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Lo scambio da perfezionare, in un paese alle corde

La proposta è chiara: più salario netto e flessibilità meno condizionata, nell’area del lavoro dipendente. Questa la ricetta che Renzi offre al Paese, come primo assaggio della sua “svolta buona”, in economia. E la offre, non a caso, “urbi et orbi”, senza concertazione con le parti sociali. Nella sua visione, il consenso, così, sarà maggiore che attraverso il rito del confronto e della discussione. E’ bastato l’ascolto preventivo e nient’altro, per arrivare alla decisione che ha spiazzato politici, parti sociali, opinionisti, intellettuali di ogni tendenza. Tutto lascia credere che da essa, il Presidente del Consiglio non si sposterà, se non per qualche aggiustamento che non stravolga la sostanza del messaggio che ha voluto mandare.

Non volendo fare i tifosi, quella proposta va giudicata, innanzitutto, in relazione alla congiuntura in cui l’Italia si sta inoltrando. L’export tira, sia pure con qualche zona d’ombra, per cui va bene che non ci sia stata condiscendenza verso la richiesta confindustriale di un generalizzato abbassamento dell’aliquota dell’Irap. Per l’area export, sarebbe stato un regalo, dal dubbio effetto espansivo. I settori ancora in crisi sono quelli esposti alla domanda interna e la concentrazione dell’intervento sulla riduzione della tassazione sui redditi da lavoro dipendente ha il sapore della spinta ai consumi e il valore del risarcimento (parzialissimo) ai quasi esclusivi contribuenti delle casse dello Stato.

A nessuno sfugge che una manovra come questa può smuovere le acque, ma non al punto di innescare una dinamica della crescita, significativamente positiva. I 1000 euro annui in più, spendibili da parte dei lavoratori dipendenti con un reddito fino a 25000 euro, faranno crescere i consumi dello 0,5%. A questi livelli, le conseguenze occupazionali sono vicine allo zero. Così, non potendo agire potentemente sulla domanda di lavoro, il Governo ha proseguito sulla strada tracciata da quelli precedenti: si interviene sull’offerta. In due modi: le parole d’ordine dell’ascesa di Renzi alla guida del Governo (contratto unico, salario minimo, tutele universali dalla e nella disoccupazione, ecc.) verranno definite con un disegno di legge ancora da confezionare, invece i temi di cui non si è mai discusso, revisione del contratto a termine e modifica dell’apprendistato, sono già legge attraverso un decreto soffertissimo, ma preciso.

La scelta è inequivocabile. Se già oggi 7 contratti sui 10 sono della tipologia “a termine”(si calcola che 2.200.000 persone stanno lavorando con questo tipo di contratto), il Governo non fa altro che puntare sul cavallo vincente, rendendolo più vincente. Certo, restano nella disponibilità delle aziende anche i contratti di somministrazione, quelli di apprendistato (anch’essi resi più appetitosi, anche se a rischio censura della UE), le partite iva e finanche i co.co.pro., ma è evidente che quello a termine si rafforza come il contratto principe, soprattutto per la prima occupazione. 

La sfida della flessibilità “buona” va affrontata, non respinta. Con tre accortezze: considerare queste modifiche come “emergenziali e temporanee” per contribuire alla ripresa produttiva. Fra 3 anni, si potranno tirare le somme e stabilire se hanno assolto al compito di accelerare i processi di assunzione soprattutto dei giovani, sulla base di un serio monitoraggio svolto dal Governo con le parti sociali. 

La seconda accortezza è quella di eliminare l’anomalia del  premio fiscale previsto per gli straordinari. Se resta in vigore, può cannibalizzare la propensione ad assumere finanche a tempo determinato. Già di per sé, quella misura, in tempi di vacche magre, rappresenta più un sostegno reddituale ai padri che, per loro fortuna un lavoro ce l’ hanno, che uno strumento di flessibilità “buona”,per creare spazi per i giovani. Ma ora, con un allentamento dei vincoli sui contratti di apprendistato e a termine, tutto deve concorrere a favorire l’occupazione aggiuntiva.

La terza accortezza riguarda la tutela di quei lavoratori che, dopo 3 anni e semmai dopo 8 contratti sottoscritti (ma perché proprio 8?), si ritrovano senza lavoro. Il licenziante non se la può cavare con l’aggravio, già previsto dalla Fornero, di un 1,4% in più di oneri contributivi, finalizzato al finanziamento dell’Aspi. Dopo un così lungo periodo di permanenza in una azienda, per il lavoratore si apre una fase di incertezza di cui non è responsabile. Va pertanto prevista, sia pure rinviandola alla contrattazione tra le parti, una sorta di indennizzo aggiuntivo a suo favore, da parte del datore di lavoro.

Su tutto ciò aleggia una questione squisitamente politica. Il Governo è nel diritto di agire come meglio crede, ma in materia di lavoro non può mettere le mani in pasta così pesantemente senza che quanti se ne occupano giornalmente non possano dire la propria nella fase di formazione delle decisioni. A maggior ragione se, nel merito, riguarda una modifica – sia pure potenziale – degli equilibri tra le parti  sociali. Né è augurabile che la pressione delle parti sociali si scarichi sul Parlamento, perché nel gioco del tutti contro tutti, a rimetterci è l’autonomia dei vari soggetti. 

Ovviamente, c’è anche l’altra faccia della medaglia. Le parti sociali non si sono presentate né propositive, né compatte. Precedute da una lunga serie di documenti comuni, alludenti ad una strategia ben solidificata, si sono scomposte di fronte alle proposte del Governo. E si sa, giocare di rimessa presenta rischi di insuccessi. Ben altra evoluzione della vicenda ci sarebbe stata se i chiarimenti fossero stati fatti a monte e soprattutto se avessero prodotto una visione e una proposta comprensibile ai più. La rivendicazione postuma di un tavolo di discussione è di per sé, indice di debolezza e non di forza. C’è, dunque, materiale per tutti per riflettere sulle prospettive delle relazioni tra soggetti decisivi per la coesione sociale nel nostro Paese. 

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