Si può fare una valutazione oggettiva sulla conclusione del lungo braccio di ferro tra il governo del cambiamento e la Commissione europea? Forse sì, e per farlo partirei dal testo del decreto legge sul reddito di cittadinanza e pensioni che circola in rete. L’articolo 12 fissa le somme stanziate per il triennio: 6.110 milioni nell’anno in corso, 7.755 nel 2020 e 8.017 nel 2021. Somme che tutte le stime ritengono nettamente inferiori a quelle necessarie, in base alle stesso articolato del decreto, a cominciare dai 780 euro mensili per i nuclei familiari che non abitano in una casa di proprietà.
Il comma 6 infatti stabilisce una riduzione del beneficio monetario in proporzione all’eccedenza delle domande rispetto alle somme stanziate. Lo fa in modo piuttosto criptico: l’INPS accantona delle somme, un decreto interviene nel momento in cui si arriva ad esaurimento, l’erogazione è sospesa e si da luogo ad una riduzione proporzionata.
Il senso del comma è però chiaro: il governo s’impegna a rimanere nei limiti dello stanziamento, e fornisce l’assicurazione di ciò alla Commissione. Questo comma presente nelle disposizioni finali mi sembra significativo, insieme ovviamente ai due miliardi accantonati nel caso di andamenti economici negativi e, ovviamente, agli abnormi aumenti dell’Iva previsti per rispettare i deficit concordati nel 2020 e 2021.
La conclusione è: il governo con Salvini-Di Maio è partito alla carica, poi il presidente Conte, con la benedizione di Mattarella (e di tutto l’establishment economico) ha fatto il dietro-front. La cosa ricorda la carica della cavalleria leggera inglese contro i cannoni russi nella guerra di Crimea. Fortunatamente invece di morti e feriti la carica si è conclusa con una riduzione dello spread sotto i 300 punti base, ma ci ha lasciato tassi d’interesse doppi rispetto a quelli spagnoli.
Non è difficile individuare i cannoni che hanno determinato questo risultato: lo spread, le agenzie di rating, e gli acquisti retail (cioè dei piccoli risparmiatori, che sono mancati) di BTP. Il governo del cambiamento avrebbe dovuto sfidare il fiscal compact con spese d’investimento, invece che spesa corrente. Sfidata dal governo la Commissione ha adottato l’atteggiamento tipico dei romani antichi: parcere subiectis et debellare superbos. Che il governo fosse superbo era chiaro non solo dalle affermazioni alla “me ne frego” dei due viceministri, ma dal non rispetto del deficit strutturale.
Ora il deficit strutturale, come criterio per valutare la politica fiscale di un governo, è un concetto che è stato introdotto dall’impostazione keynesiana (con anticipazioni da parte della scuola svedese negli anni trenta). E’ un’idea ragionevole; negli anni cinquanta Cary Brown dimostrò che i deficit pubblici del periodo della grande crisi erano interamente (o quasi) dovuti alla recessione, e non a politiche di spese pazze. Poiché però i metodi, per stimare il deficit strutturale, sono diversi, e danno risultati (molto) diversi, sarebbe ragionevole che la Commissione tenesse in considerazione i diversi metodi. Invece, guarda caso, è stato scelto proprio quello che trasforma l’andamento ciclico in trend strutturale con estrema rapidità.
In questo modo si ottengono risultati assurdi. Per la verità, quando all’inizio dell’estate la Commissione concordò con Tria un deficit (nominale) pari a 1,6%, non si sapeva che il terzo trimestre sarebbe andato male (e la cosa sarebbe proseguita nel quarto). Con le informazioni di ottobre un deficit sul 2% non avrebbe trovato sostanziali obiezioni da parte della Commissione. A quel punto la proposta di una decina di miliardi per ben specificati progetti d’investimento (da realizzare subito) avrebbe messo in maggiore difficoltà Commissione, agenzia di rating e mercati finanziari. Ma evidentemente una impostazione di questo tipo avrebbe comportato o una attuazione molto graduale dei due provvedimenti-bandiera, o la necessità di trovare il finanziamento con tagli di altre spese o aumenti d’imposte.
Adesso sappiamo che entriamo nel 2019 praticamente fermi; la riduzione del nostro non entusiasmante tasso di crescita è iniziata già nell’ultimo trimestre del 2017 ed è proseguita, anche grazie al governo del cambiamento, che ci ha messo del suo nel creare un clima di incertezza dannoso a consumi e soprattutto investimenti. Purtroppo le misure varate dopo la ritirata di Conte non sono tali da ridare slancio all’economia; sarebbe già un successo raggiungere l’uno per cento di crescita. Speriamo a questo punto che le somme stanziate per il reddito di cittadinanza entrino in funzione nei tempi previsti. Sei-sette miliardi per il contrasto alla povertà sono una cifra del tutto ragionevole; anche se penso che il provvedimento avrebbe potuto essere disegnato in modo migliore, utilizzando tra l’altro l’esperienza del Rei, comunque si tratta di un’iniezione di potere d’acquisto che dà del respiro al sud.
Ma non c’è da aspettarsi effetti sull’occupazione, né dal reddito di cittadinanza né dalla quota 100 delle pensioni. Non si tratta solo del fatto che la costruzione del sistema informatico per collegare i beneficiari del reddito di cittadinanza alle imprese è qualcosa che prenderà come minimo un paio di anni; il punto è che la domanda di lavoro sarà estremamente fiacca, o rivolta a tipologie molto specializzate di lavori, presenti tra l’altro quasi solo nel nord.
Tornando alla battaglia di Balaklava, sembra che un generale francese esclamasse: “E’ magnifico, ma non è guerra, è follia”. Si può concludere che la legge di bilancio, lungi dall’essere magnifica, è un’occasione persa; non è così che si fa una politica fiscale nuova.
*da Eguaglianza e Solidarietà, 11/01/2019