Un anno fa, proprio di questi giorni, il giardino della Triennale di Milano si è aperto a qualche centinaio di persone e personaggi, tutti accorsi a discorrere della Terza Rete che Angelo Guglielmi aveva diretto dal 1987 al 1994 portandola a raggiungere gli ascolti delle altre, facendola amare e spendendo meno di un terzo, perlomeno.
Unico caso di Rete d’Autore, composta da programmi d’ogni genere, tendenza di costume, linea morale e culturale, ma dotata di un’anima come fosse un individuo. Altra cosa, com’è ovvio, dal presidiare un segmento, giovane o vecchietto, tendenza maschio oppure femmina, nell’audience. È la palpabile esistenza di quest’anima che rende quella Rete ricordabile come una persona con cui si sia passata un’intima esperienza. Al punto che tutti la chiamano la “Terza Rete di Guglielmi”, frutto dell’incrocio fra un formidabile talento di organizzatore culturale e quattro fondamentali colpi di fortuna.
La fortuna
In primo luogo le frazioni DC e PSI, che controllavano la Rai, diverse da quelle che reggevano il sacco a Berlusconi, decisero a metà degli anni ’80 che per reggere alla pressione del Biscione fosse conveniente sbloccare la “conventio ad excludendum” nei confronti del Partito Comunista. Da qui, inaudito per quei tempi, il riconoscimento dell’esercizio da parte del PCI del “diritto” di designare la guida di una Rete, purché ovviamente si contentasse della Terza che a sette anni dall’esordio e presa in contropiede dalla tv commerciale senza regole, non era ancora nata e contava su minime risorse.
Il secondo colpo di fortuna consisteva nel vigore – ancora forte perché esistevano i partiti lottizzanti della Repubblica cosiddetta Prima – della “spartizione verticale delle Reti”, risalente alla Riforma del 1976, grazie alla quale i Direttori disponevano, nei limiti del budget, delle risorse finanziarie e tecniche necessarie a innescare e completare il ciclo di ideazione, produzione, trasmissione. Oltre, e non da ultimo, a scegliersi, se ne avevano il coraggio, collaboratori veri e non zavorre.
Il terzo colpo di fortuna risiedeva nella propensione del PCI, forse un indizio di prudenza, ad essere protettore, ma non padrone della Rete. Sicché, incredibile a dirsi, quel partito usò il potere di designazione a favore non di un frutto della stia cultural-politicante né di un malleabile imbucato, ma di Guglielmi: in Rai da trent’anni come vincitore di un concorso, immensa esperienza nella concezione e realizzazione di programmi, forte di quel tanto di rispetto che è d’obbligo verso un critico letterario sia temuto che apprezzato.
Il quarto sorriso della sorte era la inconsistenza d’ascolti e di linea editoriale della Rete nel momento in cui gli venne consegnata. Molti sogghignavano prevedendo fatiche velleitarie e un rapido acconciarsi a propositi modesti, ma questo vuoto consentiva di provare e riprovare senza inerzie e debiti di sorta e di praticare la virtù dell’evoluzionismo creativo, che consiste nel fulminare gli errori e trattenere in palinsesto le cose andate a segno.
Il talento
Reso quel che meritano alle circostanze della sorte, Angelo è stato capace di moltiplicarne l’effetto cento volte grazie al fatto d’essere quel che era: sensibile e fecondo nel rapporto col reale, fossero singole persone o drammi collettivi; esploratore delle idee e delle emozioni attraverso le strutture del linguaggio e per nulla esposto all’incantamento della razionalità ragionevole e degli ideali narcisisti dei diavoletti da salotto; coraggioso oltre ogni limite, ma freddo nel calcolare i limiti del rischio perché capace di vagliare i rapporti di forza fra l’interno e l’esterno dell’azienda e della Rete.
Giunto alla Direzione di una Rete quanto già mancava un pugno d’anni alla pensione ha dato all’impresa un’illimitata riserva d’energia e l’ha portata a dialogare con le onde e le spinte del reale. A partire dall’esistenza di un Capo incontestato, la squadra della Rete ha lavorato divertendosi, pensando e producendo.
Il carattere
Ovviamente era arcinoto, impossibile nasconderlo, per il pessimo carattere e le scenate in parte autentiche, ma anche assai favoleggiate. Tuttavia per subirle occorreva un grado alto nell’ordine gerarchico aziendale, perché, a onor del vero, non l’abbiamo mai colto meno che cortese nei confronti di chi fosse senza gradi. E comunque, anche a dispetto dei “papaveri”, si trattava di ira lasciata correre un po’ per calcolo, come maschera utile da indossare per mettere alla prova la tenuta argomentativa dell’interlocutore, ma non sempre sebbene quando questi s’affannava a spiegare l’inevitabilità di qualche regola da ossequiare o di qualche superiore direttiva da seguire.
Una tecnica diffusa fra i tipi più scaltriti della Rai, resi coriacei dall’esperienza che sono sempre mille, se ti metti ad ascoltarle, le ragioni per non fare e che ne sono piene le tombe del concludere. Quanto a noi, non arriveremo a dire che in realtà fosse un bonario perché l’ampiezza dello sguardo gli evitava di infuriarsi per davvero. Ma ci tratteniamo solo perché nessuno mai ci crederebbe. E ci teniamo il colpo di fortuna di avergli potuto dare mano.
*da Domani, 12/07/2022