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La responsabilita’ di dare lavoro, oggi

Ormai è chiaro per tutti. Un quantità incontrovertibile di dati statistici ci dicono che la conseguenza più rilevante della crisi è stata una drammatica contrazione del lavoro ed una sua parallela svalutazione. Le due questioni sono ovviamente connesse. Se infatti diminuisce il numero degli occupati e contemporaneamente si riducono (come è avvenuto in tanti paesi) le prestazioni sociali perché la crisi fiscale ha comportato una diminuzione delle entrate e per di più (come è stato fatto in alcuni paesi esplicitamente: è il caso degli Stati Uniti della Gran Bretagna e persino della Norvegia, in altri surrettiziamente) si è perseguito l’obiettivo di ridurre il numero di individui a carico dell’assistenza pubblica, negando, di fatto, le prestazioni sociali a tutti quelli che non avevano cercato (o non avevano trovato entro un certo periodo limitato) una occupazione retribuita purchessia, il risultato non era difficile da prevedere. Veniva infatti consentito in sostanza al datore di lavoro di trovare un lavoratore praticamente a qualsiasi modalità di impiego ed a qualsiasi salario. Cosa che in effetti si è puntualmente verificata.

Perciò, in una inarrestabile spirale perversa, mentre il numero degli occupati crollava le condizioni di lavoro e retributive peggioravano. Nel caso dell’Italia solo dall’inizio della crisi si sono persi 1 milione ed 800 mila posti di lavoro e la curva dei salari ha  fatto registrare un analogo andamento verso il basso. Non c’è famiglia che in qualche modo non sia toccata dal problema. Perché in ognuna c’è uno dei suoi componenti che ha perso il lavoro, o teme di perderlo; qualcuno che lo cerca e non riesce a trovarlo, mentre qualcun altro non lo cerca nemmeno più, perché ormai “scoraggiato”. Come viene definito dalla classificazione statistica. Fatto sta che le cifre della disoccupazione si “alzano in piedi”. Se infatti si considerano i disoccupati ufficiali siamo oltre i 3 milioni. Se a questi si sommano i cassaintegrati senza prospettive di rientro in azienda, gli “scoraggiati”, i giovani che non studiano e non lavorano, si arriva ad oltre il doppio. Vuol dire che un italiano su dieci (includendovi i neonati e gli ultra ottuagenari) sono tagliati fuori dal lavoro.

E’ stato detto tante volte, ma vale la pena ribadirlo, che essere senza lavoro non significa necessariamente non far nulla o morire di fame, come capitava nella società vittoriana descritta magistralmente da Charles Dickens in Oliver Twist. Ma significa sempre essere esclusi. Sappiamo che nel corso dei decenni molte cose relative al lavoro sono cambiate. E’ cambiata la cultura del lavoro. E’ cambiata l’organizzazione del lavoro. E’ cambiato il rapporto tra l’uomo ed il lavoro. Ma il lavoro resta un elemento fondamentale di identità, di appartenenza, di cittadinanza. D’altra parte la stessa etica religiosa sottolinea che il lavoro è una delle caratteristiche che distinguono l’uomo dal resto delle creature, la cui attività, connessa al mantenimento della vita, non si può chiamare lavoro. Solo l’uomo ne è capace e solo l’uomo lo compie, riempiendo al tempo stesso con il lavoro la sua esistenza sulla terra. Così il lavoro porta su di sé un particolare segno dell’uomo e dell’umanità. Il segno di una persona operante in una comunità di persone e questo segno determina la sua qualifica interiore e costituisce in un certo senso la sua natura. Il lavoro è perciò una condizione imprescindibile di identità, di cittadinanza, di appartenenza all’umanità. Proprio per questo la disoccupazione è non solo un gravissimo problema economico e sociale, ma anche morale. E se non viene affrontato con misure credibili ed efficaci la coesione sociale, sempre invocata, diventa una chimera.

Ma come si fa ad affrontare questo problema? Il dato da cui non si può prescindere è che la disoccupazione è ormai una epidemia e che non c’è abbastanza lavoro per tutti quelli che vorrebbero lavorare. Questo non solo per effetto della crisi, ma anche per gli aumenti di produttività realizzati ed attesi dagli investimenti tecnologici ed organizzativi. Teniamo presente che a metà del secolo scorso, quando la meccanizzazione e le innovazioni produttive hanno determinato un esubero di manodopera in agricoltura, abbiamo pensato: pazienza, vuol dire che lavoreremo nell’industria. Poi quando anche nell’industria ha incominciato a profilarsi lo stesso fenomeno abbiamo ritenuto che l’occupazione si sarebbe riversata nei servizi. Ma ora anche i servizi (esclusi quelli alla persona) incominciano a produrre da soli. Infatti gran parte delle posta non ha più bisogno di essere recapitata dal postino, perché viene scambiata attraverso computer; nei call-center al posto dell’operatore c’è un disco; quando abbiamo l’esigenza di ritirare soldi dal nostro conto bancario non abbiamo più necessità dell’intermediazione dell’impiegato, basta che ci serviamo di uno sportello bancomat; e così via. In una situazione del genere è del tutto evidente che i cerotti messi volonterosamente dal governo per questo o quell’aspetto particolare del mercato del lavoro, o per qualche sottocategoria di disoccupati, non risolve.

Allora cosa fare? Per una risposta davvero all’altezza della sfida non c’è altra via che ridurre gli orari e ripartire il lavoro tra tutti quelli che vorrebbero lavorare. Oltre tutto non si tratta di una novità. Perché è la stessa strada costantemente percorsa (sia pure con ritmi ed intensità diverse in rapporto alle circostanze) nell’arco di un secolo. Sappiamo, per esperienza, che il passato non è mai buono o cattivo come ce lo immaginiamo. E’ semplicemente diverso. Se stiamo a raccontarci storielle nostalgiche, come spesso siamo indotti a fare, non riusciremo mai ad affrontare i problemi con cui dobbiamo misurarci nel presente. Lo stesso distacco dalla realtà succede a quelli che pensano che il nostro mondo sia migliore sotto ogni aspetto. Comunque, il passato è un paese straniero e non possiamo tornarci. Ma c’è qualcosa di peggio che idealizzare il passato ed è dimenticarlo. Questo vale anche per le politiche che sono servite a contrastare la disoccupazione. Non dobbiamo quindi dimenticare che, pressappoco un secolo fa, siamo partiti da orari di lavoro di 72 ore settimanali. Cioè 12 ore al giorno per 6 giorni la settimana. Mentre ora siamo arrivati all’incirca alla metà. Senza che questo sviluppo provocasse i disastri preannunciati ogni volta dai catastrofisti. Anzi la ricchezza globale ed individuale è costantemente aumentata. Tant’è vero che con orari dimezzati la ricchezza è più che decuplicata. A conferma che non è mai esistita e non esiste alcuna correlazione negativa tra diminuzione degli orari e crescita.

Consapevoli di questo occorre agire lungo due linee complementari: mettere in campo interventi che contrastino un ulteriore aumento della disoccupazione (come purtroppo si verifica invece ogni giorno) e misure effettivamente in grado di aumentare l’occupazione. Per quanto riguarda il primo aspetto si tratta di incentivare il ricorso ai cosiddetti “contratti di solidarietà”. Incoraggiandoli anche con misure adeguate di finanza pubblica. E questo lo può fare il governo, se non vuole limitarsi a constatare ogni giorno che, malgrado gli scongiuri, la disoccupazione continua ad aumentare a causa della inesausta quotidiana proliferazione di crisi aziendali. Per quanto riguarda l’aumento dell’occupazione la strada maestra è, come si è detto, quella della riduzione degli orari e della ripartizione del lavoro. Che dovrebbe avvenire con accordi tra le parti sociali (anche differenziati per settore) di durata definita e rinnovabili, in base alle esigenze ed alla situazione del lavoro. Governo e parti sociali di comune accordo dovrebbero invece decidere di chiedere al Parlamento l’abrogazione immediata della legge scriteriata, voluta dal ministro Sacconi, per incentivare le ore di lavoro straordinario. Perché, nelle attuali circostanze, equivale alla somministrazione di zuccheri ad un malato di diabete.

Come è noto, gli oppositori della ripartizione del lavoro, indipendentemente da ogni discussione sulle modalità di attuazione, sostengono che questa via è impraticabile per ragioni di competitività. Tanto più nel contesto della “globalizzazione”. Si tratta ovviamente di una sciocchezza totalmente priva di fondamento. Non solo perché come è stato messo in evidenza da numerose ricerche e da molti tecnologi la curva della produttività tende a diminuire in rapporto alla lunghezza degli orari. Tant’è vero che nelle ultime ore della giornata si registra una produttività del lavoro calante. Ma soprattutto perché quello che conta, ai fini della competitività, è il costo per unità di prodotto. E dunque non la lunghezza dell’orario settimanale, ma semmai la produttività oraria.

Quindi il problema in questo, come in tanti altri campi, non è se sia possibile o no fare una determinata cosa, ma se siamo in grado di contrastare i pregiudizi e promuovere un indispensabile cambiamento di cultura, di mentalità e di abitudini. Per altro resta il fatto che, come cittadini di una società libera, abbiamo il dovere di guardare i problemi che ci affliggono con occhio critico. E quando ci rendiamo conto di ciò che non va abbiamo il dovere di agire di conseguenza. I filosofi ed i commentatori dei media possono limitarsi ad interpretare il mondo in vari modi. Politica e forze sociali assolvono invece al loro ruolo quando cercano di cambiarlo in meglio. Ed è questo che, in definitiva, si deve chiedere loro. 

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