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L’economia di guerra alla prova

La nuova situazione internazionale sta mettendo in moto cambiamenti drastici per l’Europa, considerati solo poche settimane fa impensabili. La Germania, guidata dal conservatore Mertz, si lascia alle spalle la regola del debito e afferma la necessità di spendere quanto sarà necessario — senza porre un tetto alla spesa — per garantire la Difesa. Si parla di un fondo speciale di 400 miliardi di euro da aggiungere ai 500 miliardi del fondo per le infrastrutture. Nel frattempo, l’Europa annuncia un pacchetto da 800 miliardi e sospende le regole fiscali per la spesa militare.

È cambiato tutto. Entriamo, in qualche modo, in un’economia di guerra che avrà conseguenze sia geo-politiche sia economiche. Mi concentro qui sulle seconde.

La domanda fondamentale è se questo sforzo di spesa pubblica andrà a scapito della spesa sociale e della spesa per la transizione verde. Quanto è grande il compromesso tra «burro e fucili»?

La ricerca economica e storica ci dice che tutto dipenderà da come si spenderanno questi soldi e da come la spesa verrà finanziata.

Sulla spesa, il messaggio che proviene sia dall’industria sia dall’analisi storica è che l’indipendenza militare europea non sarà possibile se non basata su una tecnologia competitiva. Forza militare e tecnologia sono sempre andate insieme. Il boom di spesa in ricerca e sviluppo negli Stati Uniti negli anni 50 e 60, per esempio, è legato interamente ai grandi progetti militari della Nasa.

In generale, la ricerca in innovazione americana è intimamente intrecciata all’industria bellica e così è per le altre potenze militari.

Il legame tra sovranità nella Difesa e leadership tecnologica è particolarmente forte oggi. La guerra moderna si fonda sulla tecnologia: sistemi satellitari sovrani e piattaforme alimentate dall’intelligenza artificiale, in grado di connettere in tempo reale i segnali informativi con l’operatività degli interventi militari, hanno bisogno di una tecnologia che evolve rapidamente e che quindi deve essere sostenuta da un eco-sistema capace di spingere la frontiera della conoscenza.

Il messaggio che ci arriva dall’industria è in linea con questa osservazione. L’Europa è in ritardo. Dal rapporto Draghi sappiamo che, nel 2023, solo il 4,5% della spesa militare dell’Unione Europea è stato in ricerca e sviluppo, contro il 16% degli Stati Uniti.

Costruire la sovranità militare richiederà un progetto pluriennale, ambizioso nei contenuti e ben articolato.

L’Europa deve puntare a una spesa ad alto contenuto tecnologico e questo indica anche la strada per le modalità di finanziamento. Storicamente, ambiziosi progetti di questo tipo, che richiedono molto capitale iniziale e rendimenti non immediati, sono stati finanziati principalmente a debito. Per questo tipo di progetti, il finanziamento a debito — che spalma il costo su molti anni — è preferibile a un massiccio aumento delle tasse a fronte.

Ma debito oggi significa tasse future. Il problema di quanto questo costi, e quanto sottragga quindi al cosiddetto «burro», rimane. La buona notizia è che la spesa militare ad alto contenuto di innovazione ha un alto moltiplicatore sul Pil. Le stime sul valore del moltiplicatore, basate sull’esperienza passata, sono incerte: sono comprese in un intervallo che va da 0,6 a 1,5. Un valore di 1,5 significa che, per una spesa di 100, il Pil aumenta di 150 e quindi non solo si autofinanzia, ma genera anche reddito supplementare. Il moltiplicatore è tanto più alto quanto più alto è il contenuto di innovazione della spesa e tanto più gli investimenti sono fatti nell’industria europea.

La capacità di spesa pubblica per l’industria bellica è essenziale poiché il committente è lo Stato, ma le sinergie con l’industria privata (anche civile) sono importanti. I miei colleghi Antolin-Diaz e Paolo Surico, elaborando dati degli Stati Uniti, calcolano che un aumento del 10% di spesa pubblica su ricerca e sviluppo genera il 5-6% di spesa privata addizionale in ricerca. Ithan Iltzeski, della London School of Economics, mostra come la spesa militare negli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale abbia generato grandi aumenti di produttività nell’industria privata. Questi effetti moltiplicativi diventerebbero molto più bassi se la spesa dovesse essere solo in personale o carri armati. Il punto non è la percentuale di Pil destinata alla Difesa, bensì come la si utilizza. Da qui dipende quanto i fucili vadano a scapito del burro.

In Europa, la capacità di aumentare il contenuto di innovazione della spesa militare dipende in gran parte dalla possibilità di usufruire delle economie di scala del mercato unico, di favorire integrazioni industriali transfrontaliere e di integrare le piattaforme per gli appalti. Su questo ultimo aspetto, si calcola che la frammentazione penalizzi enormemente l’industria bellica europea rispetto a quella degli Stati Uniti, dove il sistema degli appalti è integrato.

Ci sono anche forti motivi per pensare che il finanziamento a debito comune sia preferibile al debito nazionale: non tanto per via dei costi più bassi, quanto perché il debito comune renderebbe più forti gli incentivi al coordinamento e alla spesa comune nei settori strategici.

A fronte di queste considerazioni è vero che il pacchetto messo a punto dalla Commissione è deludente. Non solo i 150 miliardi messi in campo non sono sufficienti, manca anche un indirizzo strategico su come spendere. Tuttavia, il primo passo è stato compiuto e questo è importante. Ricordiamo che le resistenze a fare di più a livello federale vengono dagli Stati membri, non da Bruxelles. Gli interessi dei Paesi sono differenti e questo crea resistenze. Vale per le spese militari come per le banche e il mercato dei capitali. Il progetto europeo va costruito politicamente e non esiste bacchetta magica. Se si pensa che l’autonomia strategica dell’Europa sulla Difesa sia necessaria, bloccare oggi il piano della Commissione significa rallentare e non aiutare il processo di europeizzazione del progetto.

Inoltre, se la spesa nella Difesa si focalizzasse sull’innovazione e sull’ambizione di medio periodo di una leadership tecnologica, questo costituirebbe un’opportunità per l’Europa in quanto le permetterebbe di colmare il gap di competitività individuate dal rapporto Draghi, ambizione largamente condivisa.

L’Italia, anche con finanziamenti europei limitati, e pur nella frammentazione esistente, beneficia dell’aumento della spesa militare per via della sua leadership nel settore della Difesa. La necessità di un approccio europeo alla Difesa è da tempo sostenuta da Roberto Cingolani. Altri pezzi dell’industria europea si muovono su idee simili. Il consenso e le idee per costruire un’iniziativa europea ambiziosa, che metta al centro gli investimenti in tecnologia e le sinergie con l’industria civile, si costruisce anche e forse soprattutto da qui e non solo a Bruxelles. Governo e opposizioni, se interessate a un progetto europeo più ambizioso, dovrebbero sostenere e orientare queste iniziative, inserendole in un quadro strategico di lungo periodo.

*da Corriere della sera 08/03/2025

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