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Voleva che i lavoratori fossero classe dirigente del paese

Nessuno se lo aspettava. Non c’erano segnali, né sospetti. Infatti, non aveva la scorta. Era crescente la sua notorietà, ma non al punto – come per molti sindacalisti, uomini d’azienda, politici, attaccati nei deliranti comunicati delle Brigate Rosse – di avere indizi di essere entrato nel mirino dei terroristi che in quegli anni imperversavano. Ezio Tarantelli, quel mattino del 27 marzo di 39 anni fa, terminò la sua lezione alla facoltà di Economia e Commercio della Sapienza di Roma e si diresse alla sua auto; venne freddato da una mitragliata del commando brigatista.

In quegli anni, la scia di sangue che colpì molti degli studiosi che collaboravano attivamente con il sindacato, era una costante della strategia terroristica. Per citare i più noti: Gino Giugni, che si salvò per l’intervento di Marini ed altri (lo studio del giurista era a due passi dalla Cisl) che gli fermarono l’emorragia in attesa dell’ambulanza e negli anni successivi, l’uccisione di Massimo D’Antona nel 1999 e di Marco Biagi nel 2002 (qui ricordato da Massimo Mascini). Quelli furono attentati propagandistici, anche se con effetti assolutamente opposti a quanto si prefiggevano: convincere i lavoratori che il futuro non era quello che indicavano gli uomini di scienza legati al sindacato, ma quello da loro fantasticato.

Ha scritto Carole Beebe Tarantelli, nota psicologa, che è andata in carcere per parlare a lungo con gli assassini del marito, che “politicamente erano non zero, ma sottozero…..dissociati, non apologetici per la violenza, anzi, soffrivano per quello che avevano fatto. Comunque io ho capito che non capivano un tubo della politica, cioè proprio non avevano senso politico” (Sotto un sole metallico, Donzelli Editore, Roma 2023). Infatti, se un po’ di simpatie tra i lavoratori l’avevano acquisito al loro sorgere, le Brigate Rosse dopo le loro sentenze omicide le persero tutte e rimasero tanto isolate da consentire allo Stato di porre una pietra tombale sulla loro organizzazione.

Tarantelli il senso politico ce l’aveva. Sull’onda della cultura liberal statunitense, dove aveva perfezionato il suo sapere accademico e di quella sociale oltre che economica di Federico Caffè era fermamente convinto che il sindacato (e non il partito, pur essendo un iscritto al PCI) avesse le due armi essenziali per dare un’impronta progressista alla politica economica del Governo del Paese. La forte capacità partecipativa dei lavoratori e la politica salariale, saldamente nelle loro mani, erano le variabili utili per affrontare la crisi contestualmente inflattiva e recessiva che affliggeva l’Italia degli anni 80. La prima, perché soltanto se il sociale si mobilitava per riforme strutturali, il Paese avrebbe contemperato crescita della produttività e potenziamento del welfare. La seconda, perché la  programmazione delle dinamiche salariali e non la loro tutela automatica  poteva sconfiggere l’inflazione a due cifre, alimentata largamente dalla domanda interna.

La CISL gli credette, tanto da fagli dirigere un Centro studi, l’ISEL, nel quale, con pochi, giovani ma validi studiosi (tra questi Maurizio Benetti, nostro collaboratore della newsletter) elaborò le sue proposte sull’indicizzazione dei punti di scala mobile e la creazione dello scudo europeo dei disoccupati). La CGIL e la UIL si fecero coinvolgere. Il fronte padronale, guidato da una Confindustria, nient’affatto corporativa come poi si qualificò, stette al gioco. La concertazione con il Governo, che già aveva preso forma in modo prudente nel 1981, si consolidò nel 1984 con il famoso accordo del 14 febbraio, festa di San Valentino.

 Il dibattito politico e sindacale fu fagocitato dallo scontro sulla soluzione di freno alla scala mobile innestata dal PCI contro il decreto del Governo Craxi e contro CISL, UIL e componente socialista della CGIL che avevano dato il via libera a quel decreto. Ma molte erano le misure di politica economica che vennero concordate e in seguito attuate. Riguardavano il governo del mercato del lavoro, il controllo di alcuni prezzi e tariffe pubblici, l’introduzione dell’equo canone, altre misure sul welfare (assegni familiari, assistenza sanitaria, ecc.). Per la prima volta, le parti sociali erano coprotagoniste con il Governo delle scelte di politica economica e sociale.

La novità fu tanto apprezzata che nel referendum per l’abrogazione del decreto lanciato l’anno successivo, dal PCI, vinse il NO soprattutto nelle aree industriali del Paese. In questa vicenda, Tarantelli fu il primo firmatario dell’appello che un migliaio di docenti universitari sottoscrisse per il NO. Tarantelli era convinto che la strada indicata dall’accordo di San Valentino era quella giusta, anche se non era pienamente soddisfatto della soluzione sulla scala mobile. La sua proposta prevedeva la programmazione degli scatti annuali, con conguaglio finale qualora l’inflazione risultasse più alta. Questa clausola, non era contenuta nell’accordo, ma nei fatti non sarebbe stata necessaria. L’inflazione scese dal 21% del 1983 al 9% dell’inizio del 1985. In seguito, specie dopo la sua morte, dagli ambienti del PCI, la sua precisazione venne strumentalizzata. Sono convinto che essa fu esplicitata da Tarantelli più per modestia, per allontanare da sé la paternità dell’accordo, che per prenderne le distanze. E la sua firma all’appello resta una certezza.

C’è da chiedersi se la sua visione dei lavoratori organizzati dal sindacato, ma come classe dirigente del Paese, fosse solo un pio desiderio o ha ancora senso nella fase attuale della vita del Paese. Inoltre c’è da chiedersi, se la fine della concertazione, così come era stata definita nel 1984, sia soltanto la conseguenza della tuttora non sanata divisione sindacale, o la vittima di un cambiamento culturale del Paese, con l’esaltazione dell’IO e non del NOI che si ebbe dalla metà degli anni 90, fino ai nostri giorni. Ma questo merita ben altro approfondimento e visioni del futuro oltre agli obiettivi immediati.  Proprio per questo, non è affatto intaccato il convincimento di Tarantelli che è iscritta nella stele che la FIM CISL gli dedicò nel punto dove perse la vita: “l’utopia dei deboli è la paura dei forti”.

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