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La prospettiva e’ il welfare di prossimita’

La crisi del welfare nella transizione culturale

La crisi del welfare va compresa oggi nell’orizzontedella grande transizione europea, che non è solo demografica ma anche culturale. I sistemi di sicurezza sociale si affermarono in Europa nei cosiddetti Trenta gloriosi,gli anni tra il 1945 e il 1975. Il miracolo economico, l’affermazione di nuovi diritti sociali, l’estensione delle condizioni di benessere furono il prodotto di ordinamenti alla cui definizione contribuirono partiti, sindacati, movimenti collettivi. Come ha argomentato alcuni anni fa Tony Judt con esemplare chiarezza, “era lampante che la giustizia, l’uguaglianza di opportunità o la sicurezza economica fossero obiettivi condivisi che potevano essere raggiunti solo attraverso l’azione comune” (Judt, 2010). Non mancavano controindicazioni come la regolamentazione e il controllo dall’alto, eccessivamente intrusivi – i sistemi di welfare erano totalmente in mano allo Stato– ma questo era il prezzo della giustizia sociale, ed era il prezzo che valeva la pena pagare. 

A partire dalla seconda metà degli anni Settanta questa visione entrò in crisi e fu stravolta. Salì alla ribalta una generazione il cui elemento unificante non era più rivendicare l’interesse di tutti, ma i bisogni e i diritti di ognuno. Questa critica ebbe esiti sia a destra che a sinistra. In un’intervista del 1987 Margaret Thatcher, che governava già da otto anni in Gran Bretagna, affermò: “there is no such a thing as society”, non esiste la società, esistono solo gli individui: una formula che avrebbe fatto fortuna nei decenni successivi. Fu la dichiarazione di morte del welfare consensus del dopoguerra, ossia la “convergenza delle diverse forze politiche nel supporto all’interventismo statale e all’alta spesa pubblica” (Serughetti, 2023). L’individualismo e “l’affermazione del diritto di ogni persona alla massima libertà privata e alla libertà assoluta di esprimere desideri autonomi” (Judt, 2010) prevalsero sui sacrifici a cui le singole identità con le loro esigenze debbono ricorrere, se desiderano associarsi, e confluire in soggetti politici di massa, possibilmente influenti e duraturi. Il dibattito pubblico scoprì il tema delle identità, fondamentale nel panorama culturale di oggi. Ed è anche per questa via che maturò la crisi dei movimenti collettivi, del sentirsi parte di un noi più grande che rappresenta e protegge. Ma anche la crisi dello Stato, della sua autorità e delle sue funzioni di patrocinatore della giustizia e di redistributore sociale.

Ma la critica, come si diceva, arrivò anche da sinistra. La società dei Trenta gloriosi era in fondo troppo massificata e appiattita: lo Stato era il regolatore supremo, copriva ogni aspetto della vita collettiva, con forti tratti di paternalismo. Ragionava per categorie e la “categorializzazione” delle risposte mortificava le diversità. Il modello sanitario era ancora ottocentesco, prevalentemente basato sugli ospedali e gli istituti per anziani erano spesso l’eredità delle grandi istituzioni dell’epoca moderna in cui si ricoveravano poveri, mendicanti, malati mentali, handicappati: una politica di reclusione degli emarginati. Presero forma e si consolidarono un pensiero e una cultura anti-autoritari, i cui maggiori esponenti, Foucault, Goffman, Basaglia, Illich, conducevano battaglie in nome della libertà e della dignità della persona, contro le istituzioni totali, gli universi concentrazionari, i reclusori: spazi dove, in nome di una uniformità di trattamenti si arrivava a calpestare e annullare la personalità stessa dei reclusi. Processi di mortificazione, li definiva un libro fondamentale, Asylums di Erving Goffman, che fu tradotto in Italia nel 1968, proprio a cura di Franco Basaglia, il padre della riforma psichiatrica. In quegli anni, Ivan Illich contestava il sistema sanitario parlando di espropriazione della salute, di iatrogenesi, di medicalizzazione dei bisogni, di industrializzazione della cura. Scriveva a proposito di un certo approccio alla vecchiaia: “Quanto più la vecchiaia diventa soggetta a servizi di assistenza professionale, tanta più gente viene spinta in istituti specializzati per gli anziani, mentre l’ambiente di casa, per quelli che resistono, si fa sempre più inospitale. Questi istituti sembrano il dispositivo strategico odierno per disfarsi dei vecchi”. Infatti “il tasso di mortalità durante il primo anno dopo il ricovero è sensibilmente più alto di quello che si registra fra i vecchi che rimangono nel loro ambiente abituale”. 

Il sociologo Alberto Melucci aveva individuato all’inizio degli anni ’80 un mutamento importante all’interno dei movimenti che erano nati negli anni della contestazione. Se le lotte che avevano caratterizzato gran parte del Novecento avevano come oggetto la contesa sulla distribuzione delle risorse materiali e sul controllo del modo di produzione, ora l’oggetto dei conflitti sociali diventa prevalentemente immateriale e simbolico. Questa cultura anti-autoritaria oggi è in declino, malgrado la crisi dello Stato e dei sistemi collettivi. Nella società dell’io, infatti, in un tempo di soggettivismi esasperati, i poveri o i marginali sono considerati colpevoli del loro destino infausto. E così, pur in un quadro attuale di allargamento dei diritti individuali reclamati, gli scartati restano fuori e non hanno voce. 

  • Cambiare il welfare destinato alle fragilità: il welfare di prossimità.

Gli scenari demografici e culturali così mutati impongono dunque un cambiamento profondo nelle articolazioni del welfare state, in particolare per ciò che riguarda la qualità dei servizi di cura rivolti alle fragilità. Innanzitutto non bisogna dimenticare in fretta l’esperienza tragica della pandemia, come se fosse stata una parentesi sciagurata. La pandemia infatti non è stata una parentesi, ma un drammatico evento rivelatore. Al 1° gennaio del 2022 l’età media dei pazienti deceduti e positivi a SARS-CoV-2 era di 81,3 anni. Quasi l’85% dei decessi per coronavirus ha riguardato persone over 70, oltre il 56% quelle con più di 80 anni. Si è trattato di un vero e proprio “anzianicidio” avvenuto soprattutto negli istituti, nelle case di cura, nelle RSA, nelle nursing homes, o, come si chiamano in Francia, nelle Ephad. Certo, l’età avanzata e le pluripatologie hanno aumentato il rischio da Covid-19, ma gli anziani a casa non sono morti nella stessa proporzione degli anziani in istituto. Secondo alcuni studi, in più del 60% dei morti da coronavirus in Europa si è trattato di anziani istituzionalizzati. Dopo eventi di tale gravità nulla può rimanere com’era: “Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”, aveva detto papa Francesco nella messa di Pentecoste 2020, la prima celebrata in presenza, dopo le misure restrittive imposte dal coronavirus.

Siamo ad un punto di svolta paragonabile a quanto accadde nel 1978. Allora, venne istituito il Servizio Sanitario Nazionale, che per quarantacinque anni ha garantito alla popolazione italiana, attraverso la sanità pubblica e universalistica, standard di cure e di assistenza molto elevati, tra i migliori al mondo, come attesta l’aumento formidabile della longevità in Italia negli ultimi decenni. Fu quello l’acme del modello di welfare di massa. Oggi non basta più. Si pensi all’eccesso di ospedalizzazione o alle molteplici falle del sistema, come il congestionamento dei servizi di Pronto soccorso. Del resto,da allora, l’Italia non è più lo stesso paese: l’indice di vecchiaia al censimento 1981era pari a 61,7; oggi è l’ 87,9. Occorre un nuovo modello di welfare, il welfare di prossimità, che sposti risorse e servizi nei luoghi dove vive la popolazione, specialmente gli anziani, attraverso un sistema a rete e ad alta integrazione e che abbia il domicilio come centro nevralgico di cura e di assistenza. 

  • La legge 33/23 per nuove politiche a favore degli anziani.

Un grande momento di svolta in questa direzione è stata l’istituzione, nel settembre 2020, in piena pandemia, della Commissione per la riforma dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria della popolazione anziana, la cui presidenza è stata affidata a mons. Vincenzo Paglia. Al termine di un lungo e complesso lavoro della Commissione, nel marzo del 2023 è stata approvata dal Parlamento senza alcun voto contrario la legge 33 (“Deleghe al Governo in materia di politiche in favore delle persone anziane), che istituisce per la prima volta nella nostra storia un sistema di welfare veramente a misura di anziano: una legge storica poiché mette insieme cultura, esperienze, studi, best practices che da decenni animano il dibattito sull’innovazione sociosanitaria del nostro paese. Pensiamo a temi quali l’integrazione di sanità e assistenza e la creazione di un continuum di servizi personalizzati; il trasferimento della regia del sistema integrato dalle residenze e dall’ospedale al territorio e alla domiciliarità; riconoscimento e qualificazione dei prestatori d’opera nei servizi alla persona e dei caregiver familiari; e tanto altro ancora.

La legge delega attiva due ambiti di intervento: da un lato, politiche per l’invecchiamento attivo, promozione dell’inclusione sociale e prevenzione della fragilità; dall’altro, assistenza sociale, sanitaria e sociosanitaria per le persone anziane non autosufficienti. L’architettura del sistema finalmente integrato (Sistema nazionale per la popolazione anziana non autosufficiente, SNAA) si fonda su una cabina di regia costituita dal Comitato interministeriale per le politiche in favore della popolazione anziana (CIPA), presieduto dal Presidente del Consiglio, che adotta ogni anno i due Piani, per l’invecchiamento attivo e per l’assistenza e la cura della fragilità e della non autosufficienza. Il modus operandi del sistema è il continuum assistenziale, che inizia dai Punti Unici di Accesso (PUA), collocati presso le Case di comunità, cioè sul territorio, dove avviene l’incontro fisico tra le diverse professionalità; e che prosegue con l’elaborazione, per ciascun soggetto preso in carico, di Progetti individualizzati di assistenza integrata (PAI), da attuare prevalentemente al domicilio dell’interessato, o in centri diurni, o ancora in servizi residenziali temporanei di sollievo, ove si prospettano i nuovi compiti per RSA rinnovate.

In pratica viene azzerata la modalità prestazionale dell’intervento di cura, con i suoi protocolli standardizzati, per adottare la modalità della presa in carico. Si entra cioè in un’altra dimensione: quella della personalizzazione dei servizi, che vengono forniti sulla base del bisogno del soggetto assistito e non dei moduli organizzativi del servizio.

Per quanto riguarda le RSA, certo viene sottratto loro il monopolio della cura delle fragilità. Del resto basti pensare che un’indagine della Commissione Paglia e ISTAT ha evidenziato che nella popolazione over 75, circa 7 milioni di persone, 2,7 milioni presentano situazioni di estrema fragilità per diversi motivi. I servizi di ADI forniscono 18 ore l’anno per anziano bisognoso e l’investimento sul territorio e presso l’abitazione non supera i 2 miliardi annui. Per i 280 mila anziani in RSA la spesa pubblica e dei cittadini è di ben 12 miliardi l’anno: una sproporzione macroscopica e per certi versi inspiegabile. Non si tratta di mettere in discussione la necessità di servizi residenziali adeguati, a patto che si rispetti il principio per cui tutti gli anziani hanno diritto a vivere fino alla fine dei loro giorni in luoghi che possano chiamare casa o famiglia La legge 33 chiede alle RSA di rinnovarsi e di adattarsi a nuovi ruoli: “non più ‘terminali’ di un processo di inevitabile decadimento da cui non si offrono più vie di uscita, non più entità isolate e isolanti, che rendono difficile o impossibile il contatto umano, ma elementi dinamici, aperti alla società, alle famiglie e al volontariato” (Palombi, 2023). Possono diventare centri multiservizi, fornendo un mix di servizi territoriali e domiciliari, unità mobili, specie nelle aree interne e più spopolate del paese; o trasformarsi in ospedali di comunità, somministrando cure di transizione. Ma la legge introduce anche nuove forme di coabitazione solidale domiciliare per le persone anziane e di coabitazione intergenerazionale, nell’ambito di case famiglia, gruppi famiglia, gruppi appartamento e condomini solidali”,alternative all’istituzionalizzazione.

Tutto a carico e sulle spalle dello Stato? Certamente no. La legge promuove e valorizza, nell’ambito del sistema di cura, tutte quelle reti di prossimità che si creano attorno all’anziano fragile e che sono costituite da esperienze di volontariato, risorse parentali, forme di cittadinanza attiva, in grado di spezzare l’isolamento sociale degli anziani. Nella società frammentata e atomizzata di oggi, che dà enorme valore all’autonomia dei singoli e deprezza l’importanza dei legami stabili, essere condannati alla solitudine è il destino comune di molti anziani. E di solitudine ci si ammala e si muore. La legge va incontro a quel modello di “città-comunità” di cui parla papa Francesco nella Laudato si’, affermando che la qualità delle relazioni umane possono fare la differenza anche in un ambiente profondamente degradato dalla miseria. Promuovere l’amicizia civica è certamente un tratto innovativo che la legge si propone di realizzare.

  • Considerazioni finali.

Il welfare aggiornato ai tempi deve saper coniugare universalità e diversità: servizi di cura a carattere universalistico, ma con l’impronta della personalizzazione, poiché ogni soggetto è unico: non più i disabili, ma quella persona con la sua disabilità. La quale, per di più, non deve mai essere identificata col suo limite. 

Infine, la solidarietà con la persona nel bisogno deve oggi misurarsi con due grossi ostacoli. Da un lato, la colpevolizzazione dei poveri, a cui si è già accennato, fenomeno che cresce in questi anni anche a causa della domanda di distanza dagli altri e dei meccanismi di un neo-capitalismo competitivo che dà un peso eccessivo alla meritocrazia. Dall’altro, la settorializzazione o professionalizzazione delle risposte, che vedono specialisti fornire il proprio contributo, pur di valore, senza connettersi con la complessità dei problemi e delle risorse di una persona, in una visione globale e olistica. In questo modo anche il lavoro sociale finisce per essere di sportello, si applicano protocolli, si categorizzano i bisogni, si interviene su esplicita richiesta, ma l’umanità dei bisognosi resta sullo sfondo. La standardizzazione delle risposte è un’arma a doppio taglio. C’è una professionalità, una laicità del servizio da promuovere e coltivare, ma, verrebbe da dire, occorre anche uscire dalle istituzioni o dagli uffici e ritornare sulla strada, percorrere di più le vie e le piazze dei quartieri o dei borghi dove vive la gente, per conoscerne la storia, la vita, le difficoltà e, all’occorrenza, prevenirne i bisogni. Proprio come diceva una vecchia canzone: “C’è solo la strada su cui puoi contare, la strada è l’unica salvezza, c’è solo la voglia e il bisogno di uscire, di esporsi nella strada e nella piazza. Perché il giudizio universale non passa per le case, le case dove noi ci nascondiamo. Bisogna ritornare nella strada, nella strada per conoscere chi siamo”. 

Fonti delle citazioni

T. Judt, Guasto è il mondo, Roma-Bari 2010.

G. Serughetti, La società esiste, Roma-Bari, 2023.

I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Milano 2004.

L. Palombi, “Le premesse demografiche, epidemiologiche, sociali e sanitarie della legge”, in (a cura di) V. Paglia, L’Età Grande: la nuova legge per gli anziani, Milano 2023.

G. Gaber, La strada, in: Anche per oggi non si vola, Stagione teatrale 1974/75.

*Responsabile del servizio anziani della Comunità di S. Egidio

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