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Le nuove generazioni e gli errori fatali della politica

Se c’è un bene che manca più all’Italia di altri Paesi sono i giovani. Se c’è un bene che l’Italia valorizza meno rispetto alle altre economie avanzate sono le nuove generazioni.

Eppure un Paese che voglia cogliere positivamente la sfida della longevità e produrre benessere ha bisogno di una qualificata presenza delle nuove generazioni nei propri processi di cambiamento e sviluppo. A livello collettivo, un’adeguata consistenza della popolazione giovane-adulta (con buoni tassi di occupazione e livelli di produttività), consente al Paese di crescere, di ridurre il rapporto tra debito pubblico e Pil, oltre che di mantenere la sostenibilità del sistema di welfare a dispetto dell’invecchiamento. A livello individuale, buona formazione e inserimento nei tempi e modi adeguati nel mondo del lavoro consentono un futuro previdenziale, di salute e benessere personale più solido.

È però anche vero che il rischio di perdersi, in mancanza di sistemi esperti di orientamento e accompagnamento, è molto più elevato oggi che in passato. Sotto la spinta delle trasformazioni demografiche e tecnologiche, ogni generazione si trova a costruire in modo nuovo il proprio percorso rispetto a quelle precedenti, sia perché le età della vita non sono più le stesse, sia perché il mondo cambia e offre sfide inedite. Questo fa sì che un giovane di oggi abbia molti meno punti fissi di riferimento per immaginare come sarà il proprio futuro e quindi bisogno di maggior supporto attivo con strumenti efficaci per costruirlo in modo autonomo e nuovo, con progetti solidi ma obiettivi aperti e continuamente aggiornabili.

In questo scenario costantemente in evoluzione, la maggior fragilità dei percorsi dei giovani italiani può essere sintetizzata da tre indicatori. Il primo è quello degli Early leavers: l’Italia presenta una delle più alte percentuali in Europa di chi, tra i 18 e i 24 anni, non ha completato la scuola secondaria superiore. Tale valore risulta pari al 14,5% nel 2018 contro una media europea pari al 10,6 per cento. L’incidenza è più accentuata nel Mezzogiorno, dove arriva a coinvolgere oltre il 20% dei maschi, ma lo stesso Nord Italia si trova complessivamente sopra la media europea. Ancor più oggi che in passato, questa fragilità di partenza tende a produrre uno svantaggio persistente. Chi abbandona precocemente la scuola tende ad avere basse competenze e a svilupparle di meno nel corso di vita, ma è anche vero che la carenza nell’immettere i giovani in un percorso di rafforzamento di competenze porta ad aumentare il rischio di drop out.

Il secondo indicatore è quello dei Neet, ovvero i giovani non inseriti nel mondo del lavoro e nemmeno in attività scolastica o formativa. Deteniamo il record europeo di persone tra i 20 e i 34 anni in tale condizione (28,9% nel 2018, contro una media Ue pari al 16,5%). Vari studi mostrano come la carenza di skill avanzate e trasversali esponga a un maggior rischio di diventare Neet, ma anche che più si rimane in tale condizione e più le competenze acquisite si deteriorano. Inoltre, se anche su questo indicatore i valori più elevati vengano raggiunti nelle regioni del Sud, è vero che l’incidenza risulta maggiore rispetto alla media europea su tutto il territorio italiano. Oltre a chi ha povera formazione, alta risulta l’incidenza in Italia di Neet, rispetto al resto d’Europa, anche tra i giovani con diploma, ma carenti di competenze richieste nel mondo del lavoro, o di giovani con alte potenzialità e competenze che non riescono però a trovare la collocazione ottimale. 

Soprattutto quest’ultima categoria è quella che in modo crescente lascia l’Italia per cercare migliori opportunità di lavoro all’estero. Il terzo indicatore è appunto il saldo negativo tra uscita e attrazione di giovani high skilled nei confronti delle altre economie avanzate. Secondo l’ultimo Rapporto annuale Istat, negli ultimi dieci anni la perdita netta è stata di circa 420mila residenti italiani. Quasi la metà giovani dai 20 ai 34 anni e tra essi due su tre in possesso di un livello di istruzione medio-alto. Dal 2008 i saldi con l’estero di giovani cittadini italiani aventi livello di studio medio-alto risultano negativi in tutte le regioni italiane.

Questi tre indicatori evidenziano come non solo ci troviamo con meno giovani rispetto al resto d’Europa, ma li dotiamo di meno degli strumenti necessari per renderli ben preparati, attivi e vincenti in una società sempre più complessa e in un mondo del lavoro in continuo mutamento.

L’errore fatale che può ora fare la politica italiana è quello di pensare che la riduzione demografica delle nuove generazioni nei prossimi anni possa, da un lato, essere meccanicamente compensata dall’aumento del tasso di automazione nel sistema produttivo, e d’altro lato, magicamente far diminuire il tasso di disoccupazione e di inattività giovanile. Se si lasciano sostanzialmente le cose inalterate, l’Italia rischia, invece, di scivolare irrimediabilmente in un circolo vizioso di basso sviluppo, bassa disponibilità di giovani qualificati, bassa innovazione, bassa espansione di nuove opportunità di lavoro e bassa crescita competitiva delle aziende. I dati Excelsior sul disallineamento tra domanda e offerta forniscono crescenti evidenze preoccupanti in questa direzione. L’ultimo Outlook dell’Ocse sulle competenze intitolato Thriving in a digital world, mostra in modo chiaro come non ci siano dubbi che la possibilità delle società moderne avanzate di cogliere con successo le opportunità della trasformazione digitale e di affrontare positivamente le sfide dell’automazione – anziché subirne le conseguenze – dipenda fortemente dalle skill della popolazione, a partire dalle nuove generazioni.

Abbiamo, soprattutto, bisogno di formare giovani che non entrino in età adulta con il timore di essere sostituiti da un robot, ma con l’ambizione di rendere il proprio fattore umano ingrediente principale di produzione di valore nei processi di sviluppo più avanzato dell’Italia. Viceversa, non sarà mai abbastanza la riduzione dei giovani in un Paese che non sa come prepararli e quale ruolo assegnare a essi per costruire un futuro solido comune.

 

*da 24ORE, 26/07/2019

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