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La questione salariale resti nelle mani delle parti sociali

Il mondo è distratto da cose più gravi, ma dietro le cronache agghiaccianti dall’Ucraina restano intatti i nostri problemi quotidiani: tra i quali anche la delicata scelta se introdurre o meno nel nostro paese il salario minimo per legge. L’ipotesi – di cui si parla ormai da tempo – è stata rilanciata nei giorni scorsi dal ministro del Lavoro Andrea Orlando. In una intervista a La Stampa, Orlando ha avvertito che o le parti sociali troveranno una soluzione, oppure si muoverà il governo con la legge.

Il tema salari è tanto più caldo in vista dei rinnovi contrattuali, e delle tensioni che già si accendono tra sindacati e imprese rispetto agli aumenti da richiedere con una inflazione che corre. A questo proposito vale la pena di ricordare gli allarmi lanciati sia dal governatore della Banca d’Italia, sia dal collega tedesco della Bundesbank, preoccupati per gli effetti che un aumento non controllato dei salari potrebbe comportare. Tutto questo, ovviamente, al netto di quello che accadrà nelle prossime settimane a causa della guerra in Ucraina e delle sanzioni che verranno comminate alla Russia, con le loro inevitabili conseguenze sull’economia italiana, europea, mondiale.

Sul fronte politico a favore del salario minimo ci sono innanzi tutto i Cinque Stelle, a cui si deve la proposta di legge attualmente in parlamento, firmata dall’ex titolare del Lavoro Nunzia Catalfo. A favore anche la gran parte del Pd ( ma non tutto). Contrarissimi i sindacati (con qualche rara eccezione) e le imprese: cioè i titolari della contrattazione, dunque i più direttamente interessati dal provvedimento. Al di la della possibilità non elevatissima di condurre in porto la legge sul salario entro la legislatura, resta che è molto difficile affrontare il discorso senza farsi condizionare da questioni ideologiche o di parte. Un tentativo assai riuscito di mettere a confronto i diversi punti di vista è stato messo a segno nei giorni scorsi dall’Arel, il centro studi guidato da Enrico Letta, che ha riunito attorno a un tavolo esperti, economisti, giuslavoristi, rappresentanti di sindacati e imprese, per una discussione che prendeva spunto anche dal recente Rapporto sulla povertà lavorativa, realizzato da un gruppo di esperti per il Ministero del Lavoro.

Il quadro che ne è scaturito è interessante e fa riflettere. L’Italia è, innanzitutto, il quarto paese europeo per povertà lavorativa, vale a dire per il numero di persone che, pur dotate di un’ occupazione, non sono in grado di trarne un adeguato sostentamento. Nel nostro paese circa il 25% dei lavoratori ha una retribuzione troppo bassa e oltre il 10% si trova in una condizione di povertà relativa in base ai canoni statistici Istat. Ma questa povertà deriva da un insieme di fattori: il numero di ore mensili lavorate (quindi l’eccesso di ricorso al part time), il numero di mesi lavorati nel corso dell’anno (quindi la mancanza di continuità dovuta a contratti troppo brevi e distanziati nel tempo), la presenza o meno in famiglia di un secondo salario, e quindi la difficoltà delle donne a entrare nel mercato del lavoro, senza trascurare che quando vi entrano sono sottopagate rispetto ai colleghi maschi di circa un 20%, aumentando di molto la povertà lavorativa. (Vale anche la pena di ricordare che una donna precaria guadagna meno di un precario maschio, una donna immigrata meno di un immigrato maschio, una donna con figli guadagna meno di un uomo con figli, e cosi via: e questo ce lo dice ci dice la statistica, non il femminismo).

Il lavoro povero è però anche figlio della povertà di capitale umano, altro terreno che vede l’Italia con la più bassa percentuale europea di laureati e con un numero di Neet che supera ormai i due milioni degli oltretutto scarsissimi giovani di cui disponiamo, cioè di coloro che dovrebbero costituire il serbatoio della nostra forza lavoro dei prossimi anni; è figlio della impossibilità tutta italiana di dotarsi di un modo sensato per incrociare domanda e offerta di lavoro; è figlio dell’incapacità di realizzare politiche attive che vadano oltre l’inefficiente sistema collegato al Rdc, che ha dimostrato tutti i suoi enormi limiti. Infine, molta povertà lavorativa dipende anche dalla proliferazione dei cosidetti contratti pirata, che impunemente applicano minimi salariali a propria discrezione, assai inferiori a quelli dei contratti nazionali sottoscritti dalle confederazioni sindacali e imprenditoriali maggiori.

Rispetto a questa gigantesca mole di ragioni per cui in Italia il lavoro è povero, dunque, il salario minimo per legge potrebbe risolvere -parzialmente- forse soltanto l’ultima, quella legata ai contratti pirata. Parzialmente perché comunque il salario minimo non riuscirebbe a includere partite iva e lavoro autonomo, altro abisso di povertà e precarietà raramente ricordato quando si ragiona sul tema, e per contro porterebbe con sé il rischio di indebolire l’attuale sistema di contrattazione tra le parti, oggi vivo e vegeto malgrado due anni di pandemia. Come ricordano sia i sindacati che la Confindustria, proprio in questi 24 orribili mesi sono stati rinnovati, con successo e reciproca soddisfazione, moltissimi contratti. E’ questa la fondamentale differenza tra i paesi europei che applicano il salario minimo per legge e l’Italia: un sistema di contrattazione collettiva diffuso e capillare, che copre all’incirca l’80% dei lavoratori.

E tuttavia nessuno è perfetto, visto che, appunto, a fianco di questo solido sistema ne è nato un altro parallelo, dovuto ai contratti pirata. Ma allora, non basterebbe scardinare quest’altro sistema parallelo, renderlo a tutti gli effetti fuorilegge, senza per forza ricorrere al salario minimo? C’è chi indica infatti, come soluzione possibile, quella di individuare alcuni “contratti leader” e utilizzarli come riferimento per definire i livelli dei salari (cosa differente dell’estensione erga omnes). Ma per fare questo occorrerebbe compiere prima un altro fondamentale passo, e cioè risolvere il nodo della rappresentanza. A questo mirava l’accordo sottoscritto da sindacati e Confindustria nel (lontanissimo) 2014, il Testo Unico sulla Rappresentanza. Peccato che, a oggi, non sia mai stato reso concreto. Solo a settembre 2019 è arrivato dal Ministero del Lavoro il via libera per l’accordo con l’Inps che doveva consentire di avviare il “conteggio” per poi individuare le organizzazioni maggiormente rappresentative. Ma è arrivata la pandemia e tutto si è nuovamente fermato. Ora, giusto nei giorni scorsi, sindacati e Confindustria sembra abbiano ripreso a lavorarci, tentando qualche prima sperimentazione. Vedremo come va, ma questo è un punto sicuramente centrale da cui non si può prescindere per risolvere il problema.

Le parti sociali hanno un ruolo chiave in questa partita che, partendo dai salari, dovrà riguardare l’universo dei mai risolti problemi legati al mercato del lavoro. Le cose da fare sono molte e strettamente interconnesse. Ciò non significa che non ci sia un ruolo anche per la politica, fondamentale per dare corpo e sostegno alle diverse soluzioni che verranno individuate, senza per questo ledere quell’autonomia di cui le parti sociali sono assai gelose. E qui ha del tutto ragione Orlando, quando avverte che se non si decideranno a muoversi sindacati e imprese, toccherà al governo metterci mano. Senza farsi illusioni, però: visto come stanno le cose, approvare la legge sul salario minimo non consentirebbe certo di affermare che la povertà lavorativa è stata sconfitta.

*da Il Diario del Lavoro 25/02/2022

 

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