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La riforma del lavoro in Spagna

Lo scorso 3 febbraio la Spagna si è dotata di una nuova riforma del mercato del lavoro che deroga e supera la normativa approvata dal governo dei popolari di Mariano Rajoy nel 2012, in piena stagione di politiche dell’austerità, che nel Paese iberico sono state particolarmente regressive. L’approvazione parlamentare è arrivata al termine di una sessione concitata in cui il governo di sinistra di Pedro Sánchez è stato abbandonato, in modo piuttosto frivolo, dalle sinistre indipendentiste catalane e basche ed è riuscito a uscirne indenne solo grazie al voto erroneo di un deputato dei popolari.

La norma è il frutto di un lungo e paziente lavoro di dialogo fra le parti sociali, voluto e rincorso dalla ministra del Lavoro Yolanda Díaz, astro nascente della sinistra alternativa, che, dopo essere riuscita a far firmare a sindacati e Confindustria oltre dieci accordi negli ultimi due anni, ha portato a casa il risultato più ambito. Qui la prima novità, decisiva, della riforma: nel post-franchismo, nessuna modifica normativa di una certa importanza relativa al mondo del lavoro era stata approvata con la partecipazione del governo, delle associazioni degli imprenditori e dei sindacati. Certamente questo era uno dei requisiti che la Commissione europea aveva segnato come indispensabile per un rapido arrivo dei fondi Next Generation. Ma l’impresa è comunque storica in un Paese in cui il dialogo sociale sembra essere più l’eccezione della regola. La seconda novità, importante anch’essa, è che si tratta della prima riforma che – pur con tutti i condizionamenti – si traduce in una dinamica di recupero dei diritti dei lavoratori e non in una progressiva limitazione degli stessi.

La nuova norma si concentra su quattro aspetti centrali. In primo luogo, ridisegna la gerarchia dei processi di contrattazione. La norma del 2012 sanciva la prevalenza della contrattazione frutto degli accordi d’impresa sui contratti collettivi. Questo, in un contesto di risposta alla crisi via svalutazione salariale, voluta dai governi conservatori, si era tradotto in un mercato al ribasso: la perdita oggettiva di potere delle organizzazioni sindacali nelle negoziazioni aveva fatto sì che la concorrenza si giocasse troppo spesso sulla riduzione dei costi del lavoro. La riforma stabilisce nettamente la centralità della contrattazione collettiva, con il correlato non solo di ridare spazio alle organizzazioni sindacali, ma anche di garantire condizioni equiparabili nelle diverse zone del Paese. D’altro canto, la nuova norma reintroduce la regola secondo la quale una volta che scade un contratto collettivo questo resterà in vigore fino ad un nuovo accordo. La legislazione del 2012 invece stabiliva che, a scadenza e nel caso in cui non vi fossero le condizioni per stipulare un nuovo accordo, entrasse in vigore un accordo d’azienda, solitamente sfavorevole agli interessi dei lavoratori.

Il secondo aspetto riguarda l’introduzione dell’obbligo, per tutte le aziende che assumono attraverso imprese multiservizio (di fatto, le grandi centrali di smistamento del lavoro precario, che in Spagna hanno fatto furore dalla fine degli anni Novanta) di rispettare i salari e le condizioni stabilite dal contratto collettivo del settore nel quale effettivamente i lavoratori verranno impiegati. In questo modo, si colpisce la possibilità che le esternalizzazioni si risolvano in condizioni di lavoro peggiori e salari più bassi. In qualche modo, la misura spinge anche le imprese a investire nella qualificazione dei propri dipendenti, nella misura in cui l’esternalizzazione non garantisce benefici sufficienti (derivati dalla sostanziosa contenzione dei costi del lavoro) a giustificare l’impiego di personale instabile e non qualificato.

Il terzo aspetto – probabilmente il più corposo – fa riferimento alle misure per la riduzione della temporalità. Da questo punto di vista, non solo la nuova norma attacca il male endemico del mercato del lavoro spagnolo – nel 2019 i lavoratori a tempo determinato in Spagna erano il 26,8%, la percentuale più alta dell’Ue, con picchi del 35% in regioni come l’Andalusia, contro il 17,9% in Italia –, ma lo fa da diversi fronti. In primo luogo vengono eliminati i cosiddetti contratti a termine “per opere e servizi”. Questa tipologia di contratto, diffusissima, è stata utilizzata in modo volutamente scorretto da migliaia di imprese: gli stessi lavoratori collezionavano nella stessa ditta nel corso degli anni decine di contratti temporanei successivi. Era l’escamotage per risparmiare sui costi delle assunzioni a tempo indeterminato, ma anche su quelli – già piuttosto ridotti, a dire il vero – dei licenziamenti. Un lavoratore con un contratto a termine non c’è bisogno di licenziarlo: basta che alla fine del suo ultimo rapporto si decida semplicemente di non riassumerlo. Per questo il dibattito sulle indennità di fine rapporto (anche in caso di licenziamento senza giusta causa) è stato escluso dal negoziato: non solo per l’opposizione delle associazioni imprenditoriali, ma anche e soprattutto perché l’obiettivo complessivo della norma è quello che il licenziamento sia l’eccezione. Per questo, la nuova formula dei contratti a termine – che possono essere stipulati solo in caso di condizioni accuratamente documentate e comprovabili, per sei mesi in caso di situazioni imprevedibili, e di 90 giorni in caso di picchi prevedibili e limitati della produzione – divengono in qualche modo “eccezionali”. Per questo anche, si introduce l’obbligo di trasformare in contratto a tempo indeterminato tutte quelle situazioni nelle quali un lavoratore ha accumulato 18 mesi di contratto a termine in due anni nella stessa ditta o in ditte dello stesso gruppo, indipendentemente dalla posizione occupata, con un meccanismo automatico. Sono previste sanzioni per le imprese che eludono la norma, in maniera rafforzata: le multe non saranno contabilizzate più per ogni impresa che aggira la normativa ma per ogni contratto fraudolento. È rilevante: spesso negli ultimi anni le imprese hanno letteralmente messo a bilancio il costo delle multe, perchè in realtà comunque ci avrebbero guadagnato.

Sempre per incidere sulla temporalità, poi, vengono ampliate e messe in sicurezza le modalità contrattuali, che adattano l’obiettivo della riduzione della temporalità alle caratteristiche specifiche della struttura produttiva spagnola, in cui per esempio, occupa un posto fondamentale il settore turistico (che valeva quasi il 13% del Pil prima della pandemia), stagionale per definizione. Si allargano le condizioni per stipulare contratti per lavoratori “fissi-discontinui”. Fino ad adesso era riservato a pochissime attività: ora si generalizza alle attività stagionali prevedibili. Ne uscirà molto più garantito, per esempio l’esercito degli impiegati del settore turistico. Permetterà a tutti i lavoratori assunti con questa modalità di mantenere tutti i diritti propri di un contratto a tempo indeterminato: dal salario, alle condizioni e soprattutto, l’anzianità, con i benefici economici che comporta.

La nuova legge riformula anche i contratti di formazione-lavoro, creando due modalità: la formazione alternata e il tirocinio. Importante notare che in entrambi i casi sarà obbligatorio pagare come minimo il 60% del salario previsto dal contratto collettivo del settore. Infine, la nuova legge ridisegna lo strumento della cassa integrazione, estendendolo in maniera sistematica. Da questo punto l’esperienza della pandemia è stata fondamentale per dimostrare le potenzialità di uno strumento che ha salvato posti di lavoro ed imprese. La legge introduce il meccanismo “Rete”. In caso di crisi e dopo l’autorizzazione da parte del Consiglio dei ministri, le imprese possono attivare la casa integrazione per un massimo di un anno e con esenzioni  contributive che diminuiscono dal 60% al 20% o, in caso di ristrutturazione settoriale per sei mesi, estendibile a un anno e con esenzioni del 40%. Di fatto, un meccanismo automatico che corresponsabilizza imprese e governo nel mantenimento dell’occupazione e nelle trasformazioni dei settori produttivi che saranno necessarie nei prossimi tempi.

In definitiva si tratta di una riforma importante, non solo per il momento in cui arriva e il consenso delle parti sociali che l’ha resa possibile, ma perché mette la Spagna in condizioni di affrontare l’incerto orizzonte economico derivato dagli effetti della pandemia e della crisi economica che seguirà alla guerra in Ucraina con uno strumento legislativo di ampio respiro. Da questo punto di vista rappresenta una discontinuità forte rispetto a un passato nel quale la competitività dell’economia spagnola si era giocata tutta su una flessibilità male interpretata che colpiva non solo

le condizioni dei lavoratori ma l’insieme della sostenibilità del sistema. In sintesi, si cambia rotta.

*da Il Mulino, 17/03/2022

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