Per uscire dalle secche delle opinioni retoriche e quindi non incisive, sulla questione “donna” bisogna sempre tenere presente che è argomento che affonda nei secoli la sua origine. Lo evoco soltanto per mettere in evidenza la durezza della sua consistenza, non certo per giustificare piccole e grandi ingiustizie, vessazioni e nefandezze compiute dalla sovranità dell’uomo, singolo o fattosi istituzione. Ovviamente, sono innegabili i passi in avanti compiuti nel tempo in fatto di parità di genere, di partecipazione al lavoro e di impegno sociale e politico. Cioè nei tre grandi spaccati della condizione femminile nelle società a benessere diffuso, come è quella italiana. Ma nessuno può affermare che la pratica sia archiviata. Anzi, ha assunto connotati sempre più complessi.
L’uguaglianza tra donna e uomo in Italia ha leggi solide, diritti acquisiti, pratiche diffuse. Ma nel concreto della vita quotidiana delle persone le cose non vanno sempre nel verso giusto. Il femminificio è in crescita, la maternità in decrescita, la violenza in agguato, l’emarginazione non arginata. La figura della donna resta fragile. Più che la norma, conta la cultura. Se questa non evolve nella direzione di una consapevole e pacifica parità – ma anzi resta condizionata dalla evoluzione autonomista delle donne e dalla percezione degli uomini di perdere potere – questa pari dignità è condannata a regredire.
E’ in ballo una riconsiderazione del concetto di “parità”, di cui s’è alimentato il movimento femminista per rivendicare il legittimo ruolo della donna in seno alla società contemporanea. Esso ha costituito sinora un efficace grimaldello per scardinare retaggi culturali e regole, scritte o meno, che ponevano la donna in posizione di svantaggio. Ma le attuali dinamiche sociali necessitano di un nuovo e più evoluto paradigma. La diversità biologica, emotiva e psicologica dei due generi è compressa all’interno di un concetto di parità fondamentalmente rivendicativo.
E’ sicuramente giunto il tempo di superare questa rigidità e ricercare non solo l‘equità di trattamento ma l’equità di opportunità, valorizzando le differenze che contraddistinguono i due generi. Chi se ne deve occupare? Un po’ tutti, grandi e ragazze/i, genitori ed educatori, governanti e cittadini, atei e religiosi nell’uso del linguaggio, nel rispetto del prossimo, nella valorizzazione della reciproca solidarietà.
Questo approccio può permeare efficacemente anche il fronte del lavoro, nel quale la questione “donna” è ancora aperta, nonostante leggi e contratti non facciano più differenza di genere nella definizione dei diritti e dei doveri. Eppure, la quota del lavoro femminile in Italia è tra le più basse d’Europa; il livello salariale medio, ancora ineguale rispetto a quello dell’uomo; i tempi di vita e di lavoro non molto conciliati (le chiamano “equilibriste”); la stabilità occupazionale messa sotto schiaffo dal prevalere del precariato tra le file delle donne; l’evoluzione professionale messa sempre in competizione con la maternità e la cura dei figli. Il nuovo lavoro – quello delle tecnologie digitali, dell’economia circolare – dovrebbe essere visto con la sensibilità femminile per non diventare un arduo motivo di handicap. Già ora, il “gender digital divide” è consistente (secondo l’ITU, agenzia dell’ONU specializzata nelle ICT, almeno 250 milioni di donne hanno un accesso alle nuove tecnologie minore che gli uomini a livello mondiale).
Inoltre, il nuovo lavoro può evolversi in direzioni opposte: verso una parcellizzazione delle competenze espresse, specie se coniugata con la precarietà contrattuale (la flat tax per le partite Iva sarà una micidiale spinta in questa direzione), ma anche verso una visione comunitaria dell’agire lavorativo, nel quale le esigenze e le potenzialità femminili si possono meglio esplicitare e tutelare. Dipenderà da come verrà organizzato il lavoro futuro, da quali priorità prevarranno, da chi riuscirà a dare il senso di marcia. Per questo, il ruolo del sindacato si profila più che centrale.
Ma dipende anche dall’allargamento delle opportunità di lavoro. La torta si allarga se vengono fatti investimenti altamente produttivi, ma questi sono per lo più labour saving. E le donne, in genere, non sono agevolate da questa prospettiva. Quindi per esse, può agire con più efficacia una ripartizione del tempo di lavoro, non solo nella fattispecie del lavoro part-time, ma proprio riducendo l’orario di lavoro annuo. Tra Italia e Germania ci sono circa 300 ore annue di differenza a scapito nostro. Se ci attestassimo a metà strada, si metterebbero a disposizione circa 100.000 posti di lavoro soltanto nei settori industriali. Un buon motivo per darsi da fare, assieme agli uomini.
Infine, la “questio dolens” della partecipazione alla vita sociale e politica. Le quote “rosa” è bene che siano confermate e possibilmente rafforzate. Purtroppo, la pratica applicazione o disapplicazione non sanzionata le hanno demitizzate. Di conseguenza, la regressione è sempre dietro l’angolo, specie in tempi di minore tensione, come sono quelli attuali. Ma ciò che produce buoni risultati è l’impegno, la mobilitazione, prendere l’iniziativa. Se questo non c’è, non è necessario scomodare l’aggressività degli uomini per condannare l’esclusione delle donne dal protagonismo collettivo. I vuoti si riempiono sempre. Anche il più gentile degli uomini, se ama far politica, si infila negli spazi esistenti. Ovviamente, bisogna evitare che quest’occupazione sia presidiata con tenacia dagli uomini. Qui entrano in gioco le idee, i contenuti dell’azione sociale e politica. Recenti avvenimenti in molte grandi e piccole città, la stessa manifestazione di CGIL, CISL e UIL con tantissime donne di tutte le età hanno evidenziato la forza di idee radicali ma praticabili e ragionevoli che le donne hanno saputo proporre meglio degli uomini.
Questa è la strada migliore per rivitalizzare la politica, per dare volti e voci nuove all’azione sociale, per scongiurare l’avvitamento verso il basso (e verso la bassezza) della democrazia. Ma anche il modo per alimentare la fiducia delle giovani millenians, più istruite, più europee, più consapevoli della globalizzazione nei suoi aspetti positivi e negativi. Piuttosto che perderle, assieme ai loro coetanei, in viaggi all’estero per cercare lavoro senza ritorno, varrebbe la pena di creare occasioni e opportunità di coinvolgimento per renderle protagoniste di una nuova stagione di uguaglianza sostanziale.