Se scorrerete gli articoli di questa newsletter, troverete una costante: i salari delle lavoratrici e dei lavoratori italiani hanno avuto una erosione costante nel loro potere d’acquisto nel corso di questi ultimi 10 anni. Nell’insieme della manifattura la discesa è stata più lieve. Negli altri settori (agricoltura e servizi privati e pubblici) ha picchiato più duro. Nell’industria c’è stata una buona vivacità della contrattazione nazionale e aziendale. Negli altri comparti, la contrattazione ha stentato a produrre risultati che soddisfacessero almeno la tutela dei salari reali e soprattutto è stata ritardata nel tempo, rispetto alle naturali scadenze contrattuali.
Ma questo scenario non spiega tutto. Se si tiene conto che in altri Paesi, anche a bassa capacità di pressione del sindacato, c’è stata una contrazione del potere d’acquisto ma decisamente inferiore a quella italiana, la questione non si circoscrive unicamente alla qualità delle relazioni sindacali, alla loro incisività, alla forza dell’iniziativa del sindacato.
Certamente, in Italia c’è anche il loro zampino e qualche errore lo dovrebbero ammettere. Uno fra gli altri: aver creduto che la bassa inflazione dei primi anni del nuovo secolo fosse un fenomeno strutturale, che potesse prolungarsi nei tempi futuri, accettando così di scontare dalla misurazione dell’inflazione da recuperare, i riferimenti ai prodotti energetici e subendo che i rinnovi contrattuali nei servizi privati e in quelli della Pubblica Amministrazione potessero slittare abbondantemente rispetto alle scadenze previste.
Ma se fosse solo una questione di tecnicalità negoziale e quindi di responsabilità delle parti sociali e del sindacato in specie, gli aggiustamenti ipotizzabili, per quanto innovativi possano essere, non rappresenterebbero una definitiva soluzione per il recupero sia dell’inflazione e anche della produttività. Purtroppo così non potrà essere. La faccenda è molto più intricata e si snoda lungo ostacoli che, se non vengono presi di petto, non si troverà mai il bandolo della matassa.
La prima è che la struttura produttiva del nostro Paese è fortemente frantumata. Stanno scomparendo le grandi imprese e con esse i massicci agglomerati di occupati. Prevale e si consolida una dimensione d’impresa di piccola dimensione senza distinzione settoriale. Questo nanismo ha il suo brodo di coltura in altre valutazioni gestionali, che vanno dal familismo accentratore alla maggiore flessibilità nel governo degli occupati, dal privilegio della compressione del costo del lavoro all’allergia ad investire il valore aggiunto prodotto nell’innovazione tecnologica e organizzativa.
La politica economica e industriale dei Governi degli ultimi trenta anni si è posta in questa scia del sistema di imprese. Dire che sia stata lassista è dir poco. C’è stato un neutralismo arrendevole sui destini delle grandi imprese (ce la ricordiamo la svendita della STET, ora TIM, ai “capitani coraggiosi”) che ha consentito, lentamente ma costantemente, il loro ridimensionamento produttivo o l’internalizzazione della proprietà. Oggi, per dirla con Draghi, occorre ragionare in termini di “pilastri” settoriali di dimensioni europee. A questa costruzione l’Italia ha pochissime possibilità di esercitare egemonie.
La grande impresa è stata anche il terreno principale della costruzione di un sistema contrattuale degno di questo nome, è stata sempre determinante nelle conclusioni negoziali a livello nazionale, è stata laboratorio della crescita di una cultura di governo consensuale delle grandi e piccole scelte relative al lavoro. Scemando il loro ruolo di primazia, è diventato palese che medie e piccole imprese non hanno la forza di definire strategie industriali degne di questo nome.
La media e piccola impresa non scommette sulla forza del dialogo sociale, dei Patti di concertazione. Privilegia rivolgersi alla politica e all’azione del Governo per assicurarsi convenienze di corto raggio, per ottenere politiche fiscali che alla lunga hanno reso del tutto residuale sia il riferimento costituzionale della progressività delle tasse, sia la praticabilità del criterio egualitario del “pagare meno, pagare tutti”. Ormai lo Stato sociale è finanziato soltanto dai prelievi sui redditi dei lavoratori e dei pensionati. Con il risultato che i primi arrancano, cercano soluzioni tampone che non cambiano la qualità della situazione. Sono ormai tante le leggi di bilancio che si concludono con qualche aggiustamento che non svolta rispetto alla realtà sempre più sconcertante sul piano sociale. I secondi, assistono all’erosione delle loro pensioni sia per l’inflazione non recuperata, sia per il carico fiscale in aumento, sia per il declino del welfare pubblico. Il fisco è una pietra enorme sulle possibilità di recupero di spazi anche per il miglioramento delle pensioni.
In questo contesto, il mercato del lavoro si è disgregato. Fasce di professionalità minoritarie ma altamente qualificate non solo spuntano retribuzioni largamente sopra la media e in molti comparti sono anche introvabili. Fanno da contraltare fasce di qualifiche di bassa professionalità, che hanno come riferimento l’azienda di piccole dimensioni a bassa produttività, con una struttura organizzativa debole e arretrata, produttrice di scarso valore aggiunto. In mezzo, una miriade di aziende medie e grandi che, al netto di lodevoli esperienze, utilizzano la selva dei contratti in corso e la massa delle leggi sul lavoro, fra le cui maglie si annida spesso il connubio tra lavoro legale e lavoro nero, incontrollato. La risultante, dal punto di vista salariale, di questo panorama è la crescita del lavoro povero.
Puntare all’introduzione del salario minimo non è la soluzione di questa problematica. Occorre prendere atto che la vigente legislazione del lavoro non garantisce il lavoro dignitoso a tutto tondo. Bonificarla significa ricondurre il rapporto di lavoro a due figure contrattuali: quello a tempo indeterminato e quello a tempo determinato, riconoscendo a quest’ultimo un carico contributivo maggiore per la maggiore rischiosità, ai fini previdenziali, che comporta per il lavoratore e soprattutto per la lavoratrice che lo accetta, spesso più per necessità che per scelta. In questo modo la politica salariale contrattuale può diventare più trasparente e più efficace.
In definitiva, un recupero da parte del salario di posizioni pari o superiori a quello esistente in Paesi a noi paragonabili sarà tanto più possibile quanto più convintamente si mettono in campo politiche che affrontino un riequilibrio della struttura produttiva, puntando su imprese che sappiano creare valore aggiunto attraverso innovazioni tecnologiche e organizzative. Sarà meglio praticabile se il fisco non alliscerà più il pelo di quanti vorranno continuare a fare profitti soltanto riducendo il costo del lavoro ed evitando di contribuire al mantenimento dello Stato sociale. Sarà tanto più efficace quanto più la legislazione del lavoro sia semplificata e rinvii alla contrattazione collettiva la gestione di possibili flessibilità, per meglio governare il rapporto tra domanda e offerta del lavoro.
Di contro, soprattutto il sindacato deve perseguire l’obiettivo che sia regolamentata legislativamente la rappresentanza dei lavoratori, una volta per tutte. Soltanto così, la struttura salariale resterà di competenza della contrattazione collettiva, sviluppata dalle organizzazioni maggiormente rappresentative. L’autorevolezza del sindacato resterà salda soltanto se saprà indicare valori ideali di solidarietà e di uguaglianza e li trasformerà in obiettivi contrattuali significativi, a partire dalla dignità salariale della gente che rappresenta.