L’Istat, il 2 marzo, ha reso noti tre serie di dati sull’occupazione, la media annua del 2014, i dati del IV trimestre 2014 e quelli del gennaio 2015. Il segno + è comune alle tre serie di dati, con valori di aumento di occupazione in base anno che vanno dagli 88mila della media 2014 ai 156mila del IV trimestre 2014 ai 131mila del gennaio 2015.
Essendo ben noti i limiti dei dati mensili Istat perché, si limitano a pochissimi indicatori e nulla ci dicono sulle dinamiche settoriali, contrattuali od orarie, per capire quel che è successo di strutturale, faremo riferimento ai dati trimestrali e soprattutto a quelli annuali del 2014, i più ricchi di indicatori.
Dovendo calare in Europa il dato italiano, mi riferirò anche a due altre serie statistiche di Eurostat, Employment rate, e Youth Unemployment rate, cioè i tassi di occupazione ed i tassi di disoccupazione giovanile.
In occasione della emissione dei dati Istat sull’ occupazione, che hanno segnali positivi dopo sette trimestri negativi, si sono moltiplicati i commenti ottimistici, ispirati più da posizioni ideologiche che da analisi serie. Se è giusto esultare per un cambio di rotta e sperare che il miglioramento continui e si accresca nel tempo, anche alla luce dei recenti incentivi governativi alle assunzioni a tempo indeterminato, è pericoloso gonfiare di ottimismo ingiustificato dati che un tale ottimismo, a ben vedere , non giustificano.
Cominciamo dalla situazione di partenza. Sulla base dei due dati più significativi della condizione sociale comparata, il livello occupazionale misurato dal tasso di occupazione e la condizione giovanile misurata dal tasso di disoccupazione giovanile, nella EU 28, solo 3 paesi su 28 stanno peggio di noi, Grecia, Spagna e Croazia. Questi paesi hanno sia un tasso di occupazione più basso del nostro, che già è bassissimo -59,8% secondo Eurostat che rapporta gli occupati alla popolazione 20-64 anni, contro il 68,3% di EU28- sia un tasso di disoccupazione giovanile maggiore del nostro, che già è altissimo. Tutti gli altri 24 paesi, Cipro, Romania e Malta compresi, stanno meglio. Per avere una idea del divario quantitativo con l’EU28, all’Italia mancano 3 milioni di occupati per essere in media “europea” e 5 milioni per essere in media “tedesca” –tasso di occupazione 77,1%.
Il confronto con i dati della disoccupazione giovanile è ancora più impietoso, se si confronta il nostro 41,2% col 21,2 della EU28.
Non considero qui il dato della disoccupazione totale perché è il meno significativo di tutti. Da esso infatti, come dice l’Istat, “sono esclusi i disoccupati cosiddetti scoraggiati che non cercano attivamente lavoro nella settimana precedente l’indagine” e passano nella categoria “inattivi”. Solo così si può capire perché l’Italia ha un tasso di disoccupazione totale simile alla media europea, 12% contro l’11%, e come può essere che paesi dal tasso di occupazione diversissimi come Svezia e Romania, abbiano tassi di occupazione simili intorno all’8%.
Purtroppo i dati analitici che l’Istat fornisce sia nella rivelazione trimestrale che in quella annuale, confermano il divario quali-quantitativo con l’Europa che sopra ho sinteticamente illustrato e confermano alcune amare realtà del Bel Paese in ordine a, tipi di lavori offerti, di bassa qualità tale da essere più adatti agli stranieri che agli indigeni; preferenza, nelle assunzioni degli anziani rispetto ai giovani, per una serie di ragioni che andrebbero approfondite, come condizioni contrattuali più scadenti e precarie; tipologie contrattuali prevalenti, ancora quelle a tempo determinato, a part time e precarie rispetto a quelle a tempo indeterminato; andamenti settoriali che, accanto a provvisorie interruzioni di cali occupazionali agricoli ed industriali, confermano la crescita del terziario, si pure con andamenti deboli nei settori avanzati.
Nelle analisi dettagliate che seguono, mi riferirò ai dati annuali 2014, con un aumento di 88mila unità in base anno, analisi nell’andamento qualitativo, simili a quelle del IV trimestre 2014.
Giovani sempre più penalizzati.
I giovani sono sempre più rifiutati da un mercato del lavoro che offre poco o niente di interessante per essi. Infatti, come scrive l’Istat, “Prosegue il calo degli occupati 15-34enni e degli occupati 35-49enni, a fronte dell’aumento degli occupati con almeno 50 anni” . Gli 88mila occupati in più in base annua, vengono da meno 148mila 14-34 anni, da meno 162mila 35-49 anni e da più 398mila “anziani” con almeno 50 anni. Dati orribili per un paese dalla disoccupazione giovanile record, ma indicativi, purtroppo, del paese più vecchio del mondo e che, a differenza di Germanie Giappone, paesi vecchi come noi, ma che invecchiano meglio di noi.
Evidentemente l’offerta di lavoro preferisce gli anziani ai giovani, sia perché, per il buco demografico che dura da quarant’anni (dal 1975 crescite annue dimezzate a 500mila), ne trova pochi sul mercato e ancora meno disposti a fare lavori umili e mal pagati, sia perché vecchi ed anziani sono più favorevoli ad accettare paghe basse, diritti ridotti ed orari lunghi.
Lavori di bassa qualità, più adatti agli stranieri.
Nel 2014 l’occupazione straniera è aumentata di 111mila unità mentre quella italiana si è ridotta di 23mila con un saldo netto positivo di 88mila unità.
E la cosa non deve sorprendere perché corrisponde ad una vecchia tendenza di una domanda di lavoro “povera” che attrae più stranieri che italiani, che dura almeno da un decennio.
Infatti da anni una domanda fatta soprattutto di lavori umili e mal pagati incontra un’offerta prevalentemente di stranieri: servizi alla persona, colf e badanti, baristi e camerieri, mungitori e raccoglitori, sono questi i lavori che il paese più vecchio del mondo, con una produzione di beni e servizi tra le meno innovative del mondo, riesce ad offrire. E poiché questi lavori “poveri” e mal pagati sono più accettati dagli stranieri che dagli italiani, ecco una vecchia caratteristica delle nostre statistiche sul lavoro, nota da anni agli esperti ma non a tutti gli italiani, a cominciare dal leghista Salvini in giù che tuonano contro “gli stranieri che ci tolgono il pane”; la balla più grossa, da quando la domanda di lavoro è povera e mal pagata e quindi incontra soprattutto un’offerta straniera, che se non ci fosse bisognerebbe inventarla. Altrimenti, l’azienda Italia sarebbe già fallita, Inps compresa che già incassa quasi 10 miliardi l’anno da contributi di stranieri, senza contare dei settori che, per mancanza di braccia, avrebbero chiuso bottega: agricoltura, pastorizia, pesca, servizi alle famiglie, fonderie, industrie alimentari, pulizia delle città, etc…
Questo offre il paese più vecchio del mondo, che non innova e non fa figli da 40 anni (dal 1975 i nati si sono dimezzati a 500mila l’anno, mentre in Francia, paese grande come noi, ne nascono 800mila) e non avvia nessuna politica seria per la famiglia.
Tipologie contrattuali sempre più precarie.
La crescita dell’occupazione interessa in misura contenuta i lavoratori a tempo indeterminato (+18mila unità) e in modo più sostenuto i lavoratori a termine (+79mila unità). Prosegue invece a ritmo meno sostenuto il calo degli indipendenti.
Per riassumere l’occupazione aggiuntiva di 88mila unità nel 2014 deriva solo per 18mila unità da lavori a tempo indeterminato, il 18% del totale assunti lavoratori dipendenti, che è di 97mila unità, essendo il totale di 88mila unità composto anche da un -9mila lavoratori indipendenti.
È l’ennesima constatazione di un mercato del lavoro la cui qualità peggiora nel tempo, dove prodotti, servizi e lavori qualificati sono sempre meno, mentre aumentano prodotti e servizi a bassa innovazione che richiedono lavori umili e che consentono, anche per la debolezza dei nostri sindacati, paghe molto al disotto dei livelli “atti ad assicurare a se ad alla famiglia, un’esistenza libera e dignitosa” (art 36 della Costituzione). Ecco spiegato l’aumento dei Working Poors, recentemente segnalato anche dall’Istat, occupati che non guadagnano abbastanza per una vita dignitosa-
Cresce il part time involontario.
Alla nuova discesa dell’occupazione a tempo pieno (-35mila unità, pari al -0,2%) si associa l’ulteriore incremento di quella a tempo parziale (124mila unità pari a +3,1%). Sale ancora l’incidenza di quanti svolgono part time involontario, cioè sono obbligati e non è una libera scelta, dal 61,3% del 2013 al 63,6% del 2014.
Andamenti settoriali: continuano a crescere i servizi ma più debolmente che in Europa.
Un segnale positivo è l’arresto del calo dell’occupazione manifatturiera e di quella agricola che durano da decenni, piccola inversione di tendenza che però ha poco di strutturale. In agricoltura, da anni assistiamo ad un processo di ringiovanimento con rinnovamenti colturali che riguarda però, in complesso, piccoli numeri, pesando l’agricoltura, con 867mila unità, meno del 4% dell’occupazione totale. Per quanto riguarda l’industria manifatturiera essa da decenni perde peso, in occupati e produzione in tutti i paesi industriali; in Italia essa ha perso 500mila occupati in 10 anni, 2004-2014. Oggi essa pesa il 15% di Pil ed occupazione nei paesi industriali con massimi del 17% in Germania, Giappone ed Italia, mentre le previsioni per i paesi industriali sono per un peso ancora più ridotto, al 12% nel 2019 (Ilo, World Employment and Social Outlook, trends 2015).
Al piccolo incremento 2014 dell’occupazione manifatturiera (61mila unità pari a +1,4%) si contrappone il persistente calo nelle costruzioni (69mila, pari a -4,4%), mentre l’occupazione continua a crescere nel terziario (84mila pari a +0,5%), come fa da decenni a questa parte, sia pure più debolmente che nei paesi industriali più avanzati.
Conclusioni.
Non ci sono campane da suonare a stormo per un piccolo aumento di cattiva occupazione cominciato nel IV trimestre 2014 e confermato nel gennaio 2015, occupazione di qualità sempre più scadente che produce uno dei più amari paradossi italiani, abbiamo la metà dei giovani di un paese normale ed il più alto tasso di emigrazione qualificata di giovani (laureati a diplomati) dopo la Grecia.
Ma non c’è neanche da suonare campane a morto o non suonarle affatto. Una inversione di tendenza c’è stata, lieve ma c’è, speriamo che si rafforzi, cosa possibile se copiamo le buone pratiche europee, più qualità dei prodotti, più servizi, meno ore lavorate.
Purtroppo l’andamento dell’economia e del mercato del lavoro non segnalano nessuna delle novità interessanti che potremmo, ad esempio, copiare dalla Germania e da tutti i paesi del Nord Europa, Francia ed Austria incluse, che hanno tassi di occupazione nettamente migliori, come un aumento della qualità delle produzioni, un rafforzamento della crescita dei servizi avanzati che, in tutti i paesi industriali, hanno più che compensato i vuoti della deindustrializzazione, un adeguamento flessibile degli orari alla media europea, più bassa del 20% almeno alla nostra (1500 ore annue contro 1800). Mentre la Germania ha abolito gli straordinari sostituendoli con la banca delle ore, l’Italia resta l’unico paese europeo che fa pagare l’ora di straordinario meno dell’ora di lavoro ordinario. Con queste regole non si aumenta l’occupazione e tanto meno quella dei giovani.
L’auspicio è che analisi più attente della nostra pessima condizione economica ed occupazionale spingano il bel paese nelle giuste direzioni e soprattutto che si affronti il problema N. 1, la bassa natalità, le culle vuote, che, come insegna la storia economica di millenni, porta diritto il paese al disastro economico e sociale..
(*) È presidente della società di business intelligence Onesis di Roma