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La libertà come coscienza delle necessità

Tempi di coronavirus: finito lo sgomento e la paura, dobbiamo abituarci alla convivenza con il Covid 19? Con quali regole e ordinamenti sociali, con quale economia, con quale ecologia? Con le regole dell’accettazione e della sola prudenza? Degli “aggiustamenti” o dei cambiamenti? Con la coscienza di essere alla presenza di un fatto nuovo o all’inizio di fatti nuovi? 

Se, come possibile, è madre Gaia che sta mettendo in essere azioni resilienti fino ad oggi a noi sconosciute, abbiamo e avremo di fronte tempi difficili e complessi che devono diventare presupposti di osservazione e studio, di valutazioni, ripensamenti, scelte. 

Ci aspetta un periodo complicato, che dovremo affrontare pieni d’ignoranza e non solo rispetto al come e al dove sorgono le nuove epidemie e pandemie; è un periodo cui arriviamo con cattive abitudini sociali ed economiche difficili da abbandonare, costruite in un rapporto ecologicamente infame con la natura; è un periodo comunque più complicato di quello trascorso nella paura durante il quale ci siamo difesi rintanandoci e organizzando l’emergenza.

La convivenza è sempre complicata, e soprattutto con uno sconosciuto, ma la sua presenza potrebbe essere un memento el’occasione, anche se drammatica, per trovare il coraggio sociale ed economico per costruire nuove abitudini e stili di vita, studiare e capire perché e da dove nascono le novità che la natura ci propone, definire nuovi paradigmi sociali, economici ed ecologici capaci di rapporti corretti con la natura.

Per sapere come misurare il futuro, dobbiamo sapere se abbiamo accanto l’avanguardia di un nuovo esercito o un elemento/evento nato da una condizione sfavorevole. Certo l’affacciarsi di Kawasaki, le epidemie degli ultimi decenni, la polluzione imperante, uniti all’allegra leggerezza con cui abbiamo spesso stravolto molti ecosistemi, fanno pensare all’avanguardia di un esercito che nasce da variazioni e condizioni, forse da noi favorite e che in tutti i casi non siamo stati capaci di prevedere e governare.

L’unica uscita dall’incubo di un presente doloroso non è aspettare che passi la nottata, bensì costruire il futuro rileggendo con coscienza critica il presente. Dobbiamo pensare un futuro in cui questo presente, con il passato appena trascorso, non ne sia la matrice diretta e lineare.

È nei tempi del coronavirus che la natura ha mostrato la sua autonomia porgendoci, in tutta la sua drammaticità, una realtà a noi sconosciuta, con il dubbio che sia nata da un’azione resiliente a qualche equilibrio ecosistemico da noi fortemente compromesso.

È quest’autonomia di madre Gaia che ci tramuta da soggetti attuatori di alcune modificazioni ecosistemiche a oggetti che ne subiscono le azioni resilienti.

Questo passaggio da soggetto a oggetto non è determinato dalla “sorte cinica e bara” ma dalla nostra ignoranza che con caparbietà costruisce economie, stili di vita, distribuzione del lavoro e della ricchezza non compatibili con il peso ecologico dell’uomo e dell’impronta ecologica che impone.

Per questo, con la coscienza critica del presente, dobbiamo immaginare e pensare un futuro che non sia la prosecuzione lineare del vissuto degli ultimi decenni, ma che nasca dalla percezione cosciente degli errori commessi, un futuro che crei una cultura, una scienza, un’economia capace di proporre e realizzare comportamenti individuali e sociali volti a conservare, costruire e ricostruire equilibri; un futuro quindi che si articoli sui paradigmi della qualità, dell’equilibrio naturale e sociale, che ridistribuisca non i consumi ma le ricchezze prodotte dal lavoro e della natura, in una sfera di socialità economica ed ecologica compatibile e virtuosa.

È questo ciò che dobbiamo e dovremo fare? Sicuramente sì: se non ora quando?

Gli ultimi mesi, nei quali il mondo si è trasformato nella città proibita ela finestra di casa è diventata l’unico punto di osservazione di un paesaggio consumato, ci obbligano a leggere e ad affrontare la realtà con parametri, paradigmi e comportamenti diversi.

Sono queste letture e nuove pratiche della realtà che dobbiamo sviluppare, facendole diventare cultura sociale. Dobbiamo promuovere politiche di equilibrio sociale e ambientale, capaci di produrre e formare la ricchezza come bene collettivo; e ancora promuovere politiche che realizzino il lavoro, i processi produttivi e distributivi per il ben-essere sociale e degli ecosistemi, politiche che abbiano la qualità come valore e come paradigma. 

È sulla qualità e sull’efficacia dei processi di trasformazione che si deve formare l’organizzazione del lavoro, della produzione, la scelta dei prodotti e dei consumi.

In questi mesi di clausura abbiamo ampiamente verificato l’incertezza delle scienze e delle culture segmentarie, imperanti nelle professioni e nel sentire comune rispetto ai valori olistici del binomio trasformazioni dell’uomo-reazioni della natura nella ricerca di un equilibrio conseguente.

Abbiamo verificato la timidezza che molta parte della scienza (in particolare di quella maggiormente dedicata alla ricerca applicata) mostra quando deve dire “non so” e quando non sa descrivere gli effetti delle trasformazioni che le economie settoriali e lineari chiedono perentoriamente di applicare. E chiunque abbia fatto per mestiere il ricercatore, sa che questa perentorietà è imposta dal mercato che paga solo ciò che può essere trasformato in prodotto economicamente interessante.

Sono evidenti i limiti dei paradigmi sui quali abbiamo costruito i valori del consumo e gli andamenti economici del mercato dei decenni appena trascorsi, su cui abbiamo organizzato non solo la produzione materiale delle merci ma la parcellizzazione della distribuzione. Il risultato è stato il proliferare dei tanti interessi che per sopravvivere devono essere perennemente in concorrenza spietata tra di loro, devono contenere i prezzi aumentando le distorsioni del mercato del lavoro, lo sfruttamento, il lavoro nero, la corruzione.

Il risultato è che nelle città le vie commerciali sono diventate teorie di attività rivolte alla dovizia consumista; le piazze sono state sostituite dai centri commerciali in cui portare figli e nipoti non per socializzare ma per desiderare giochi che faranno in solitudine.

E poi nessuno vuol rinunciare agli standard di vita imposti dai disvalori del consumismo. Dopo l’esperienza drammatica del corona virus, dopo aver visto, senza poterli assistere, i morti sepolti nelle fosse comuni, dobbiamo rimettere in discussione la cultura quantitativa di consumi sempre meno importanti e di ricchezze sempre meno socialmente distribuite. 

In questi ultimi decenni anche nella ricca Europa è cresciuto non solo il mondo degli invisibili, ma anche quello delle nuove povertà, dei declassamenti sociali, dell’impossibilità di accedere, anche con la cultura e l’istruzione superiore, agli ascensori sociali fino a ieri caratterizzanti le arti e professioni liberali.

Abbiamo misurato la ricchezza sui dati quantitativi del PIL e dei patrimoni personali, mai sulla qualità dei processi, dell’istruzione, del ben-essere, mai sul BES (Benessere Equo Sostenibile) come giustamente riportato nella N.L. precedente.

Perché non proviamo a costruire una società dai bei paesaggi sociali e naturali? Siamo sicuri che sia un obiettivo quello di essere i più ricchi del cimitero?

Credo che la risposta alla domanda se non ora quando? sia in realtà più semplice di quello che si possa pensare, e questa risposta è “adesso!” Inoltre questa condizione è necessaria se non vogliamo condannarci a essere destinatari permanenti delle “novità” che la natura ha in serbo per noi come risposta alle nostre attività trasformative.

Ricordiamoci sempre che madre Gaia ha forza, energia e autonomia per essere soggetto di trasformazione e non oggetto trasformato.

Sono almeno tre decenni che, con un crescendo rossiniano, ci sta elargendo nuove malattie, epidemie e pandemie. Sono piombate all’improvviso; nell’abbondanza dell’ignoranza, molte cure si sono dimostrate simili ai “pannicelli caldi” usati dai cerusici prima della penicillina.

Senza rimuovere le condizioni che generano le negatività, ci accingiamo a uscire dalla clausura per approdare alla libertà vigilata. Ma come? Con la sola forza del valore delle abitudini? Se è così, allora è vero che l’ignoranza è l’unica giustificazione per riproporre il futuro come figlio diretto del recente passato. 

Sul micro dobbiamo iniziare a ragionare “subito”, perché è “subito” che diventa quotidiano; lo dobbiamo fare senza giustificazioni e con categorie ampie ma capaci di contenere dettagli e sfaccettature affinché il particolare e gli interessi di alcuni non cambino lo schema del ragionamento e delle considerazioni. Se esistono, ed esistono, interessi particolari e di categoria, questi devono arricchire gli schemi e non diventare elementi di conflitto, o peggio ancora portatori di soluzioni corporative e conflittuali.

Veniamo da molti decenni in cui lo sviluppo del manifatturiero si è realizzato su alcuni parametri conosciuti tra cui uno è preminente, ed è il consumo; il valore del dio “consumo” ci ha marcato profondamente. È proprio l’affermazione del suo valore che ha determinato il nostro modo di essere, ha pervaso il nostro modo di produrre e di vivere, la nostra cultura.

§ Una lettura e una proposta

Propongo una lettura che parte da una domanda e da una considerazione.

La domanda è: perché non cominciamo ad occuparci del nostro stile di vita ripercorrendo con coscienza critica la nostra giornata?

La considerazione è: come è possibile che 2 mesi siano sufficienti a mettere in ginocchio l’economia di una Nazione?

Ripercorrendo con coscienza critica la giornata:

A) Se facciamo colazione al bar ci condanniamo a mangiare cibi precotti, congelati, comunque preconfezionati; se prendiamo la colazione a casa per lo più mangiamo cibi preconfezionati industrialmente con ingredienti  provenienti dai deserti verdi.

B) Mobilità; meglio non parlarne per i costi sociali, individuali e ambientali che ha. E poi vuoi mettere la scomodità, il lavoro, i consumi energetici, lo stress? Spendiamo un patrimonio per acquistare il prodotto con uno dei più alti indici di deprezzamento. Anche nel più semplice esame di economia ci darebbero -3.

C) Arriva la fatidica ora della pausa pranzo. Di corsa a farci del male. Le nostre città pullulano di micro attività con micro cucine e forni a micro-onde; sono un vero inno al precotto, al congelato-scongelato, comunque senza sapore ma pieni di conservanti, grassi ecc.

D) Nel ritorno a casa perché farci mancare l’aperitivo? La sua mancanza è stata simbolo, emblema e bandiera della clausura da Covid 19. Figuriamoci se possiamo fare a meno di continuare a farci del male; non rinunciamo di certo a salatini e intrugli pieni di colesterolo.

Per quanto riguarda la considerazione (stendendo un velo pietoso sulla Pianura Padana, le città e l’edilizia su cui già tanto è stato scritto e tanti morti abbiamo pianto) possiamo sintetizzare quanto segue:

1. Qualunque Paese si faccia mettere in ginocchio in 2 mesi è un Paese fragile; ma  l’Italia non è la nazione del risparmio? E allora? Per creare in così breve tempo tutta questa nuova povertà è evidente il peso che ha il lavoro nero e sottopagato, l’infausta distribuzione della ricchezza, la mancanza dello stato sociale, la vendita dei gioielli manifatturieri e del made in Italy.

2. La micro impresa è prevalente nell’artigianato, nell’edilizia, ma anche nel manifatturiero e nella distribuzione, scambio e consumo, dove imperano sempre il lavoro nero, sottopagato, precario.

3. L’agricoltura italiana, dell’area geografica più forte e più resiliente del Mediterraneo (che a sua volta è una delle 5 aree più forti e resilienti del pianeta), produce solo energia alimentare e riempie la terra di scarti e inquinamento. Perché non corredarla di tutti i vantaggi dell’economia circolare con tutti i prodotti qualitativamente riconoscibili?

4. Le aree interne avendo perso qualsiasi forma di autonomia economica sono diventate non solo economicamente ma anche socialmente e culturalmente dipendenti dal turismo urbano e non reggono neanche “la chiusura degli impianti  a fune” (un esempio per tutti).

5. Il turismo si accontenta di vendere le bellezze del passato ed è completamente disinteressato ai disvalori del presente. Accetta le orribili periferie, il consumo dissennato del territorio, la perdita dei valori paesaggistici urbani, agrari e naturali; non ha mai cercato rapporti virtuosi con l’agricoltura di qualità, né con la pesca, né con i forestali. La manutenzione dei paesaggi attraverso il lavoro gli è estraneo come è estraneo alla cultura e ai programmi-progetti istituzionali. 

Partendo proprio dal terzo, quarto e quinto punto vediamo quanto si può fare se invece di poggiare tutta la ripresa economica sulla richiesta dei finanziamenti a fondo perduto, proviamo a ripartire adottando la cultura della qualità e usando il metodo della riqualificazione (dall’ambiente all’urbano, ai salari, al tempo di lavoro, ai prodotti).

1. L’agricoltura e la zootecnia oggi producono, fatti salvi alcuni prodotti di eccellenza, più per produzioni quantitative che qualitative. I valori dei prodotti orticoli, caseari e zootecnici spesso si sono persi per l’inquinamento dei territori, la partecipazione attiva al degrado sociale, produttivo e ambientale della corruzione e della delinquenza organizzata. Non parliamo poi della perdita qualitativa dei prodotti trasformati. Il risultato sono alimenti mediocri per qualità organolettiche, energetiche e salutari. Questi processi non solo hanno diminuito la qualità dei cibi ma hanno trasformato il paesaggio agrario in capannoni e deserti verdi pieni di inquinamento, il mare in una discarica di riserva, le coste marine … stendiamo un velo pietoso. 

Eppure è facile invertire il processo: basta assegnare al settore agricolo-zootecnico il ruolo di trasformatore-produttore di energia tout court (compresi gas, concimi, elettricità da biodigestione), dotarlo della cultura e delle tecnologie necessarie e trasformare i finanziamenti di sostegno con finanziamenti per l’innovazione e l’istruzione.

L’agricoltura in senso lato (tanto più se vi uniamo il forestale e la pesca) è grande produttrice di scarti (dalle potature alle deiezioni, a …). Nell’economia circolare ben strutturata, tutti gli scarti, convogliati in impianti di bio-digestione e bio-trasformazione, invece d’inquinare possono diventare materie prime per la produzione di energia e materiali da fonti biologiche. Gli impianti, facilmente dimensionabili, possono servire per il fabbisogno energetico dell’azienda, per l’abitato ecc. Si tratta di attuare distretti eco-energetici dimensionati sul fabbisogno agricolo-residenziale, del lavoro e della mobilità del distretto stesso. Ai processi digestivi e di bio-trasformazione possono partecipare tutte le sostanze idonee alla combustione e al riciclo che si trovano lungo le vie e le trazzere, con grande vantaggio per la viabilità e le casse comunali. Se, ad abundantiam, progettiamo anche una serie di laghetti e li riempiamo di pesci in numero idoneo a tener pulita l’acqua, ci costruiamo riserve d’acqua, varietà alimentare e un ottimo contenimento di zanzare e insetti (i pesci d’acqua dolce sono ghiotti di larve). L’agricoltura e la zootecnia perderebbero valori quantitativi ma guadagnerebbero in qualità (con relativi prezzi) e disporrebbero di tre prodotti aggiuntivi: gas, elettricità, concimi degassificati immediati.

2. Siamo invasi dalla “monnezza” e allora “Copenaghen docet”.

Senza farla troppo lunga, sto parlando del termovalorizzatore come tecnologia propria dell’economia circolare idonea a trasformare quelli che oggi sono costi in prodotti.

Il termovalorizzatore smaltisce e valorizza, recuperando energia nella trasformazione dei rifiuti solidi che, con gli attuali mezzi di selezione/acquisto/riutilizzazione, rimarrebbero in discarica. Sono realizzabili in diverse dimensioni e questo permette di attagliarsi alle esigenze locali. La piccola dimensione (sempre utile nell’economia circolare del distretto) ha il grande vantaggio di consentire risparmi sui costi delle reti di distribuzione. Inoltre le energie prodotte sono in grado di soddisfare perimetri urbani dimensionabili. 

C’è da aggiungere che il termovalorizzatore con il suo processo d’incenerimento permette il riciclo di materia attraverso il recupero, impossibile con altre tecnologie (almeno ad oggi); permette l’estrazione di quantitativi interessanti di metalli ferrosi e non ferrosi e ceneri pesanti che, salvo verifiche, possono essere usati o nelle infrastrutture o in edilizia, sostituendo sabbia e ghiaia.

§. Abbandonando gli esempi

Sui temi dell’ambiente e dell’economia circolare, viviamo una fase in cui gli slogan si sostituiscono ai ragionamenti, alla ricerca e alla promozione di azioni concrete senza le quali è impossibile promuovere una cultura sociale fondata sui nuovi paradigmi economici.

Eppure l’uso e l’abuso del dibattito sulla promozione dell’economia verde è enorme ma come sempre, quando non si vuol trovare la soluzione di un problema, è buona norma straparlarne. 

Se non ora quando? Dobbiamo uscire da due crisi, quella economica e quella del modello di crescita fino ad ora usato, che ha prodotto enormi disturbi agli ecosistemi naturali che  per ora hanno reagito con assaggi epidemici, riscaldamento ecc.; poi?

Dobbiamo fare attenzione alla concretezza, vivendo in una società in cui l’informazione come tale ha superato l’uso documentale dell’informazione stessa; le parole hanno preso il sopravvento sulle azioni a tutto vantaggio del mantenimento dello status quo e degli interessi consolidatisi nella storia che ha formato i problemi e i dissesti ecosistemici.

Bisogna agire e studiare, preparare e organizzare azioni che possano dare concretezza alle soluzioni e non alla sola evidenza dei problemi sociali, economici, ambientali.

Tra i vari problemi il primo da tener presente è quello del lavoro e della distribuzione sociale della ricchezza. Cominciamo a pensare seriamente a processi produttivi ecosostenibili (come quelli sommariamente espressi negli esempi) attuati con la diminuzione dell’orario di lavoro a parità di salario (vi ricordate le 35 ore?)

A questo si aggiunge un elemento determinante: i problemi evidenziati, che vivono all’interno di una crisi profonda in gran parte da loro stessi prodotta, comportano, nella loro soluzione, nuovi lavori, nuovi investimenti, nuovo benessere sociale e ambientale.

Questo fa sì che sia proprio il mondo del lavoro il principale portatore d’interesse di una nuova economia.

Se continuiamo ad andare dietro alle richieste delle attività così come si sono consolidate, non potremo che continuare a tamponare situazioni in crisi latente e preannunciata per loro stessa definizione. Prendiamo ad esempio il settore della ristorazione nelle aree turistiche e il turismo in generale. La micro impresa, quella che definisce le aree “mangificio”, che costruisce menu all’80% sui precotti e serviti in micro-tavoli da camerieri improvvisati, entra in crisi appena intervengono delle misure igieniche legate al rispetto delle distanze, e comunque al rapporto ottimale tra volumi e frequentatori. Lo stesso discorso vale per la rinuncia all’estensione delle presenze distribuite nell’arco dell’anno e non delle stagioni storicamente prevalenti; quando servono progetti strategici, la micro impresa locale si contrappone e impone la sua esistenza non strategica per l’area stessa. 

È sulle nuove soluzioni che si può costruire la nuova economia della qualità e del lavoro.

Partire dal mondo del lavoro e dai soggetti reali, che formano e producono la ricchezza, è un modo certo per costruire azioni concrete abbandonando la produzione di riunioni a mezzo di riunioni .

Purtroppo il mondo del lavoro si è perso e disperso nei mille rivoli dell’individualismo e sovranismo, delle differenze sociali e dell’iniqua ripartizione della ricchezza e dei salari.

Bisogna ritrovare, nella proposta di azioni concrete, le capacità aggregative che favorirono le formazioni della cooperazione e dei sindacati.

Oggi il mondo della produzione non si articola sul solo binomio capitale/lavoro. I soggetti sociali, amministrativi e finanziari che devono essere interessati sono molteplici e derivano dai molti accessi al credito.

In questi nuovi finanziamenti delle attività riqualificative dei territori, dell’ambiente e dei settori produttivi perde sempre più importanza chi possiede il capitale costante mentre aumenta quella di chi è in grado di promuovere, amministrare e gestire lavorando concretamente nei processi e nei progetti che permettono di usufruire dei finanziamenti come liquidità del capitale strategico per l’area. 

Ci troviamo di fronte a un tema sistemico. Niente di meglio se vogliamo avviare economie sistemiche capaci di prodursi e riprodursi nella circolarità degli investimenti, delle convenienze sociali e individuali, del ben-essere.  

Oggi dobbiamo considerare invarianti i temi e i valori dell’economia locale, della partecipazione, dello sviluppo locale e dell’Ente territoriale idoneo e legittimato a gestire i processi.

Non è sufficiente la partecipazione di un solo soggetto (che al massimo può essere trainante), ma sono tutti gli attori del territorio che devono comparire per garantire un progetto sistemico in cui tutti ritrovino le loro convenienze.

Dobbiamo individuare aree che, indebolite dalla mala economia (significativo l’esempio tra la stagionalità in un’area turistica montana e l’estensione annuale di tutta l’economia dell’area interna), siano capaci di aggregare attori e settori, nella circolarità delle convenienze e degli investimenti.

Senza la presenza della pluralità degli attori e delle convenienze, accade quello che è accaduto fino a oggi: NULLA.

L’economia circolare ha basi teoriche sorrette da alcuni esempi importanti soprattutto per ciò che riguarda le aree a crescita ritardata o dipendente. La circolarità dell’economia, la tramutazione della voce spese (che oggi troppo spesso compare nei bilanci) nella voce  investimenti, è fondamentale per la cultura dell’azione ecologicamente corretta capace di progettare non solo la mutazione ecosistemica necessaria ma anche l’equilibrio della post-mutazione. Senza cultura e teoria si costruiscono azioni effimere incapaci di durare.

La verifica dell’azione nel suo nuovo equilibrio e il suo consolidamento nella coscienza sociale sono fondamentali perché l’economia circolare è talmente lontana dalla nostra cultura d’uso, “moderna e quantitativa”, che deve iniziare per progetti circostanziati capaci di legittimare, in modo empirico, i vantaggi del sistema uomo-natura.

Enfatizzo il termine empirico (pur essendo per tradizione culturale più votato alle teorie), perché ogni territorio è un sistema singolo e definito, e l’economia sistemica deve creargli un vestito su misura. Nell’economia sistemica e circolare non esistono i prêt à porter, tutti i vestiti sono su misura.

Ogni bravo montanaro o operatore dell’edilizia acrobatica sa che, prima di sporgersi, deve essere sicuro che la corda sia fissata bene. Sui temi dell’economia sistemica e sulla sua struttura circolare, le confusioni sono ancora molte e quindi va posta molta attenzione: non si può sbagliare e dobbiamo iniziare con il nodo giusto.

Abbiamo bisogno di esempi e di sperimentazione. Un antico proverbio dice: “Se vuoi andare veloce vai solo, se vuoi andare lontano vai insieme”; dobbiamo lasciare la solitudine agli slogan e ai lamenti (che corrono veloci sui media di tutto il mondo) e, per andare lontano, iniziare subito e insieme un percorso virtuoso, di progetti e di verifiche empiriche.

Chi si occupa di economia circolare o di economia sistemica (la generalità in cui la prima si attua realizzandosi) ha due riferimenti fissi: lo sviluppo locale (non ci sono prêt à porté) e la partecipazione. A questi due temi si aggiungono quelli della multiculturalità come valore sistemico dell’integrazione e della circolarità degli interessi.

Sono temi che non possono essere disattesi soprattutto ora che stanno avanzando sovranismi e destre. Questi sono sorretti non solo dai negazionisti dei problemi climatici e dei dissesti ambientali, ma hanno fatto il pieno di voti da parte dei poteri e dei conservatori degli interessi consolidati, delle scienze settoriali, dell’economia mono-direzionata.

L’economia sistemica, nel suo strumento applicativo dell’economia circolare, è una rivoluzione perché cambia i soggetti d’interesse, la struttura e il modo di formare la ricchezza e di distribuirla.

Cambia anche la partecipazione al lavoro, la formazione dei salari e la giornata di lavoro. Soprattutto nelle aree interne, in quelle agricole, in quelle aree cioè che storicamente sono state le aree dei mille mestieri e dei mille saperi possiamo ritrovare le ricchezze culturali e formative capaci di far cantare e risuonare i valori della complementarietà dei processi. 

Quando un paese diventa faber delle sue soluzioni, quando cioè passa da oggetto che subisce i danni del dissesto, a soggetto che ricostruisce le condizioni di sicurezza, ORGANIZZA di fatto nuovi lavori con nuove economie. È su questo che si ridefinisco economie, distribuzione e preminenze, attuando un processo sociale ed economico sostitutivo. Una rivoluzione? Comunque una condizione che può mandare a casa gli attuali modi di produrre e formare la ricchezza e la sua distribuzione.

Gli attuali proprietari della formazione della ricchezza e della sua ripartizione sociale (sia salariali sia di sicurezza sociale e strutturale) o si convertono o ti combattono avendo tutti i vantaggi di chi difende il conosciuto e il consolidato. 

È da qui (o anche da qui) che rinascono destre e sovranismi.

Che fare? Cominciare a operare con continuità sui territori con la cultura della qualità e del lavoro, sorretti da progetti sistemici capaci di coinvolgere interessi e lavoro e soprattutto con il lavoro come perno dell’azione, della formazione della ricchezza e della distribuzione della ricchezza.

* Manlio Vendittelli 

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