Il 16 aprile del 1988 veniva ucciso, barbaramente, dalle Brigate Rosse, nella sua casa a Forlì, il senatore Roberto Ruffilli. Ucciso perché impegnato nel processo di modernizzazione delle istituzioni democratiche. Per Ruffilli il cuore della riforma era portare al centro “il cittadino come arbitro” della vita politica. Per ricordare la sua figura, a trent’anni dalla morte, ci sono svolte a Forlì, la settimana scorsa, alla presenza del Presidente della Repubblica, insieme alle autorità locali ed accademiche, le celebrazioni che si sono concluse al Teatro “Diego Fabbri”. Pubblichiamo di seguito i discorsi celebrativi del professor Pierangelo Schiera, storico delle istituzioni e amico di Ruffilli, e quello del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il “Focus” si conclude con un intervento di Roberto Ruffillli, del 1988, sulla necessità di una Riforma Costituzionale. Il testo, che pubblichiamo per gentile concessione dell’Agenzia AREL di Roma, è tratto dal volume pubblicato dall’agenzia Arel: PER UNA REPUBBLICA DEGLI ARBITRI. OMAGGIO A ROBERTO RUFFILLI. (A Cura di Mariantonietta Colimberti e Filippo Andreatta), Roma 2013).
PIERANGELO SCHIERA: “Riforma e pluralismo sono le parole chiave del testamento politico-costituzionale di Roberto Ruffilli”
Anche la Fondazione Roberto Ruffilli, signor Presidente della Repubblica, vuole renderle omaggio e ringraziarla per la partecipazione alla commemorazione del nostro gentile Eroe, il Professore e Senatore Roberto Ruffilli. La Fondazione fu ideata nel 1991 dal Sen. Leonardo Melandri, integrando l’opera dell’Associazione degli Amici di Roberto Ruffilli che era stata attivata il giorno stesso dei funerali dal Sen. Romano Baccarini, mia moglie Giuliana Nobili e molti altri Amici da tutta Italia, tra cui anche Lei, signor Presidente.
A trent’anni di distanza ci troviamo ancora qui, così in tanti, a ripetere le parole essenziali del testamento di Roberto: RIFORMA E PLURALISMO. Trent’anni sono una generazione. Questi ragazzi delle Superiori sentono cose, di Roberto Ruffilli, che potrebbero non interessarli più per niente. Qualcuno di loro – ho quattro nipoti e li conosco – starà giocando col suo apparecchietto, illuso di essere in rete col mondo. Eppure in una generazione sono cambiati – come forse non è mai accaduto nella storia in così breve tempo – i mezzi di comunicazione, ma i fini di convivenza sono restati quelli di prima. Ruffilli ha avuto il merito di coglierli e fissarli, con grande semplicità, sia come studioso e professore, sia come politico e riformatore.
La parola-chiave è RIFORMA e di ciò parlerà Massimo Cacciari fra poco. L’altra parola è SEMPLICITA’.
Nato a Forlì nel 1937, vissuto a pochi metri da qui – in una casa che la società Ser.in.ar (Servizi Integrati d’Area) ha gentilmente messo a disposizione della Fondazione Ruffilli come sua sede privilegiata – povero come molti di noi in quegli anni, su sponda cristiana in una città che romagnolosamente ha sempre vissuto con passione i confronti e anche i conflitti culturali e sociali, Roberto trovò nel mitico Oratorio San Luigi la scuola di vita in cui saldare insieme l’intelligenza e l’amore per gli altri. Allora ciò conduceva spesso i bravi studenti, da tutta Italia, all’Università Cattolica di Milano e in particolare al Collegio Augustinianum, vera e propria pepinière delle classi dirigenti cattoliche. Laureato con un grande maestro di storia e di scienza politica come Gianfranco Miglio, lo seguì negli studi, formandosi prevalentemente all’Istituto per la Scienza dell’Amministrazione Pubblica di Milano. Fu lì che lo conobbi anch’io, per poi percorrere insieme la carriera accademica: lui prima all’Università di Sassari, poi a Bologna.
Con l’avvento alla Segreteria della Democrazia Cristiana di Ciriaco De Mita, Ruffilli ne divenne consigliere per le riforme istituzionali, finché nel 1983 fu eletto Senatore, in un collegio romano. Era a casa nostra quando gli telefonò Nicola Mancino – allora capogruppo dei senatori democristiani – per offrirgli di sedere nella commissione per la scuola e l’università, gli rispose che dell’università ne aveva abbastanza e voleva dare il suo contributo agli affari costituzionali. Seguirono cinque anni intensissimi durante i quali – soprattutto nella Commissione Bozzi 1983-4 – portò avanti la linea duplice della “maggioranza” e dell’ “alternanza” come unico modo per ridare al governo la capacità di rispondere ai problemi di una società italiana in crescita. In particolare, ciò che sempre mi ha colpito, anche rispetto alla sua produzione scientifica, è stata la grande semplicità e chiarezza con cui ha saputo tradurre nella pratica le idee politiche raggiunte negli anni di studio. Al contrario di quanto spesso accade ai professori che diventano politici, la sua azione riformatrice fu più diretta e incisiva del suo pensiero scientifico.
Ci mancò veramente poco perché ce la facesse a creare una base comune per le riforme tra i due campi avversi e per questo fu ucciso. Come la sua guida Aldo Moro dieci anni prima e, sostanzialmente, per gli stessi motivi. Ma le riforme non vennero più, perché le Brigate Rosse – o chi per loro – ne avevano spento lo spirito.
Questo è ciò che resta a una generazione di distanza: cari ragazzi a voi tocca di riprendere in mano quel fuoco e provare a ravvivarlo, badando al vento naturalmente: da che parte tira e verso dove spinge. Perché i vostri sogni-bisogni non sono certamente più quelli di trenta o quarant’anni fa, ma la necessità della riforma è sempre viva e si può coniugare, in estrema semplicità, solo in termini di pluralismo. Se oggi siamo qui, signor Presidente ma anche ragazzi e ragazze mie, non è solo per condannare un crimine di trent’anni fa, ma sopra tutto per celebrare un atto di speranza e di fiducia nell’esempio di un libero pensatore e operatore cattolico qual è stato Roberto.
SERGIO MATTARELLA: “Ruffilli ha testimoniato la politica come impegno generoso verso gli altri”
Abbiamo ascoltato con grande attenzione e vero interesse quello che ci hanno detto il sindaco Drei, la studentessa Martina Derosa, il professor Schiera e il professor Cacciari con la consueta ricchezza argomentativa.
Desidero rivolgere, attraverso il Sindaco e tutti i presenti, un saluto alla città che oggi si raccoglie intorno al ricordo di Roberto Ruffilli e che abitualmente è piena di vivacità, di attività, di interessi, di grande ruolo nel nostro Paese.
Un saluto anche agli altri sindaci presenti, un ringraziamento per il lavoro e un incoraggiamento per il loro ruolo, a tutte le autorità presenti e al Presidente della Regione.
Vorrei soltanto sottolineare quanto ci è stato poc’anzi detto con tanta efficacia sulla figura di Roberto Ruffilli: è stato messo in evidenza il suo carattere mite, la sua grande passione per lo studio riversato in concreto nell’insegnamento e nell’impegno nella società e nella vita politica. Desidero anch’io darne personale testimonianza.
Ruffilli era una persona di cui era difficile non avvertire il fascino per l’acuta intelligenza, per la trasparenza della sua persona, per la grande, elegante ironia con cui si esprimeva sovente. Il suo impegno di riversare nel concreto – nell’insegnamento anzitutto, e poi nelle istituzioni e nelle varie attività e impegni nella società – è stato davvero esemplare, sempre ricordando la democrazia, la Costituzione e la cittadinanza intesa come patto tra cittadini e Stato.
Questo ricorda il titolo fortunato del suo libro con Piero Alberto Capotosti: ‘Il cittadino come arbitro’, definizione e contenuto di quel lavoro che si pone in perfetta continuità e corrispondenza con l’articolo 2 della nostra Costituzione, che dice che la Repubblica riconosce i diritti inviolabili della persona; li riconosce perché la persona con i suoi diritti preesiste allo Stato. Ciò evoca bene l’esigenza di cittadinanza come patto tra cittadini e Stato, e la evoca in quanto Roberto Ruffilli indicava un concetto di cittadinanza e di convivenza nell’ambito della Costituzione che ricordasse il senso di comunità che lega tutti gli elementi della nostra Repubblica e tutti i concittadini della nostra Repubblica.
Anche da questo derivava la sua sottolineatura del valore del pluralismo della nostra democrazia. Secondo il disegno della nostra Costituzione, la vita politica non si esaurisce nell’attività del Parlamento, del governo, delle Regioni e dei Comuni. Tutto questo ne costituisce il punto di raccordo, ma si svolge in tante altre manifestazioni, luoghi e punti d’incontro: negli enti intermedi, nelle formazioni sociali, nelle libere aggregazioni di cittadini, nel mondo associativo. Tutto ciò concorre a perseguire e definire gli interessi generali del nostro Paese e quindi della sua vita politica ed esprime il dinamismo della nostra Repubblica e la vivacità della nostra democrazia.
Questo era al centro dell’insegnamento di Ruffilli e anche per questo vi era una sua grande attenzione al processo riformatore, all’esigenza di adeguare costantemente la realtà delle nostre istituzioni, del nostro stare insieme, ai mutamenti che nel corso del tempo costantemente, e sempre più velocemente, si realizzano e con cui ci confrontiamo.
Per questo è giusto aver ricordato qui pluralismo e riforma, come indicazioni dell’insegnamento di Roberto Ruffilli.
Vorrei concludere ricordando che l’insegnamento principale di Roberto Ruffilli lo ha dato con la sua vita, limpida, generosa, rivolta verso gli altri, contro la quale in quel giorno di trent’anni fa – e tuttora – rimane sconcertante il contrasto tra l’efferatezza belluina dei terroristi e la figura serena, aperta agli altri, disponibile di Roberto Ruffilli.
Per questo vorrei esprimere al Sindaco e alla città di Forlì l’apprezzamento per questa giornata di ricordo, perché Roberto Ruffilli costituisce un punto di quella tessitura di storia del nostro Paese tragica ma che ha seminato per la nostra convivenza, per il nostro stare insieme positivo.
Grazie signor Sindaco dell’invito per questa giornata e tanti auguri alla città.
ROBERTO RUFFILLI: NUOVE SPINTE E VECCHI OSTACOLI
AL PROCESSO DI RIFORMA ISTITUZIONALE (1988).
1. Gli ultimi mesi dell’87 consegnano al 1988 una significativa ripresa di interesse per le riforme istituzionali. La scelta del Pci per il rilievo centrale ed autonomo del riordino delle istituzioni e gli incontri organizzati dal Psi con tutti i partiti per l’impostazione del processo riformatore, gli interventi in materia dei Presidenti delle due Camere e quelli del Presidente della Repubblica, i convegni dei Gruppi parlamentari della Dc e la pronuncia della sua Direzione, mettono in luce l’accrescersi, nella classe politica, della convinzione della opportunità e dell’urgenza di muoversi in tale direzione.
Trovano così conferma anche le indicazioni di questi ultimi anni della Dc, documentate nelle pagine precedenti, circa la necessità delle riforme e circa poi alcuni dati di metodo e di contenuto relativamente alle stesse. In ogni caso, è sicuramente positivo il diffondersi della consapevolezza che occorre accelerare il coinvolgimento di tutte le forze politiche disponibili nella ricerca degli accordi in Parlamento, per l’avvio e lo svolgimento di un processo riformatore, graduale ed organico al tempo stesso.
L’accresciuto impegno per le riforme istituzionali continua, peraltro, ad essere condizionato da una serie di ambiguità e di contraddizioni, tradizionali e nuove, che rischiano di frenare e comunque di travolgere il processo riformatore. È tornata alla ribalta, in particolare, la contrapposizione tra «grandi riforme» e «piccole riforme». Essa appare adesso legata al contrasto nel giudizio sulla validità della Repubblica e della Costituzione in vigore.
Così, da una parte, v’è chi sostiene la necessità di «grandi semplificazioni», per superare il fallimento e comunque la crisi endemica di una Repubblica e di una Costituzione stravolte dalla partitocrazia ed incapaci ormai di adeguarsi allo sviluppo della società italiana.
Dall’altra parte, si sostiene invece l’opportunità di procedere solo a «piccoli aggiustamenti» nell’ambito della attuazione della Costituzione e di una limitata razionalizzazione degli equilibri politico-istituzionali con essa realizzati.
Nell’una e nell’altra posizione si fanno sentire calcoli a favore del singolo partito, in vista del potenziamento del suo ruolo attuale e dello smantellamento di quello altrui. Prevale, nel primo caso, la messa in discussione della positività in sé dei partiti maggiori, e di quelli organizzati di massa in ispecie, mentre è dominante, nel secondo caso, la preoccupazione per la sopravvivenza delle forze minori.
Ma si fanno sentire anche mentalità e motivazioni più propriamente culturali, legate al giudizio sulla qualità e la quantità dello sviluppo democratico del Paese, pure in rapporto alla storia precedente ed alle vicende degli altri Paesi dell’Occidente.
A ben guardare, peraltro, l’una e l’altra posizione non fanno i conti nel modo dovuto con i risultati ottenuti dalla Repubblica democratica nell’ambito della Costituzione del 1948, e con i problemi adesso aperti, proprio in relazione anche a taluni grandi successi conseguiti da quest’ultima, oltre che dai limiti da essa manifestati.
Bisogna tener presente che la Repubblica e la Costituzione si debbono all’opera delle forze antifasciste. Queste si sono impegnate nell’elaborazione di uno Stato democratico imperniato sulla coniugazione di libertà ed eguaglianza.
A tal fine hanno fatto in modo di ridimensionare i contrasti, anche profondi, fra loro esistenti sui modelli di democrazia e di partito, lasciando peraltro zone d’ombra.
In ogni caso, i partiti antifascisti sono stati spinti ad assumere una specie di funzione di «supplenza» per la promozione della vita democratica in una società condizionata dalla mancanza di tradizioni consolidate in tal senso, oltre che dal ventennio fascista, nonché poi da squilibri e ritardi, antichi e nuovi.
E in questo hanno trovato legittimazione e consenso per il ruolo preponderante assunto nella nostra democrazia.
Dopo 40 anni un dato è sicuro: ed è il radicamento di un metodo democratico condiviso, con lo sviluppo della libertà e della partecipazione popolare all’esercizio del potere.
Si è avuta una sempre maggiore riduzione della «diversità» mantenuta per diverso tempo da talune forze politiche, rispetto al metodo comune alle democrazie occidentali. Indubbiamente, per taluni profili, si è rivelato non del tutto praticabile il progetto, fortemente ideologizzato, di una «terza via» tra individualismo e collettivismo, in chiave di democrazia post-liberale e post-socialista, quale perseguito nella Costituzione con i principi ed il complesso dei diritti e dei doveri. Ma ha trovato conferma decisiva la scelta della crescita continua della libertà per il singolo e per le formazioni sociali, con l’intervento riequilibratore dello Stato apparato e dello Stato comunità, rispetto alle disuguaglianze ed alle ingiustizie.
Così, l’altro dato sicuro, dopo 40 anni, è la maturazione di una società democratica, con individui e gruppi sempre più capaci di far valere diritti, tradizionali e nuovi, e con la diffusione di un benessere sempre maggiore. Al che si lega l’affermazione di un pluralismo sempre più articolato sotto il profilo politico, sociale ed istituzionale, che rafforza le garanzie della libertà ed aumenta lo spazio reale dell’autogoverno individuale e collettivo.
2. Indubbiamente, non sono mancati e non mancano limiti e contraddizioni, anche gravi, in uno sviluppo per tanti versi eccezionale.
Sono rimasti irrisolti i problemi di riequilibrio territoriale e sociale e non ha trovato composizione sempre adeguata l’esigenza di un equilibrio tra diritti e doveri, al pari di quella di un’articolazione efficace del rapporto fra potere e responsabilità.
Ha preso corpo così un pluralismo oscillante, sia pur in modo diverso nei vari campi, fra spinte centrifughe e spinte centripete, con lo spazio per le prevaricazioni o anche solo per le mediazioni favorevoli ai poteri più forti.
A questo si è accompagnata una crescente confusione di ruoli tra partiti ed istituzioni statali e locali, oltre che tra queste ultime. Si è avuto un intervento crescente dei primi nella gestione concreta delle attività delle seconde, con una deresponsabilizzazione di ognuno e di tutti per il rapporto fini-mezzi, risultata dirompente fra l’altro per la spesa pubblica.
Più in generale i partiti, in presenza della difficoltà crescente di aggregare consenso, sulla base di progetti ideologici sempre meno rispondenti all’evoluzione della società industriale, hanno puntato sul soddisfacimento del maggior numero possibile di interessi settoriali e corporativi, dando spazio al clientelismo e alla distribuzione a pioggia delle risorse. Ed hanno caricato del compito di una mediazione continua in tale direzione il Governo, il Parlamento e gli enti locali, riducendo la capacità decisionale dei medesimi ed intaccando l’imparzialità ed il buon andamento dell’intera Pubblica Amministrazione.
Di qui la insoddisfazione di settori sempre più ampi del paese per l’inefficienza e la scorrettezza dei pubblici poteri, con la contestazione poi del ruolo dei partiti e comunque della delega ad essi affidata. Il che si intreccia con la più generale crisi di trasformazione della rappresentanza politica nelle democrazie occidentali, in relazione all’accrescersi della spinta alla partecipazione diretta dei cittadini nella scelta di uomini e programmi di governo.
Viene ad incidere anche da noi la pressione per il ridimensionamento di una «democrazia mediata» dai partiti, a favore di una «democrazia immediata», che aumenti la possibilità di decisione effettiva da parte dei cittadini. Anche se poi non manca di farsi sentire la propensione verso forme di «democrazia plebiscitaria», con la disponibilità a forme di delega a personalità ed istituzioni più o meno carismatiche.
A queste si viene a chiedere, da una parte, l’eliminazione di tutte le disfunzioni e, dall’altra, il mantenimento dei vantaggi settoriali e corporativi.
Si precisa così una specie di circolo vizioso, che vede l’opinione pubblica ed i cittadini contestare i limiti della delega concessa ai partiti e l’uso incontrollato da parte loro della stessa, e puntare al tempo stesso all’attribuzione di deleghe ancora più ampie a soggetti politici istituzionali ancor meno controllabili. Tutto questo comunque trae alimento anche da forme più o meno consapevoli di rifiuto della «complessità» della democrazia pluralista, dovute pure alla mancata responsabilizzazione dei cittadini nella scelta di governanti da loro controllati effettivamente rispetto ai risultati.
Di qui il favore per le prospettive di una grande semplificazione della democrazia della rappresentanza e dei partiti, che ponga termine all’occupazione ed alla presenza capillare di questi nella vita dello Stato e della società.
Ma tale prospettiva apre la strada sostanzialmente all’alternarsi di «movimentismo» e di «delega plebiscitaria».
E l’effetto non può che essere il ridimensionamento delle possibilità di concreta partecipazione, alla base ed al vertice, offerte dal pluralismo sviluppatosi nella nostra democrazia, pur in mezzo a tanti squilibri, nonché la riduzione della possibilità di un controllo reciproco tra i poteri, a garanzia di una limitazione degli stessi a favore dell’autorealizzazione individuale e collettiva.
3. La via da imboccare è, invece, quella di una riorganizzazione del pluralismo politico, sociale ed istituzionale e di una razionalizzazione della complessità raggiunta dalla democrazia anche nell’Italia repubblicana.
Si tratta di individuare nuovi equilibri fra partiti, che hanno esaurito la funzione di supplenza per lo sviluppo democratico e non riescono più a legittimare la posizione egemone occupata, ed istituzioni e formazioni sociali, che debbono veder riconosciuta la loro autonomia specifica, con il potenziamento dei compiti loro propri.
Si tratta di passare dall’equilibrio in qualche modo «eccezionale» della fase di fondazione e radicamento della democrazia repubblicana all’equilibrio per così dire della «normalità» per quest’ultima. Il che impone di superare il sistema dell’egemonia per qualsiasi soggetto politico e sociale e di mettere ordine nelle interdipendenze fra gli attori della democrazia pluralista. È questa la via per consolidare le conquiste raggiunte con l’accordo sempre più generalizzato sul metodo della libertà e della partecipazione, potenziando l’efficienza operativa e la trasparenza di ogni potere rispetto ai cittadini.
A tal fine la Costituzione del 1948 mantiene una piena validità.
Essa presenta indicazioni puntuali e potenzialità da sviluppare che costituiscono il miglior punto di riferimento per l’adeguamento del sistema dei partiti e dei poteri alle grandi e complesse trasformazioni verificatesi nella società italiana, in vista anche dell’aggancio sempre più pieno alle regole comuni alle democrazie europee ed anglosassoni.
Non è vero, come da qualche parte si sostiene, che la Costituzione è nata vecchia ed è comunque invecchiata, già nella parte dei principi, e soprattutto nella parte relativa all’organizzazione.
Può indubbiamente risultare datata la formulazione ideologica di qualche principio; ma non è certo datata la scelta della ricerca di equilibri sempre più validi e incisivi tra libertà ed eguaglianza, fra diritti e doveri, fra sovranità popolare e pluralismo.
Innegabili risultano poi i limiti del disegno costituzionale in ordine ad una forma di governo parlamentare non compiutamente razionalizzata, per quanto riguarda la stabilità dell’Esecutivo.
Ma essi non sono il risultato di scelte astratte o arretrate; sono invece l’effetto del mancato accordo pieno alla Costituente tra le forze antifasciste sui «fondamenti della democrazia». In ogni caso, il completamento di tale accordo rende possibile adesso andare avanti nell’opera lasciata a metà dalla Costituente, creando le condizioni, anche istituzionali, per il rapporto dialettico fra un Esecutivo stabile ed un Legislativo saldo, sulla base di un’applicazione adeguata del principio di maggioranza, reso efficace dalla possibilità dell’alternanza.
Così come, più in generale, l’adesione generalizzata ad un metodo democratico condiviso permette di cogliere le potenzialità del principio della «sovranità popolare», per la realizzazione di nuovi equilibri tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta e per l’affermazione del ruolo del cittadino come arbitro ultimo della vita democratica, a partire dalla scelta della maggioranza e del ricambio della stessa.
E lo stesso vale per la potenzialità del principio di una «divisione dei poteri», a livello statale come a livello locale, sia in ordine alla puntualizzazione dei compiti di ognuno ed all’aumento della capacità decisionale e della funzionalità organizzativa, sia in ordine al dispiegamento di un efficace sistema di «contrappesi» e di controlli reciproci.
Contemporaneamente diventa possibile andare avanti nello sviluppo dell’equilibrio fra diritti e doveri dei cittadini fissato nella Costituzione, in vista di una sempre migliore composizione dello «Stato di diritto» con lo «Stato sociale», con il superamento dei limiti della burocratizzazione ed il potenziamento del pubblico, del privato e della solidarietà negli ambiti propri.
Su questa base la Dc continua a ribadire, anche adesso, la tesi che le riforme istituzionali, se vogliono essere indirizzate allo sviluppo delle conquiste della democrazia repubblicana, con il superamento dei limiti emersi, debbono collegarsi ad un «perfezionamento» della Costituzione del 1948, al di fuori della logica della grande rottura, dagli esiti imprevedibili, come di quella dei piccoli interventi conservativi ormai inefficaci.
Ma per muoversi in tale direzione il passaggio decisivo è costituito da scelte acconce dei partiti e da comportamenti conseguenti degli stessi.
E qui, invece, viene alla ribalta anche ora un loro impigliarsi nella contrapposizione tra «uso partigiano» ed «uso sistemico» delle riforme istituzionali.
Adesso, in particolare, viene ad operare la tentazione di piegare le riforme alla precostituzione della posizione più vantaggiosa per il singolo partito a detrimento degli altri, in una situazione che vede ridursi lo spazio preponderante contro le forze antisistema, senza che sussistano ancora tutte le condizioni per l’alternanza tra maggioranza ed opposizione.
Si tende a fare delle riforme lo strumento per l’aumento del «potere di coalizione» di qualche forza e della sua capacità di condizionamento nei confronti dei possibili partners nell’ambito di un «gioco a tutto campo» che ponga le altre forze in posizioni subalterne.
Si vuol fare delle riforme lo strumento per mantenere il meccanismo della «centralità» inamovibile nella coalizione di governo per il partito ed il polo ed in grado di risultare determinante in ogni coalizione: ma senza tener conto, fra l’altro, del fatto che essa sta perdendo peso, per il ridursi della «diversità» delle forze antisistema.
Su tale piano non vi è possibilità di accordo fra i partiti per riforme incisive, non essendo componibili i contrastanti interessi al potenziamento del ruolo proprio di ognuno, al di fuori di regole e limitazioni condivise.
Resta solo lo spazio per colpi di mano, da parte delle forze in grado di imporli, o per risposte difensive, da parte di quelle messe maggiormente in difficoltà.
Ma il risultato più probabile rimane un nulla di fatto che verrebbe a dar ragione a quanti ipotizzano una specie di impossibilità strutturale dei partiti ad impegnarsi assieme in un adeguato processo di riforma istituzionale.
4. Esiste però un’altra strada che i partiti possono e debbono imboccare. Ed è quella della ricerca degli accordi per riforme che accrescano la funzionalità delle istituzioni statali e locali, sul piano della capacità decisionale come su quello del controllo reciproco. È questa la via per mettere in condizione le forze di maggioranza e di opposizione di svolgere meglio i compiti loro propri ed aumentare le proprie «chances» nella battaglia per la guida del paese. Solo così si può arrivare ad organizzare la competizione fra i partiti in una democrazia matura, collegando il nostro multipartitismo alla costruzione di coalizioni alternative e potenziando come arbitro il cittadino elettore.
In proposito, è emerso adesso un fatto abbastanza nuovo che va valorizzato. Si tratta della disponibilità dichiarata da forze di opposizione, ed anche di maggioranza, a darsi carico della funzionalità delle istituzioni come di un bene in sé per lo Stato democratico, al di là degli effetti immediati per le forze al governo e per quelle escluse dal medesimo.
Per parte sua, la Democrazia Cristiana non può non sottolineare con soddisfazione l’adesione all’indicazione in tal senso, da essa fornita da tempo. E non può che impegnarsi per far aumentare, in generale, la consapevolezza del porsi delle riforme istituzionali come la via regia per i partiti che hanno costruito la democrazia repubblicana, per legittimarsi come guida dell’adeguamento della medesima alle profonde trasformazioni di una società ormai in cambiamento continuo.
Passa di qui anche la realizzazione di quella «riforma dei partiti» posta, con insistenza sempre maggiore, come un elemento decisivo per lo sviluppo ulteriore della democrazia repubblicana, secondo le linee di tendenza comuni alle democrazie dell’Occidente.
Ed in effetti la capacità dei partiti di accettare limitazioni anche per loro, connesse a riforme che accrescano l’autonomia specifica delle istituzioni ed il primato dei cittadini, costituisce il modo migliore per essi per arrivare a comportamenti corretti e trasparenti nella vita interna e nei rapporti reciproci, oltre che in quelli con i pubblici poteri.
D’altra parte, solo muovendosi per primi in tale direzione, i partiti possono avere titoli e forza per guidare la sempre più indispensabile «riregolamentazione» dei poteri economici e sociali, che blocchi concentrazioni eccessive ed anarchie dirompenti.
Tutto questo non richiede, come da qualche parte si sostiene, una nuova «fase costituente», con la sospensione della normale dialettica fra maggioranza ed opposizione. Richiede invece che l’una e l’altra sappiano organizzare un confronto adeguato, dandosi carico delle ragioni della maggioranza in quanto tale e dell’opposizione in quanto tale, a prescindere dal ruolo occupato al momento dalla singola forza.
Bisogna che tutti i partiti si misurino a vicenda sulla disponibilità ad avviare una politica costituzionale di adeguamento continuo, per così dire, delle istituzioni repubblicane alla società in cambiamento, secondo la prassi delle liberaldemocrazie più solide.
Bisogna che essi verifichino reciprocamente la disponibilità a prendere in considerazione congiuntamente le esigenze di «governabilità» e di «democraticità», di decisionismo e di garantismo, di una Repubblica che venga a funzionare sulla base del principio di maggioranza, con la garanzia della possibilità dell’alternanza, facendo del cittadino il perno della decisione ultima.
In ogni caso, è indispensabile che la discussione fra le forze politiche sia serrata e limpida, in modo da mettere in condizione l’opinione pubblica di valutare le intenzioni effettive di ogni partito, contribuendo a bloccare quanti alzano cortine di fumo, o per non cambiare nulla o per strumentalizzare le riforme a proprio esclusivo vantaggio.
Indubbiamente, come mostrano esperienze recenti di altre democrazie, la strada più semplice per dare positiva conclusione al confronto tra le forze politiche sulle riforme sarebbe la presenza di una maggioranza compatta e determinata, in grado di misurarsi con l’opposizione e poi decidere.
Solo che da noi, sia per le modalità particolari della fondazione e del radicamento della Repubblica, sia per la complessità della transizione dal sistema del partito centrale, come perno dell’aggregazione della coalizione di governo, al meccanismo delle coalizioni in grado di alternarsi, rende necessario e comunque opportuno un rapporto in qualche modo alla pari, in Parlamento, fra tutte le forze che si riconoscono nella Costituzione repubblicana.
È abbastanza diffusa la tesi che pone in risalto una specie di impossibilità strutturale delle democrazie, e di quelle parlamentari e pluripartitiche in ispecie, a riformarsi ed a realizzare mutamenti incisivi nei rapporti delle forze politiche con le istituzioni ed i cittadini.
Ma la tesi non corrisponde alla realtà, che ha visto in questi ultimi anni democrazie europee ed extraeuropee procedere, sotto la guida di maggioranze omogenee, anche se pluripartitiche, ad incisive riforme pure del sistema elettorale.
Il caso italiano è reso peculiare dall’assenza di una maggioranza di tal genere. Ed in effetti le riforme istituzionali sono finalizzate da noi alla creazione delle condizioni per il consolidamento della maggioranza di governo in sé, ed all’affermazione in generale del principio di maggioranza nel funzionamento della nostra democrazia.
Tutto questo, però, è reso difficile dal tentativo ricorrente di finalizzare le riforme non all’avvento di una maggioranza solida in quanto tale, ma all’affermazione di una specifica maggioranza, attorno all’egemonia più o meno irreversibile del singolo partito ed alla subalternità degli altri.
Ma se la logica rimane questa il confronto in Parlamento non può portare molto lontano. Cresce così infatti lo spazio per il prevalere dei veti incrociati come si è verificato a partire dalla fase finale della Commissione Bozzi.
Bisogna impegnarsi in definitiva nella sfida per costringere le forze politiche ad esplicitare la portata effettiva della apertura ad una ricerca in comune di «compromessi ragionevoli» sulle priorità e le scadenze che consentano di dare gradualità ed organicità al processo riformatore, con la garanzia del blocco di ogni manovra strumentale e prevaricatrice.
Di qui la rinnovata insistenza, anche nell’ultima Direzione della Democrazia Cristiana, sulla opportunità di prendere le mosse dalle «riforme preliminari»: da quelle, cioè, in grado di porre in essere lo strumento per l’accelerazione delle stesse.
È questo il caso anzitutto della riforma del Parlamento. Essa comporta la modifica dei regolamenti e la revisione del bicameralismo e l’avvio della delegificazione quale via per consolidare un rapporto dialettico tra funzioni proprie della maggioranza e dell’opposizione, ed in generale fra quelle di indirizzo e di controllo del Legislativo e quelle di direzione e di coordinamento dell’Esecutivo, mettendo in condizione tutti di dare il proprio apporto al meglio per ulteriori grandi leggi di riforme.
Su tale base può poi essere messa in cantiere la riforma del Governo, a partire dalla legge sulla Presidenza del Consiglio, nonché la riforma delle autonomie locali, resa sempre urgente anche da un aggravarsi della instabilità degli Esecutivi e delle inefficienze e delle scorrettezze nella gestione, sempre meno tollerate dai cittadini.
Con questa priorità, la Democrazia Cristiana intende porre il problema di mettere in moto un riordinamento delle strutture del potere politico-istituzionale che consenta di fuoriuscire dalla crisi non solo di «funzionalità» ma anche di «legittimità» del medesimo.
È questo il modo migliore per perfezionare l’accordo sui fondamenti della democrazia repubblicana tra i partiti che si sono impegnati nella costruzione della stessa, così da poter poi avviare a soluzione compiuta il problema della maggioranza legittimata a governare sulla base della scelta diretta dei cittadini.
Va registrato adesso l’aumento delle convergenze su tale posizione di forze di maggioranza e di opposizione.
Resta però il problema di passare dalle parole ai fatti. E per questo bisogna accelerare la conclusione in Parlamento del lavoro comune di impostazione del processo riformatore, valorizzando il ruolo dei Presidenti delle Assemblee, della Giunta del regolamento e della Commissione di merito. Altrimenti ognuno dovrà assumersi le proprie responsabilità di fronte ad un paese sempre più critico, ed a ragione.
(Testo tratto dal volume pubblicato dall’agenzia Arel: PER UNA REPUBBLICA DEGLI ARBITRI. OMAGGIO A ROBERTO RUFFILLI. (A Cura di Mariantonietta Colimberti e Filippo Andreatta), Roma 2013, Pagg. 77-86).