L’introduzione di un nuovo canale di uscita pensionistico con la cosiddetta “pensione quota 100” ha suscitato un vasto dibattito sulla sua opportunità, sui suoi costi, sui suoi effetti sulla sostenibilità del sistema, sulle sue conseguenze sul mercato del lavoro. Poco o nulla si è discusso su alcune pur evidenti disparità contenute nel decreto in merito agli adeguamenti alla speranza di vita di cui all’articolo 12 del decreto-legge n. 78/2010. Mentre la revisione biennale è bloccata fino al 2026 per il canale di uscita anticipato in base al requisito contributivo, la revisione continua a operare tranquillamente per i limiti di età per la pensione di vecchiaia e per il canale di uscita anticipato riservato a chi è interamente contributivo (art 24 comma 11 del dl 201/2011).
In modo un po’ tranchant possiamo dire che ai lavoratori “forti” è stata data una possibilità ulteriore di uscita e che per loro si sono bloccati per alcuni anni gli effetti negativi dell’aumento della speranza di vita mentre per i lavoratori “deboli” e i giovani questi effetti negativi sono rimasti inalterati.
Questa diversità di trattamento non è sorprendente perché ha caratterizzato in modo più o meno accentuato tutti gli interventi fatti sul nostro sistema pensionistico dal 1992, riforma Amato, a oggi. Interventi decisi con poche resistenze sull’età di vecchiaia, interventi più graduati nel tempo, salvo la Fornero, sulle pensioni di anzianità; nuovo sistema di calcolo delle pensioni applicato pro rata solo ai lavoratori più giovani e integralmente solo a quelli futuri.
In sintesi possiamo dire che le necessità di riforma hanno sempre dovuto fare i conti con i problemi di “consenso” e, a volte, con le esigenze politico/elettorali. La conseguenza è stata che l’Italia è il paese dell’Unione che ha la differenza più elevata tra età legale ed età media effettiva di pensionamento (circa quattro anni) e che a fronte di un’età legale di pensionamento più elevata di tutti gli altri paesi, ha invece un’età media effettiva di pensionamento inferiore a molti paesi dell’Unione.
Naturalmente non vanno dimenticati i problemi di carriere lunghe e/o di lavori usuranti che giustificano uscite anticipate, quello che voglio sottolineare è che altrettanta attenzione non è stata riservata ai lavoratori più deboli privi, per varie ragioni, di un’anzianità contributiva utile per accedere alla pensione di anzianità o anticipata.
Non sono stati pochi fino ad oggi come testimonia il numero elevato di pensioni molto basse e integrate al minimo erogate dall’Inps e non lo saranno in futuro data la precarietà diffusa nel mercato del lavoro. Per questi lavoratori l’età della pensione di vecchiaia s’innalza inesorabilmente e nel sistema contributivo la situazione peggiora. Mentre, infatti, in quello retributivo e misto al requisito di età si aggiunge quello di una contribuzione minima di venti anni, nel sistema contributivo, oltre a questi due requisiti, è necessario per accedere alla pensione anche un requisito d’importo pensionistico non inferiore a 1,5 volte l’assegno sociale. In assenza l’accesso alla pensione sarà rinviato di ulteriori quattro anni.
Non si tratta di un numero marginale di persone. Non considerando le pensioni erogate dalla gestione separata che possono essere oggi in larga misura seconde pensioni, in quelle di vecchiaia liquidate dall’Inps gestioni private nel 2017, è inferiore a 1,5 volte l’assegno sociale il 23% del totale. Questi lavoratori, se già fosse applicato l’ulteriore requisito previsto nel sistema contributivo, avrebbero dovuto rinviare di quattro anni l’accesso alla pensione.
Difficile immaginare con questo mercato del lavoro che questa percentuale possa in futuro diminuire. Una riflessione su questo punto credo dovrebbe essere fatta.
Nel sistema retributivo e misto è previsto un correttivo all’esistenza di basse pensioni frutto di carriere contributive limitate e/o di basse retribuzioni, l’integrazione al minimo. Nel sistema contributivo questo correttivo solidaristico (è a carico delle gestioni non della Gias) è stato eliminato. Le pensioni integrate al minimo sono oggi in costante diminuzione perché il valore medio delle pensioni erogate con il sistema retributivo con le pensioni calcolate sugli ultimi anni di retribuzione è progressivamente aumentato, ma con il passaggio progressivo al misto e al contributivo la situazione muterà. Tutti i sistemi pensionistici con il calcolo esteso a tutta vita contributiva erogano pensioni in funzione della durata e della regolarità dei versamenti contributivi. Che cosa fare in un mercato del lavoro in cui questa regolarità è quanto meno limitata?
A mio avviso è necessario introdurre correttivi che integrino la pensione in questi casi. Le ipotesi che si possono fare in proposito sono molte. Alcuni anni fa fu ipotizzata l’introduzione di una pensione di base con parallela unificazione dei contributi pensionistici a livelli inferiori all’aliquota del 33% (oggi produrrebbe alti costi immediati). Cazzola e Treu l’hanno ripresa ma solo per i lavoratori di nuova assunzione (ma la loro proposta produrrebbe una spaccatura nel mondo del lavoro con forte incentivo all’espulsione dei lavoratori più anziani). Contributi figurativi per periodi di non lavoro (costi immediati per la Gias). Varie forme di integrazione al minimo correlate agli anni di contribuzione (nessun costo immediato ma modifiche della spesa futura).
E’ un problema non immediato, che può quindi essere affrontato con i tempi necessari assieme al requisito di 1,5 l’assegno sociale per accedere alla pensione di vecchiaia, ma che andrebbe posto all’ordine del giorno.
La Ragioneria Generale dello stato pubblica annualmente un Rapporto sulle tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e del sistema socio-sanitario, rapporto sempre più voluminoso e ricco di informazioni. Nel rapporto sono stimati i tassi di sostituzione lordi e netti nei prossimi cinquanta anni. I dati indicano che per coloro che sono interamente nel contributivo i tassi di sostituzione saranno elevati e crescenti nel tempo per effetto sia dell’aumento del montante contributivo per i maggiori anni di contribuzione sia per l’utilizzo di coefficienti di trasformazione più alti, elementi ambedue dipendenti dal progressivo aumento dell’età al pensionamento. Questi due fattori compensano e superano l’effetto negativo prodotto dalla revisione periodica dei coefficienti di trasformazione. A questo risultato il Rapporto aggiunge il tasso di sostituzione derivante dalla previdenza complementare. Sommando le due percentuali si ottiene un tasso di sostituzione lordo e netto elevato e crescente nel tempo con valori non molto distanti da quelli prodotti dal sistema retributivo.
Del resto un giovane lavoratore iscritto da pochi anni al FPLD che accede al calcolo reso disponibile dall’Inps con il programma “La mia pensione” ottiene, non modificando le ipotesi alla base del programma, tassi di sostituzione elevati e, se poco più che ventenne, anche superiori a quelli ipotizzati nel Rapporto della Ragioneria. A cinque/dieci anni dal pensionamento si può fare una previsione credibile ma 30/35 anni prima che valore ha una previsione del genere?
Il problema sta nelle ipotesi alla base delle previsioni. Quelle macroeconomiche, come l’andamento del Pil, sono le più difficili da stimare, ma un diverso andamento del Pil nel tempo non ha solo riflessi sulla sostenibilità finanziaria del sistema, ma anche sull’importo della pensione dato che i contributi sono rivalutati annualmente in base alla variazione del Pil (media quinquennale). Importante poi è la dinamica della retribuzione in rapporto a quella del Pil e, soprattutto, la continuità o meno della carriera retributiva. L’Inps assume che dal momento in cui si chiede la previsione la carriera sia regolare e continua fino all’età di pensionamento. La Rgs ipotizza un’età di ingresso nel mondo del lavoro e poi, analogamente, una carriera regolare e continua.
I tassi di sostituzione indicati valgono, quindi, solo per questa tipologia di lavoratori e per le ipotesi assunte, ma non possono essere considerati rappresentativi per l’intero mondo del lavoro. La stessa sommatoria di pensione obbligatoria e complementare ipotizzata dalla RGS vale per i lavoratori “regolari” che possono versare contributi per la pensione complementare. Un lavoratore “non regolare” unisce ai minori contributi versati per la previdenza pubblica la “difficoltà” a versare contributi in quella privata. Difficoltà, tra l’altro, non contrastata dai benefici fiscali previsti per la previdenza complementare che favoriscono le retribuzioni più elevate anziché quelle più basse.
Il tasso di sostituzione è dato dal rapporto tra prima rata di pensione e l’ultima retribuzione e ci indica come varia il reddito del soggetto nel momento in cui passa dall’attività lavorativa allo stato di pensionato. Quello corretto da usare è quello al netto da fisco e contribuzione perché mentre sulla retribuzione lorda pesano i contributi a carico del lavoratore non ci sono contributi a carico del pensionato.
Ma il tasso di sostituzione non è sufficiente a indicarci se la pensione è “adeguata” o meno, ci indica solo il rapporto tra prima pensione e ultima retribuzione, non ci indica il valore della pensione in termini monetari. Un tasso di sostituzione del 70% ha un significato rispetto a una retribuzione di 3.000 euro, ha un altro significato rispetto a una retribuzione di 1.000 euro. Importante, dunque, è anche l’ammontare della pensione, ma nel sistema contributivo è necessario conoscere anche il rapporto tra la pensione ottenibile e l’assegno sociale.
Abbiamo visto come per la pensione di vecchiaia contributiva sia necessario il requisito di una pensione pari almeno a 1,5 volte l’assegno sociale. Per avere accesso alla pensione anticipata nel sistema contributivo, tre anni prima di quella di vecchiaia, è richiesto un requisito di pensione pari a 2,8 volte l’assegno sociale. Nel Rapporto Rgs è indicato come condizione necessaria per arrivare a questo livello di pensione per una retribuzione pari a quella media di contabilità nazionale, circa 29.000 euro, un’anzianità contributiva di almeno 38 anni. Durate contributive minori non consentono anche con quel livello retributivo di raggiungere il requisito richiesto, così come non lo consentono, pur con 38 anni di contribuzione, importi retributivi inferiori a 25.000 euro. In questi casi l’unica uscita è la vecchiaia.
Da sottolineare che per questi lavoratori non è possibile nemmeno la pensione anticipata con il requisito contributivo indipendente dall’età anagrafica poiché gli anni di contribuzione richiesti sono sempre largamente superiori a quelli ottenibili a meno di un ingresso nel mercato del lavoro in età molto giovane con carriera poi regolare (la Rgs per dare tassi di sostituzione con questo requisito considera un’ipotesi d’inizio di lavoro a 19 anni con carriera regolare e continua).
Bisognerebbe eliminare i requisiti d’importo previsti per la pensione di vecchiaia e per quella anticipata. La ratio della loro esistenza è chiara, prolungare il periodo di contribuzione ed elevare l’età di pensionamento per ottenere pensioni più elevate. Ma quello che per gli alti redditi e/o per le carriere contributive lunghe e regolari diventa una possibile scelta, per i lavoratori con retribuzioni più basse e/o con carriere retributive irregolari diventa un obbligo. Sono questi ultimi poi che corrono i maggiori rischi di restare senza lavoro e senza pensione negli anni finali.
Lasciamo anche a loro la scelta di quando andare in pensione.
Questo tema si sposa con quello della flessibilità in uscita prevista dalla legge 335 per il sistema contributivo e poi eliminata nel 2004 dalla riforma Maroni. Il tema della flessibilità in uscita nel sistema contributivo è strettamente legato al calcolo della pensione in base ai contributi versati e alla speranza di vita all’età del pensionamento. Questo sistema rende uguale nel periodo di vita attesa la spesa pensionistica complessiva: un rateo di pensione inferiore preso a un’età più bassa equivale a un rateo maggiore preso a un’età più elevata. La spesa complessiva è la stessa. Così naturalmente non è nel sistema retributivo e misto in cui tutta la pensione o parte di essa non è rapportata all’età di pensionamento.
Se, quindi, non è ipotizzabile, se non con costi a carico dello stato o con la possibilità di un’opzione per il contributivo, una flessibilità nel sistema retributivo o misto, non vi è ragione di non prevederla nuovamente nel sistema contributivo.
L’obiezione a questa ipotesi è che pur non mutando la spesa pensionistica nel medio periodo la flessibilità comporta un anticipo di spesa per i soggetti che vanno in pensione prima. Ma i primi pensionati interamente contributivi ci saranno solo dalla metà degli anni trenta. Sulla sostenibilità del sistema questa flessibilità non avrebbe conseguenze perché non reintrodurla lasciando, come detto, ai lavoratori la libertà di scelta?
Siamo l’unico paese dell’Unione che ai fini della pensione considera la speranza di vita sia per fissare l’età della pensione sia per determinare i coefficienti di trasformazione del montante in rendita. Gli altri paesi adottano l’uno o l’altro. Nel sistema contributivo basterebbe l’adeguamento dei coefficienti di trasformazione che rapportano il rateo di pensione alla speranza di vita. Il legame tra età di pensionamento e speranza di vita ha un senso solo nel sistema retributivo. Presi dalle difficoltà di bilancio pubblico e dall’esistenza di sistemi profondamente diversi abbiamo introdotto entrambi i legami. Anche su questo sarebbe utile una riflessione.
Vi è infine un problema sollevato spesso da Sandro Gronchi, quello dei coefficienti di trasformazione. Oggi sono rivisti ogni due anni e i coefficienti riguardano tutti. Questo produce due conseguenze negative. Nel biennio in cui sono in vigore, sono applicati anche a soggetti nati in anni diversi e che hanno avrebbero speranze di vita diverse. D’altra parte soggetti che sono nati nello stesso anno e che vanno in pensione in due bienni diversi, si vedono applicati coefficienti di trasformazione calcolati sulla base di diverse speranze di vita nonostante abbiano la stessa. Oltre a produrre queste disparità il modo di applicare i coefficienti di trasformazione può indurre nell’anno precedente la revisione una fuga anticipata per evitare appunto la revisione.
Gronchi propone di adottare il modello svedese: calcolare annualmente i coefficienti di trasformazione e assegnarli a tutta la coorte che in quell’anno matura l’età pensionabile minima. I coefficienti calcolati per tutte le età previste da un pensionamento flessibile (attualmente nel nostro sistema per tre anni) resterebbero poi tali per tutti gli anni senza essere modificati dalle revisioni successive.
Forse sarebbe necessario uscire dai problemi di chi dovrebbe andare in pensione nei prossimi cinque o sei anni o, quantomeno, non limitarsi a questi. L’attuale normativa del contributivo presenta diversi problemi come visto, sarebbe ora di dedicarsi anche a questo sistema.