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La ”narrazione” sbagliata della sinistra

Da un po’ di tempo la parola narrazione è usata un po’ da tutti: giornalisti e politici in primis. La parola richiama un racconto che, come tutti i racconti, catturano l’attenzione degli uditori o dei lettori proponendo un lieto fine, appagante e glorioso, uno svolgimento in cui il protagonista o i protagonisti incontrano e superano svariate difficoltà.

E’ la costruzione di un mito, a cui credere nonostante il/i protagonisti debbano superare svariati ostacoli di fronte ai quali, spesso, devono fermarsi o addiritura indietreggiare. Il vecchio mito della classe operaia che, a prezzo di immensi sacrifici e pagando numerose sconfitte, alla fine conquistava il potere, ha resistito per più di un secolo, credendo al “sol dell’avvenir” o al “mito degli ultimi”. Ma quel mito si è rivelato irrealizzabile perché il prezzo della mancata libertà, in quella promessa, era troppo alto da pagare, e perché l’attore della conquista del potere (la classe operaia) ha accettato, nel tempo, un altro mito. Quello del benessere crescente, basato su un indefinito aumento dei consumi.

Qual è oggi la narrazione che i diversi partiti raccontano ai propri seguaci? Se ci pensiamo bene le narrazioni degli opposti schieramenti politici differiscono per i protagonisti (i leaders dei partiti) e per gli ostacoli da superare (che sono cambiati nel tempo), ma hanno in comune il lieto fine: la crescita economica e, attraverso quella, l’appagamento di tutti i desideri, senza limiti.

Ora gli ostacoli si sono scambiati. Un tempo era la sinistra “spendacciona”, che prometteva anche traguardi irrealizzabili, e la destra rigorista. Nel tempo, parliamo di oggi, è la destra che promette mete non realistiche (pensiamo, ad esempio, alla flax tax), definite populiste, e la sinistra a richiamare il rigore della spesa. Il populismo ha dunque le sue radici in una narrazione di sinistra. Per troppi anni infatti la democrazia bloccata nel nostro paese ha fortemente contribuito a creare un habitus mentale nella sinistra da perpetua opposizione, senza mai dover fare i conti con le responsabilità di governo.

Lo scambio degli ostacoli crea gravi problemi alla sinistra, ma ancora più gravi sono i problemi derivanti dal condividere con la destra il “come va a finire”. Entrambe le narrazioni hanno, sullo sfondo, la promessa di una ripresa della crescita, possibilmente ai ritmi del “trentennio d’oro” (anni ’50, ’60, ’70) nel quale la media annua era superiore al 4%. 

Per la verità la sinistra, contagiata dal pensiero ecologista, aggiunge alla parola “sviluppo” l’aggettivo “sostenibile”, che non si capisce bene che cosa voglia dire. Infatti è sostenibile per i paesi ricchi, come il nostro, una ripresa della crescita al ritmo del 4% o più? No. Per il semplice motivo che già oggi, se tutto il mondo consumasse come un italiano medio (per non parlare dell’americano medio), il pianeta non ce la farebbe a rigenerare tutte le risorse consumate. Oggi, a livello mondiale (quindi facendo la media tra i consumi americani e quelli africani) ad agosto i consumi hanno esaurito le capacità di riproduzione del pianeta Terra. Nei mesi restanti noi utilizziamo, in una corsa forsennata al consumo, risorse che la Terra ha accumulato per millenni. Certo il risparmio di acqua e di suolo, la riduzione dell’uso dei carburanti che emettono CO2, la crescente sensibilità ecologica della popolazione, il riciclo di materiali proposto dall’economia circolare, i progressi della ricerca, sono fattori che rallentano il processo. Ma non sono sufficienti ad arrestare il deterioramento del pianeta.

Non si tratta di decrescita felice. La decrescita o il rallentamento della crescita comportano sacrifici e rinunce, soprattutto per e più ricchi, se vogliamo invertire la tendenza all’aumento delle disuguaglianze. E quindi non può essere “felice”.

La destra ha una ricetta: far pagare a una massa crescente, ma minoritaria, di popolazione il prezzo della riduzione o dell’annullamento della crescita. Ce l’ha ma, ovviamente, non lo dice.

E la sinistra? Nell’espressione “sviluppo sostenibile” l’enfasi è sullo sviluppo, che deve comunque esserci. La sostenibilità ecologica e sociale sono vincoli allo sviluppo stesso. Bisogna invertire i fattori parlando del massimo di sviluppo compatibile con la sostenibilità. La sostenibilità diventa obiettivo, lo sviluppo vincolo. Bisogna rinunciare all’idea di uno sviluppo infinito, basato sulla crescita illimitata, per sposare una dimensione qualitativa, accettando i limiti.

Questo è il profondo cambio di paradigma di cui abbiamo bisogno, il cui significato è lanciare una sfida al meccanismo capitalistico, basato sul produrre sempre di più per consumare sempre di più. Questa sfida comporta un cambio di mentalità anche nel popolo di sinistra. 

Sono necessari tempi lunghi per far nascere una speranza che si basi su una nuova promessa della narrazione: dalla quantità alla qualità. Bisogna aver pazienza.

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