chissà che olio meraviglioso che ne verrà, o mentre sistemava il canale naturale che portava l’acqua raccolta nelle grandi vasche verso le piante. Gino è passato indenne nel galoppante corso di involuzione culturale, che ha prodotto l’inevitabile progressiva perdita della sapienza della gente contadina della sua comunità, la scomparsa dei presidi umani nelle campagne e sul territorio, l’impulso intrattenibile dei giovani ad andare via, più di prima…
Mi piace ascoltarlo. Mi consente di percorrere al contrario il percorso involutivo, di riassegnare i valori. Negli ultimi anni, però, ha acquisito maggiore consapevolezza dei disastri che si sono materializzati, quelli sociali ed economici, ma soprattutto quelli a danno della natura, grande amica di sua madre.
E così, spesso mi chiama per denunciare i tristi fatti che accadono nella nostra terra. È franata la strada, per la prima volta il nido sull’albero nell’orto è rimasto vuoto, se domani non piove perdiamo il raccolto, ti ricordi il figlio di Maria? Se ne è andato al nord pure lui…
Quando leggo il suo nome sul display del telefono, confesso di essere assalito dall’ansia e rispondo velocemente per ridurre l’attesa di paura. L’inizio, quella volta, fu più sereno del solito. Apparentemente… La grande acacia vicino al pollaio; ti ho mai raccontato quante volte ci sono salito su, da bambino, per cercare i nidi, inseguire i gatti, evitare le punizioni di mamma. Mi piaceva soprattutto vedere oltre l’orizzonte solito. Quell’albero è l’emblema della fierezza dei nostri avi. E dell’utilità. Pochi fronzoli, maestosità, ombra, foglie per i conigli. Quanti ricordi! Non capivo. Poi il cambio di tono nella voce. Stanotte è caduta.
Ho lasciato trascorrere molti giorni prima di andare a vederla. Anche per me, era legata a momenti indimenticabili della vita. Ma perché, Gino, pur di fronte alle tempeste di questo inverno, perché? Sembrava così forte…
Ora è l’emblema della resa.
Che strano, però. Sembrava adagiata sul fianco, nessun segno di spaccatura nel grosso tronco, appariva come sradicata dalla terra, prima di cadere laddove il terreno è libero, senza fare danno alcuno. Il suo ultimo dono.
Ogni anno, ormai da tanto, facciamo la conta dei danni dell’inverno sul terreno coperto dall’uliveto. E d’estate dal fuoco. Frane sempre più estese, le stradelle impraticabili in molti punti, la pioggia che scava in profondità solchi che scendono impazziti trascinando tutto, le radici degli alberi scoperte dall’insistenza dell’acqua che sbatte con violenza. Ripetutamente cambiano i percorsi, che si adattano ai mutamenti del terreno e delle pendenze. Un paesaggio instabile, che fa perdere l’identità ai luoghi, disorienta uomini e animali, rende precario l’ambiente, rinnega realtà che decenni orsono erano cariche di vita, popolate e sicure.
Tutto successe senza che ce ne fossimo resi conto. Fino agli anni ’50, un luogo di lavoro della campagna era pure luogo di significativa bellezza. I filari di ulivi occupavano ciascuno un terrazzamento, con gli splendidi muri in pietra, a secco. Altri terrazzi erano per gli alberi da frutto e altri per gli orti. Scalini e sentieri ben definiti rappresentavano una viabilità consolidata, con gli argini e anche qualche rudimentale staccionata. Fiori dappertutto. Un mirabile sistema di raccolta delle acque, fra canali e vasche, per l’irrigazione, ma pure per regolamentare i flussi, ridimensionare la forza d’urto e proteggere ogni cosa. Una concezione geniale, progettata e trasferita sul campo dalla perizia antica dei lavoratori della campagna, curata e migliorata con costanza e volontà.
La bellezza al servizio dell’ambiente, per donare alle persone luoghi per vivere bene. Un paesaggio rurale carico di storia, stabile nelle sue componenti strutturali, variopinto e sicuro. Ricordo le perlustrazioni nei giorni di pioggia insistente, i piccoli interventi nei punti deboli, nessuna paura, sensazione di essere protetto da una natura grata. Per la cura dedicata. E per la presenza umana.
Poi, il mondo rurale vero, quello che usava la zappa, che percorreva a piedi la campagna, che si immedesimava nella natura e nei suoi ritmi, piano piano sfumava, lasciando spazio, come in un film apocalittico, alla meccanica cieca, agli enormi trattori che calpestano ogni cosa. Il salto è angosciante: dal contadino che, vivendo in simbiosi e immergendovi le mani, sentiva sua la terra e la proteggeva, al conduttore del trattore, distante, incapace di amarla, inconsapevole del declino del pianeta.
Davvero hanno calpestato tutto quello che incontravano. Hanno divorato i muri in pietra dei terrazzi, restituendo distese instabili in cui l’erba fatica a crescere fra il pietrame sminuzzato. Hanno portato via tutta quella vegetazione che si integrava nell’uliveto, secondo una visione assoluta del profitto. Un paesaggio colorato e ricco di biodiversità è diventato grigio e povero di vita.
Hanno ucciso la bellezza. Abbiamo ucciso la bellezza.
Trovai la forza di ritornare solo all’inizio dell’estate. Era sempre lì, coricata sul fianco… Chiamai Gino. “Perché non me lo hai detto?”. Pausa. “Perché sapevo, temevo la tua reazione”. “E che cosa avrebbe avuto di male la mia reazione?!”. Pausa. “Vedi…, salvare un albero non è la soluzione”. “Forse no. Ma intanto facciamo quello che possiamo. Tua mamma era capace di trascorrere la notte intera alla ricerca di una sola gallina che non era rientrata…”.
“Sai che successe veramente? E non una volta. In una di quelle occasioni compresi la parabola del figliol prodigo. La rimproverai perché nell’ansia di partire alla ricerca, dimenticò il pollaio aperto. Ma come, per salvarne una, rischi di perderne dieci?! Nessun rischio. Sapevo che erano in buone mani. C’eri tu, il cane, e pure il gallo non scherza. E rideva. La volta che non riuscì, pianse di grande dolore…”.
“Dunque, mi dai ragione?”.
“Vorrei, ma è cambiato il contesto e anche la scala dei valori. Per lei, la gallina era importante per la vita; significava sfamare la sua famiglia con le uova che avrebbe fatto. Oltre all’amore per un essere a cui voleva bene e che aveva allevato con sacrificio. Oggi, il tempo per ritrovare l’animale smarrito sarebbe solo un impegno finanziario decisamente superiore al valore monetario trascurabile di un essere vivente non considerato tale. Così, il terreno fra gli alberi non è più uno spazio di vita, per la gente, ma pista di transito. In una visione così, cosa vuoi che sia salvare un albero?! In altre parole, mia madre otteneva un risultato reale, tu no. L’albero ricadrebbe fra qualche mese, insieme a tanti altri”.
“Lo so, Gino, dovremmo ricomporre il sistema distrutto nei decenni trascorsi, ma forse è utopia. Magari salvare un albero potrebbe essere un atto educativo…”.
“Il restauro del paesaggio, così lo chiamate voi, non è più utopia, è necessità. Di sopravvivenza. E poi, posso dirti un’altra cosa? L’acacia avrà più o meno la mia età. Siamo stanchi di vivere di nostalgia e ricordi”.
Mi venne in mente l’atto finale della partita, quella per antonomasia, Italia Germania 4-3. Ve lo ricordate? Tutti i giocatori erano esausti e quasi incapaci di muoversi. Il centravanti, anche nelle sembianze uomo della terra, non era spaventato dal dolore della fatica, corse sulla fascia senza che nessuno riuscisse a contrastarlo e diede un pallone che fu facile spingere in rete. Poi, scomparve. Si, caro Gino, non sono bravo con la palla, neanche davanti alla porta vuota, ma mi sa che devo provarci.