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Lo sgoverno dell’industria e’ al capolinea

Ci sono dei momenti in cui il re è nudo. In questi giorni, tanto Stellatis quanto l’ILVA hanno messo in mostra tutta la loro difficoltà ad essere ciò che sono stati nel panorama produttivo italiano. L’auto e la siderurgia, a buon diritto, hanno rappresentato, dal dopoguerra in poi, l’asse portante della struttura industriale italiana. Il primo è stato un settore quasi dominante, emblema della imprenditoria privata. La seconda, assieme all’Eni, il vanto dell’intervento dello Stato nella costruzione della seconda potenza industriale europea.

Dalla fine del secolo passato, questo duopolio è stato scombinato. Nel giro di un trentennio, nell’indifferenza generale, in nome di una globalizzazione non governata adeguatamente dal potere pubblico, è stato sempre più ridimensionato e messo dentro un gioco geopolitico globale, privatizzato e spersonalizzato nella governance. Così, oggi stiamo con il fiato sospeso. 

E per di più entro un contesto europeo che, a detta di Draghi (che ha l’incarico di redigere un rapporto entro giugno sulla competitività industriale europea), “ha fatto registrare un progressivo indebolimento, perdendo slancio e cedendo centralità nelle catene dell’offerta” (Corriere della sera, 13/01/2024). Con chiaro riferimento all’aggressività degli USA e della Cina nel sostegno alle loro industrie e alla debolezza europea, avendo deciso di non istituire il fondo sovrano per ingenti investimenti comuni europei, ma soltanto di dare mano libera ai Paesi membri di incentivare le loro specifiche industrie.

Intanto, Stellatis cincischia sulla definizione di un piano di investimenti che valorizzi l’assetto attuale della sua presenza in Italia, facendo capire che la considera sempre più ancillare rispetto alla Francia. Più drammatica la situazione dell’ILVA, passata di mano in mano, dai tempi di Riva ad oggi con Mittal, sempre a secco di investimenti pur promessi e sempre con meno produzione rispetto alla potenzialità di 10 milioni di tonnellate di acciaio.

Certo, l’attenzione sugli investimenti green e di Intelligenza Artificiale è diventata giustamente prevaricante. Sono le due direttrici del futuro sviluppo e attorno ad esse si stanno sviluppando organizzazioni aziendali e professionalità nuove. 

Ma sarebbe miope considerare dei dinosauri questi due settori. “L’integrazione dell’Intelligenza Artificiale generativa nel mondo Automotive è stato uno dei grandi trend visti al Ces (Consumer Elettronics Show 2024 a Las Vegas)” (F. Cociancich, l’intelligenza artificiale sale a bordo, 24 Ore, 13/01/2024). L’auto sta diventando un campo di innovazione fantastico, che trascinerà non solo la sua filiera tradizionale ma anche altri settori. Perdere peso quantitativo e qualitativo da parte dell’Italia sarebbe un non senso, specie se divenisse soltanto una concentrazione di produzione di piccole vetture.

Stesso discorso vale per la siderurgia. Il suo punto debole non è la qualità del prodotto, da tutti considerato ottimo; non è la mancanza di mercato, dato che siamo importatori netti di acciaio. L’handicap è nei mancati investimenti per non continuare a inquinare con i suoi attuali forni. A renderla meno competitiva ci ha pensato la magistratura, ridimensionando la sua capacità produttiva e decimando, spesso a torto, leadership manageriali, amministrative e politiche. La sfida green non si vince chiudendo le aziende e con esse, l’indotto. La lotta contro l’inquinamento micidiale a Taranto non si può risolvere desertificando un territorio. Ma trasformando ciò che non va. 

Economia circolare e diffusione dell’Intelligenza Artificiale hanno bisogno di una politica industriale 5.0, cioè una cultura e una progettualità che accompagni il superamento della industrializzazione novecentesca, non dell’industrializzazione in quanto tale. Lo stanno facendo la Germania e la Francia curando la fragilità della loro industria, rigenerandola a suon di miliardi di euro incentivanti. Lo sta facendo la Spagna, sornionamente attraendo investitori imprenditoriali e istituzionali in molti settori industriali e agricoli, oltre che nei servizi.

Una politica industriale 5.0 può esistere se c’è volontà politica, alimentata da una visione industriale innovativa e se ci sono parti sociali che non elaborano soltanto proposte difensive e conservatrici. Una concertazione concreta su tali basi, darebbe all’Italia una governabilità della transizione che in nessun modo può essere affidata allo storico, anche se nobile stellone. 

Finora questa scelta non è stata fatta in modo rigoroso ed efficace. Non sono mancate riunioni e incontri sia per l’auto che per la siderurgia, ma disorganiche, saltuarie, del tutto marginali. Niente di confrontabile con il baccano mediatico messo in piedi per il ponte sullo stretto di Messina. Non siamo fuori tempo massimo, anche perchè l’Europa può darci una mano. Se si vuole, è possibile chiudere il capitolo dello sgoverno.

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