Il fordismo ormai è in soffitta. Nel privato ma anche nel pubblico, l’aria che tira è quella di un progressivo smantellamento di ogni tipo di organizzazione del lavoro standardizzato, gerarchizzato, burocratizzato. Le resistenze non mancano e contrariamente a quanto si tende far credere non vengono prevalentemente dai lavoratori, né dalle loro rappresentanze sindacali sebbene in esse continuano ad annidarsi nostalgie di un passato che non può essere riproposto. A mettere veramente i bastoni tra i piedi del cambiamento ci sono quei dirigenti, capi e capetti che interpretano il loro ruolo soltanto in termini di comando, di imposizioni, di cieche ubbidienze. Sono disseminati soprattutto nelle medie e grandi imprese e negli uffici pubblici.
Sono quelli che, prima della lunga crisi, hanno assecondato la smania di profitto impaziente dei proprietari delle imprese, calcando la mano sulla riduzione del costo del lavoro, alimentando la cattiva flessibilità piuttosto che sull’innovazione tecnologica (trasformando i profitti in investimenti tecnologici ed organizzativi nelle aziende). E che durante la crisi non hanno progettato il futuro ma hanno sperato che prima o poi si sarebbe ritornati a comandare ed imporre come prima.
Così la produttività non ha trovato chi effettivamente la alimentasse. Siamo fanalino di coda in Europa. Si è cercato di drogarla con le incentivazioni monetarie che dal Governo Berlusconi in poi, fino a quello Renzi sono state erogate senza grandi successi. Sarebbe stato meglio convogliare risorse private e pubbliche verso il riadattamento di prodotti, impianti, organizzazioni e tempi di lavoro, professionalità da riqualificare e reinventare. Ma chi ha sostenuto questa tesi è rimasto inascoltato.
Il Jobs Act ha cercato di dare un colpo all’abuso di flessibilità cattiva e con gli sgravi per l’occupazione, a far ripartire le assunzioni senza che si fosse in presenza di una crescita reale della produttività. Al netto di sia pure significative esperienze di riorganizzazione dei prodotti e degli schemi organizzativi e di start up innovative nel settore privato e di alcune sperimentazioni in questo senso nel settore pubblico, il tema della produttività resta in piedi e in maniera ineludibile.
Ma, ancora una volta, lo si coniuga dal lato del lavoro. L’attualità è dominata dal dibattito sul “lavoro agile” che non è affatto sinonimo di lavoro meno faticoso o di lavoro meno impegnativo. L’agilità qualifica il tentativo di far coincidere gli interessi dell’azienda ad ottenere più produttività con quello del lavoratore a poter lavorare in condizioni migliori, nell’azienda o altrove. Obiettivo encomiabile, possibile ma alla condizione che lo smart working presupponga la smart factory. Se no, si rimane sostanzialmente legati alle regole del lavoro a domicilio o al telelavoro. Ma soprattutto si rimane sui piccoli numeri. Soltanto un’azienda e quindi un management determinati a cambiare le relazioni tra vertice e base, a scommettere sulla partecipazione, a valorizzare le capacità professionali e collaborative dei dipendenti, a dare senso alla conciliazione tra lavoro e vita, ad alimentare la fiducia e il consenso con la persuasione e la corresponsabilità, potranno sviluppare un efficace e diffuso progetto di lavoro agile.
Ma se così è, lo strumento per lanciarlo non può essere la legge e quello per praticarlo, il contratto individuale. Allo stato, le cose stanno così. Basta leggere il disegno di legge di Poletti per capire che si ricade nella tentazione di regolare per legge una modalità di lavoro che per sua natura non può non avere una varietà enorme di applicazioni e di individuare nel rapporto tra azienda o ente o ministero e singolo lavoratore la molla del suo successo. Quindi, sommessamente, consiglierei:
- -se proprio è necessario passare per una legge, che sia non aggiuntiva al lavoro a domicilio e al telelavoro ma sostitutiva, perché soltanto la semplificazione può facilitare la correttezza dei comportamenti;
- -la legge non sia invasiva ma segua la metodologia che consentì a suo tempo di introdurre in modo ordinato il lavoro interinale, imperniato su intese tra le parti sociali a livello nazionale ed in via sussidiaria con intervento del Governo;
- -la legge preveda un monitoraggio della sua diffusione tramite l’ANPAL e poteri di questa per correggere in corso d’opera eventuali storture e ciò al fine di evitare gli abusi che si stanno evidenziando nell’uso dei vauchers e degli incentivi alle assunzioni;
- -la legge non faccia una meccanica estensione delle detrazioni fiscali sui premi di produttività, ma le connetta a progetti di intervento sull’ innovazione tecnologica.