Uno storico del lavoro del prossimo secolo potrebbe considerare, guardando dall’alto l’evoluzione delle relazioni industriali in Italia, l’accordo stipulato dai sindacati metalmeccanici alla Lamborghini in questi giorni come la chiusura della lunga stagione della conflittualità operaia nella produzione manifatturiera.
L’intesa raggiunta nel gruppo automobilistico emiliano muta infatti l’identità sociale dei lavoratori, trasformandoli da personale subalterno antagonistico al vertice aziendale in professionisti dipendenti dal successo dell’impresa.
In sintesi, dal prossimo anno nello stabilimento che produce le famose autovetture sportive, che stanno avendo un successo strepitoso in tutto il mondo con risultati record nel post pandemia, si lavorerà, con procedure graduali di attuazione, per 4 giorni alla settimana, con una flessibilità di turni ed orari, che permetterà comunque ai circa duemila addetti di combinare altre attività e occupazioni.
Insieme all’orario cambia sensibilmente il regime delle retribuzioni che avranno forti aumenti legati alle performance del fatturato – quest’ anno di parla di un premio di 4 mila euro per ogni lavoratore- e si trasforma anche l’insieme del welfare complessivo, con il rafforzamento dell’assistenza aziendale, che legherà sempre di più la gestione famigliare di ogni dipendente all’impresa.
L’insieme di queste misure, in una fase di altissimo sviluppo tecnologico, preludono ad ulteriori balzi. Infatti il sistema degli orari, che proprio con la riduzione a 4 giorni diventa estremamente flessibile ed adattabile, sembra preparare una fase di ulteriore e più integrale automatizzazione delle lavorazioni più gravose.
Un processo che gli stessi lavoratori si troveranno ad accompagnare, facendolo coincidere per molti di loro con procedure di pre pensionamenti premianti, perché coinciderà con un sostanzioso risparmio dei costi e dunque aumento della redditività aziendale.
In questa prospettiva sono due le tendenze che alla Lamborghini, forse per la prima volta in una media azienda di produzione manifatturiera, coincidono: da una parte la fabbrica che diventa bottega, che si artigianalizza, se possiamo usare questo termine, diventando un centro di personalizzazione e e adattamento di ogni singolo prodotto che viene realizzato a monte da una robotizzazione della catena di montaggio, dall’altra i lavoratori che assumono sempre più il profilo di esperti e collaboratori dell’apparato aziendale nella produzione di un valore aggiunto, appunto artigianale.
Sembra tornare così, dopo esattamente 60 anni, il sogno di Adriano Olivetti e del suo progetto politico culturale di Comunità, in cui le aziende che investivano in qualità dei prodotti, ricordiamo cosa era l’azienda di Ivrea in quei primi anni 60 in cui incubava la Programma 101, il primo personal computer del mondo. Già allora, contornato dalla fredda ostilità sia delle forze di governo, a partire da una DC sospettosa per le esuberanze sociali di un imprenditore che usciva dal coro conservatore, sia della sinistra che temeva una concorrenza rispetto al consenso operaio, Adriano parlava dell’informatica come tecnologia di liberta che avrebbe connesso la gestione dell’impresa al suo capitale umano che doveva concorrere alla qualità e esclusività del prodotto.
Molto dopo Aldo Bonomi nel suo libro Oltre Le Mura dell’impresa ( Derive e Approdi editore), radiografando i processi di riorganizzazione industriale in quello che chiama LOVER (Lombardo-Veneto-Emiliae Romagna) coglie proprio la nuova struttura genetica di un capitalismo molecolare che scompone la contraddizione classica capitale/lavoro facendo convergere, non sempre in una chiave progressista, le figure della nuova imprenditorialità, in larga parte composte da ex operai, con la massa dei lavoratori specializzati.
Ora siamo ad un nuovo salto socio tecnologico. All’orizzonte un nuovo tornante che vede da una parte un potenziamento delle attività individuali mediante l’accessibilità a capacità di intelligenza artificiale distribuita, dall’altra l’integrazione della potenza di calcolo nella linea di produzione con un’estesa automatizzazione delle singole attività.
Uno scenario che vede mutare la struttura e composizione dei prodotti, che tendono a diventare sempre più adattabili al singolo cliente e come tale richiedono, accanto ad una fase di produzione di massa, applicazioni artigianali che danno valore aggiunto e capacità narrativa ad ogni singolo oggetto.
Ovviamente non è più la quantità di lavoro che decide, ma il livello di identificazione nelle rilavorazioni da parte di ogni dipendente.
L’intesa alla Lamborghini sposta così l’epicentro della contesa in fabbrica dall’erogazione del lavoro, quello che si definiva con la mitica espressione di Marx, plus valore, alla modulazione dei processi industriali dove riassetto delle mansioni, automatizzazione delle lavorazioni, e qualità delle applicazioni si combinano con la mediazione tecnologica. Chi dovrà controllare questi processi e soprattutto chi accompagnerà i trasferimenti di competenze, di esperienze, del saper fare dalla comunità dei lavoratori, il cosidetto lavoro vivo per rimanere ai classici, alla macchina che ne estrarrà forme di autoaddestramento? Un quesito che rende l’accordo Lamborghini una sfida per tutti.