Nel 2008, il Ministro dell’economia in carica era Padoa-Schioppa. Quello che criticò i “bamboccioni”. Si era all’inizio della crisi che solo ora incomincia a perdere la sua pervicace violenza, specie verso le persone più deboli. Nell’incomprensione generale e come capita in questi casi, tra una gran massa di sorrisini e dileggi, sentenziò: “nulla sarà come prima”. Oggi, la maggior parte degli opinion leaders la pensa come quell’economista – prestato ad un Governo che non durò a lungo – morto pochi mesi dopo aver lasciato l’incarico, all’improvviso. La crisi ha minato tante certezze, ha rimescolato le carte dei diritti, ha scombussolato le coordinate che distinguevano destra e sinistra sociale e politica.
Volenti o nolenti, ci stiamo avventurando su un terreno del tutto inedito circa la prospettiva di equilibri sociali ed economici soddisfacenti. Tanto a livello planetario, quanto a scala nazionale. Cina e Brasile – per citare due nazioni ad alto tasso di crescita – fino a poco fa, erano onnivori di beni e servizi; ora rallentano, mentre tutti si aspettavano che beneficiassero della ripresa energica degli Stati Uniti e di quella più stentata, ma sicura dell’Europa. In Italia, il quadro è altrettanto polarizzato. C’è chi brinda a champagne perché la macchina produttiva ha ripreso a girare a pieno ritmo (in molte zone del Nord, il Pil è sopra la media europea) e chi invece deve fare la fila per avere un po’ d’acqua potabile, come è capitato per giorni e giorni ai messinesi.
Ovunque, non ci sono equilibri decenti nella distribuzione della ricchezza prodotta. Il benessere complessivo dell’umanità migliora, parola del recente Premio Nobel per l’economia Angus Deaton. Ma questo non vuol dire che c’è maggiore uguaglianza. I ricchi diventano sempre più ricchi e il maggior benessere diffuso è dunque una partita tra le varie sfumature dei ceti sottostanti (leggere il suo libro La fuga, il Mulino). Non basta avere consapevolezza che la scienza e la pratica, l’università e l’imprenditoria, i parlamenti e il governi brillino nel sapere come far lavorare più intensamente macchine ed uomini, piuttosto che per ottenere una distribuzione dei redditi meno divaricata.
Eppure, è per questa strettoia che dovrà passare il futuro della coesione sociale, se si vuole frenare l’ondata di migrazioni in atto, contenere le spinte xenofobe e nazionalistiche, rimettere in moto scala sociale e ricambi generazionali fondati sul merito e non sul censo. Ritorna dunque di attualità la questione della politica dei redditi, come paradigma di questioni più ampie e complesse ma pur sempre emblematico di uno sviluppo che, per essere solido, deve fare i conti anche con la democrazia.
In questa strettoia, per quanto riguarda i governi e le forze politiche, si collocano le politiche per l’occupazione, le revisioni del welfare, le valorizzazioni delle conoscenze, la presa in carico degli squilibri territoriali, la salvaguardia dell’ecosistema. La finanza e l’imprenditoria ovviamente, hanno un ruolo non marginale per il successo di queste prospettive. Tanto che il Governatore della Banca d’Italia Visco ha recentemente notato che in giro c’è “poco desiderio d’investimento”, sottintendendo che la finanza gronda liquidità e l’imprenditoria non sa ancora come utilizzarla.
Ma anche le politiche sindacali, notoriamente rilevanti per una politica dei redditi, sono in mezzo al guado. Esse, infatti, in passato, hanno avuto, come fulcro espansivo, la contrattazione salariale. Con i ritmi di crescita del Pil e della produttività entrambi bassi, l’arma contrattuale risulta spuntata. Fanno più politica del redditi gli 80 euro del governo o l’eliminazione della tassazione sulla prima casa che i rinnovi contrattuali più recenti. Non si tratta di una tendenza congiunturale; sta assumendo un senso di medio e lungo periodo. Infatti, nella prospettiva di un riequilibrio nella distribuzione della ricchezza, contano sempre di più le scelte di tipo strutturali piuttosto che quelle settoriali.
Questo non vuol dire che l’azione sindacale va mandata in soffitta, ovvero che abbia un campo limitato alla dimensione corporativa. Se ripiega su questo versante è più per scelta dei sindacati che per un destino cinico e baro. Se così fosse, inevitabilmente, lascerebbe piena egemonia alla politica. Invece, c’è spazio per un’azione generale e specifica, a scala nazionale e aziendale che punti a intaccare da una parte le prerogative dei processi di accumulazione finora nelle mani della finanza e dell’imprenditoria e dall’altra le grandi trasformazioni delle tutele individuali e sociali, per le quali la politica pretende sostanzialmente mano libera.
Tutta la partita della democrazia economica è ancora da giocare. Il sindacato è gestore di fondi pensioni integrative che sta accumulando molti quattrini. Una visione della loro utilizzazione anche a fini di indirizzo della politica economica finora non è stata ancora esplicitata. Salvo rimanere ammirati della capacità della UAW di partecipare al salvataggio della Chraysler. Una prospettiva di intervento nelle scelte strategiche aziendali non è stata ancora rivendicata. Salvo scoprire che IG Metall condiziona energicamente nel Consiglio di Amministrazione le scelte della Volkswagen in un momento così tragico per quell’azienda. E si potrebbe continuare, citando il welfare aziendale, la formazione continua, la ripartizione degli orari.
Non solo per la politica, ma anche per il sindacato “nulla sarà come prima”.