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Le democrazie occidentali hanno ancora qualcosa da proporre?

Viviamo un momento di apprensione e di irrequietezza.

Eppure non è passato molto tempo da quando, con la caduta del muro di Berlino, si preconizzava la “fine della storia” segnata dalla supremazia della democrazia e dall’economia di mercato nella loro unità, ritenuta indissolubile.

Il fatto è che la storia non si autosospende mai e attraverso le crisi, determina l’evoluzione dell’umanità. C’è stata la rivoluzione di internet che ha modificato il modo di comunicare; l’intelligenza artificiale sta modificando i modi di produrre e di consumare; è nato un nuovo capitalismo globale trainato dalla finanza internazionale e dagli imprenditori delle nuove tecnologie digitali (i signori degli algoritmi e delle nuove piattaforme) che ha dato vita ad una inedita concentrazione di poteri, di conoscenze, di ricchezza; sono emerse nuove potenze illiberali (Cina, Russia) che sfidano gli ordinamenti democratici.

Si sta delineando il passaggio da una globalizzazione cooperativa, in uno spazio giuridico globale aperto alla libertà degli scambi, ad un nuovo multilateralismo competitivo nel quale i rapporti di forza tendono a porsi come principi regolatori delle relazioni all’interno e fra i diversi paesi. Si prospetta una nuova globalizzazione basata sulla teorizzazione della distinzione fra paese amico e paese nemico. Un regresso sul piano della pacifica convivenza (di cui l’aggressione Russa all’Ucraina è una spia), tanto più inquietante quanto più si considerano le sfide in atto che coinvolgono tutti i paesi, quale che sia il loro regime politico: la tutela dell’ambiente, il contrasto alle pandemie, la gestione delle nuove ed inquietanti tecnologie, il governo dei flussi di emigrazione.

Due questioni meritano di essere poste: le nostre democrazie occidentali hanno ancora la vitalità necessaria per tornare ad essere attrattive per il resto del mondo? Quale ruolo possono esercitare nella creazione di un nuovo ordine internazionale che, favorendo uno sviluppo solidale e sostenibile, sia in grado di prevenire futuri conflitti politici?

In ordine alla prima questione, occorre prendere atto che anche nei paesi dove la democrazia è più consolidata si registra un declino delle istituzioni rappresentative (partiti, sindacati) che riduce la partecipazione dei cittadini alla vita politica e sociale. Al confronto, i sistemi illiberali contano sui vantaggi di una verticalizzazione dei processi decisionali che non deve mediare con le opinioni pubbliche.

Senza negare che i paesi democratici hanno un problema di governabilità nel recuperare efficienza alle decisioni politiche ed efficacia nell’azione pubblica, va ricordata la dimensione “liberante” delle democrazie che è quella di sottrarre i cittadini all’oppressione, al dispotismo di chi governa. La democrazia, così intesa – una creazione della cultura e della civiltà occidentale – non può non interpretare il valore universale dell’aspirazione di ogni essere umano alla libertà, quale che sia la religione, la storia, il regime politico del paese di appartenenza. Si può così ritenere che lo stato di diritto, basato sulla supremazia della legge, mantenga una sua capacità attrattiva, presentando, peraltro, una capacità di adattamento alla varietà dei contesti politici e sociali.

La seconda questione riguarda l’ordine internazionale segnato dall’emergenza di nuove potenze, come Cina e Russia, che sfidano il mondo occidentale ritenuto decadente. Alla luce della storia passata, la previsione è quella di uno scontro inevitabile fra il blocco egemone e quello sfidante. Così è avvenuta l’alternanza degli imperi. Un evento da scongiurare tenendo conto della letalità delle armi nucleari ma anche della interdipendenza economica e finanziaria che lega i due blocchi.

Occorre uscire dalla trappola geopolitica in atto considerando che la maggior parte del mondo è estranea a tale conflitto, benché sia partecipe delle stesse sfide cui l’umanità deve reagire. Basti considerare che i paesi democratici con le economie più forti (G7) hanno una popolazione di 770 milioni di persone a fronte dei tre miliardi e 200 milioni dei paesi non allineati (Brics).

Occorre avviare una riflessione che parta dalla crisi dell’ordine internazionale creato nel secondo dopoguerra, caratterizzato da una molteplicità di regolatori internazionali senza tuttavia configurare vere autorità globali in grado di produrre meccanismi di risoluzione delle controversie tra i diversi paesi. I governi nazionali hanno ceduto porzioni di sovranità ma hanno mantenuto il monopolio nell’uso della forza.

Il quesito che si pone è se le nostre democrazie abbiano la capacità di farsi promotrici di un nuovo sistema di equilibri multilaterali che riaccreditino, in forme diverse, il riconoscimento universale del diritto dei popoli alla democrazia, promuovendo i processi di integrazione economica e sociale che sostengano un tale obiettivo. L’ottimismo della ragione sostiene questa capacità perché è propria delle democrazie la legittimazione del pluralismo degli interessi, all’interno e nei rapporti fra i diversi paesi, da ricomporre, attraverso il confronto e il compromesso, con soluzioni che offrano vantaggi reciproci.

Nel passato i pericoli di una guerra nucleare sono stati tenuti sotto controllo attraverso accordi di controllo degli armamenti.

Oggi la situazione è più complessa, ma le democrazie hanno ancora le arti migliori per proporre al resto del mondo nuovi sentieri di prosperità e di pace. Ci vuole il coraggio dell’immaginazione e la volontà di futuro.

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