Il Baden-Württemberg è il primo Land nel quale la IG Metall, dopo aver intensificato la lotta la scorsa settimana con azioni di sciopero di 24 ore (culminate nella giornata di venerdì 2 febbraio con la fermata di 300mila lavoratori del settore automotive), firma l’accordo per il rinnovo del contratto collettivo. L’intesa farà da apripista ai negoziati che si svilupperanno negli altri Länder tedeschi, riguardando complessivamente in tutta la Germania 3,9 milioni di occupati nei diversi settori dell’industria metalmeccanica ed elettrica. In Germania non esiste un vero e proprio Contratto Nazionale.
Come ci segnala l’ufficio internazionale della Fim Cisl a guida di Gianni Alioti, ci piaccia o no, è chiaro che ci troviamo in presenza di un fattore di discontinuità. Dopo anni segnati dalla moderazione salariale, frutto di una politica sindacale improntata al pragmatismo necessario a contrastare gli effetti dalla crisi economico-finanziaria, la IG Metall (il più grande sindacato al mondo con 2 milioni e 260 mila iscritti ha accorpato i sindacati dei settori industriali), ha innestato la quarta. Nessuna abiura delle scelte del recente passato, nessuna improvvisa radicalizzazione. Ma, questo sì, un cambio di fase e di prospettiva economica.
Per anni in Germania, nonostante la stabilità del quadro politico, il faro dell’azione sindacale è stato la difesa e la creazione di lavoro, anche a costo di stipulare accordi difensivi e di contenere le richieste contrattuali. C’è un grafico, pubblicato nel novembre del 2016 dal Financial Times (vedi grafico),
che al riguardo è illuminante perché mostra come le retribuzioni in Germania non siano aumentate di pari passo con la produttività del lavoro, dando così alle imprese tedesche un vantaggio rispetto alla concorrenza estera.
Per la verità una parziale inversione di tendenza si era registrata a partire dal 2014, da quando cioè i rinnovi contrattuali hanno cominciato a ridurre la forbice tra incrementi della produttività oraria del lavoro e salari reali. Per IG Metall era arrivato il momento: i lavoratori dovevano recuperare parte di quella ricchezza che in questi anni hanno contribuito a generare. Con il portafoglio ordini delle aziende pieno, profitti da record ed un’economia in crescita costante, la prima richiesta, molto importante considerato il contesto, è stata di un aumento salariale del 6 per cento per 12 mesi, contro un’inflazione attestata tra 1,7 e 1,8 per cento (va tenuto conto che in Germania esiste un unico livello di contrattazione collettiva, dunque nelle aziende in cui si applicherà questo contratto, circa il 35% del totale, non ne saranno firmati altri) l’accordo invece è valido per 27 mesi e per il primo anno recupera un 2,8% di salario, circa un 1 % di produttività in più dell’inflazione, ricordando che queste aziende non avranno altri recuperi salariali attraverso la contrattazione aziendale (come da noi).
L’accordo raggiunto prevede un aumento dei minimi retributivi del 4,3 per cento a partire da aprile 2018 (i primi tre mesi dell’anno sono coperti da una tantum di 100 euro). Nel 2019 saranno erogati due importi annui: uno del valore di 400 euro uguali per tutti e uno pari al 27,5 per cento del salario mensile percepito. Nel 2020 queste erogazioni saranno consolidate nei minimi retributivi.
Per quanto riguarda l’autodeterminazione dell’orario di lavoro e la riconciliazione tra lavoro e vita privata, l’accordo introduce importanti novità a partire dal 2019. È riconosciuto il diritto soggettivo del singolo lavoratore di ridurre l’orario di lavoro (con riduzione parziale del salario) fino a 28 ore settimanali per un minimo di sei e un massimo di 24 mesi con parziale compensazione del salario perduto. Dopo la scadenza del periodo concordato, potranno decidere di tornare a orario pieno. I lavoratori che devono prendersi cura dei figli (fino ai 14 anni d’età) o dei familiari anziani, oppure lavorano in turni o in attività usuranti, sempre dal 2019, potranno scegliere, anziché il sussidio supplementare concordato, ulteriori otto giorni di riposo, di cui due sono pagati dal datore di lavoro.
Con questo risultato innovativo, la IG Metall ha riportato la qualità della vita al centro della contrattazione collettiva. L’accordo crea un precedente molto importante per la prospettiva di una maggiore autodeterminazione dell’orario di lavoro – nella fase di sviluppo di Industry 4.0 – da parte dei lavoratori a fronte dei risultati di produttività dell’impresa tedesca. In Italia con la l.104/92 in Italia l’orario scende a 35 ore e a 32 e ulteriormente i con i permessi annui retribuiti ma solo in condizione di comprovata infermità di un familiare. In Germania acquisisce un riconoscimento per la cura di bambini e anziani più ampio e meno filtrato da usi e abusi tipici del nostro paese.
E’ un passo in avanti nella “libertà d’orario” che come Fim sosteniamo da tempo e che oggi vede nella tecnologia un grande alleato. Fino ad oggi, da ciò dipendeva la connotazione negativa del termine flessibilità, specie nel nostro paese; troppi nuovi modelli organizzativi hanno esercitato nei confronti dei lavoratori una pressione verso una maggiore flessibilità passiva ed estensione della prestazione lavorativa nell’arco della giornata. Finora, ciò ha solo avvantaggiato le aziende, spesso a scapito della vita dei lavoratori. Ora si aprono nuovi spazi per tutti. Prima dei facili slogan che discendono da traduzioni figlie di algoritmi basici e comparazioni improbabili, bisogna, però, aver chiaro che in Germania, a differenza dell’Italia, esiste un solo livello contrattuale.
Il contratto collettivo, di cui stiamo parlando, si rinnova a livello dei singoli Land, scegliendone uno come pilota (generalmente dove il sindacato è più forte), estendendolo con alcune specificità agli altri Länder. Il contratto collettivo di settore in Germania (anche nei settori industriali) ha ridotto notevolmente il suo grado di copertura. In alternativa diversi grandi gruppi (come la Volkswagen) contrattano solo a livello aziendale e, sempre più imprese (specie di piccole e medie dimensioni) applicano la clausola di uscita dai contratti collettivi firmati dalla Confindustria tedesca per applicare regolamenti aziendali unilaterali, talvolta con il consenso informale dei rappresentanti dei lavoratori in azienda.
In ultima istanza, solo da alcuni anni in Germania, si applica il salario minimo legale, il cui valore attuale è di 8,5 euro per ora lavorata, che copre solo settori o lavori “poveri”. Per questi motivi, qualsiasi comparazione tra le rivendicazioni contrattuali nei diversi paesi in Europa deve essere contestualizzata ai diversi sistemi di relazioni industriali, livelli di produttività dei settori, taglia dimensionale media delle imprese ecc. Allo stesso modo le campagne “contro il decentramento contrattuale” di alcuni sindacati europei riflettono, in quei contesti, l’assenza di contrattazione aziendale, decentramento che da noi invece porterebbe una vera svolta.
Un passo avanti è stato compiuto con il nuovo contratto nazionale dei metalmeccanici firmato con Federmeccanica il 26 novembre 2016, che si pone come una cornice di garanzia e al tempo stesso apre nuovi spazi alla contrattazione aziendale o territoriale o di rete. Si tratta a nostro avviso di un buon punto di equilibrio. I contratti nazionali, che coprono tutti i lavoratori, devono infatti fissare le garanzie minime sul piano economico e normativo, mentre la contrattazione di secondo livello, per la sua stessa natura, rappresenta lo strumento migliore con cui rispondere alle molteplici esigenze di un tessuto produttivo variegato come quello italiano.
La strategia seguita in Germania da IG Metall va letta come una lezione di grande concretezza nell’aggiustare il tiro, verso l’alto o in difesa, a seconda delle condizioni di salute delle imprese. Diciamo pure che Ig Metall ha capito prima di noi che l’idea del salario come variabile indipendente può avere un valore simbolico, ma è perdente di fronte alla storia. Purtroppo in Italia resta forte, non però tra i sindacati, ma tra i top manager. Lezione culturale prima di tutto che tiene insieme la Fim-Cisl e la Ig-Metall che dal 2014 han sempre ripetuto che Industry 4.0 è una grande opportunità.
Quello che è certo, è che le produzioni Industry 4.0 saranno sempre più “sartoriali” e contratti troppo lontani dalla fabbrica saranno del tutto inefficaci ad intercettare i profitti e nel dar forza sia al potere del lavoro e sia all’ intelligenza e sostenibilità delle relazioni industriali. E’ ora di puntare anche in Italia ad una via alta per le sfide di produttività che contempli l’investimento sulla persona in termini professionali e di ruolo, ma anche di maggiori spazi di conciliazione con la sua vita. Le altre ricette fordiste, fino ad oggi sono state inefficaci anche per gli obiettivi aziendali. La tecnologia, se vogliamo, è un grande alleato ad andare avanti, insieme e oltre.
(*) Segretario generale Fim Cisl