Il grande politologo Maurice Duverger (1917-2014) ha insegnato a tutti noi che la principale virtù del modello francese (quello della V Repubblica pensata e voluta da Charles De Gaulle) è consentire e anzi favorire, se non proprio determinare, un governo “al centro” e non “dal centro”.
Il governo “dal centro” è, per intenderci, quello dell’Italia della Prima Repubblica, imperniato su un grande partito nazional-popolare, di mediazione interclassista, collocato in posizione centrale, tra una destra e una sinistra, entrambe (sia pure diversamente) anti-sistema, in particolare sulla decisiva questione della collocazione internazionale e geopolitica del Paese. Dunque un partito “condannato” a governare, in un sistema bloccato, privo di ricambio: perché nel modello di governo “dal centro”, l’affermazione delle virtù della moderazione e della mediazione, della responsabilità e del realismo, essenziali per la pace civile, può determinarsi solo al prezzo dell’esclusione della competizione tra alternative politico-programmatiche e dell’alternanza alla guida del Paese.
Il governo “al centro”, che Duverger vede prodotto dal sistema francese, nella sua triplice dimensione istituzionale (semi-presidenzialismo), elettorale (doppio turno) e politica (l’egemonia dei gollisti sulla destra e dei socialisti sulla sinistra), presenta invece l’enorme vantaggio di conciliare affidabilità, moderazione ed equilibrio, con competizione e ricambio: la destra e la sinistra non sono tenute (e non si chiamano) fuori dal governo, stabilmente occupato da un centro indispensabile e inamovibile, ma competono per il governo contendendosi l’elettorato centrale del Paese. E così facendo, di fatto, convergono “al centro”, danno al sistema, al tempo stesso, affidabilità, stabilità e continuità di governo e possibilità di cambiamento democratico.
La crisi speculare dell’egemonia gollista sulla destra e di quella socialista sulla sinistra, esplosa con le elezioni presidenziali del 2017, ha cambiato radicalmente il volto del sistema politico francese, mettendo a dura prova il modello di governo “al centro”. L’affermarsi sulla destra del Fronte nazionale lepenista e sulla sinistra del massimalismo di Mélenchon, sulla base di processi socio-politici analoghi a quelli in atto in pressoché tutte le democrazie occidentali, è stato al tempo stesso causa e conseguenza dell’avvento, inedito per la Francia, di un “terzo polo”, risultato vincente sia nel ‘17 che nel ‘22, creato e guidato da Emmanuel Macron, che ha radunato attorno a sé gruppi dirigenti e fasce di elettorato sia di destra moderata che di sinistra riformista.
Dal 2017 la Francia è retta quindi da un sistema ibrido, che sul piano istituzionale ed elettorale continua ad incentivare la competizione bipolare “al centro”, mentre sul piano politico-partitico si è ristrutturato in chiave tripolare, alludendo a un modello di governo “dal centro”. Sia nel ‘17 che nel ‘22, Macron ha utilizzato il doppio turno per battere entrambi i suoi avversari: lasciando fuori dal ballottaggio il più debole (in entrambi i casi la sinistra di Mélenchon), per poi avvalersi anche di questa porzione di elettorato per battere la destra al secondo turno. Il problema è che ogni volta che questa tattica viene riproposta, produce risultati meno favorevoli a Macron e al suo “terzo polo”. Vincitore in entrambi i casi nella sfida per la presidenza della Repubblica (ma la seconda volta con un margine più ridotto su Marine Le Pen, 58 per cento invece del precedente 66), il “centro” di Macron nel ‘17 conquista anche la maggioranza assoluta dei seggi in Assemblea nazionale, mentre nel ‘22 deve accontentarsi di una maggioranza relativa.
Alle europee del giugno scorso, dove si è votato col proporzionale, la débâcle: il centro macroniano si ferma al 14 per cento, mentre con il 31 per cento la destra lepenista si afferma come il primo partito; al terzo posto i socialisti, poi la sinistra “indomita” di Mélenchon, i gollisti, i Verdi, i sovranisti. Macron capisce che deve fare una mossa a sorpresa, se non vuole ridursi ad un’anatra zoppa, in Francia e in Europa, fino alle presidenziali del 2027. E quindi rilancia il suo schema del “tripolarismo nel doppio turno”, sciogliendo l’Assemblea nazionale e indicendo le elezioni parlamentari, nelle quali mette in gioco, come stabilisce la Costituzione francese, non la presidenza della Repubblica, ma il governo, esponendosi al rischio della “coabitazione” con un primo ministro lepenista.
Lo schema di gioco di Macron ha successo ancora una volta, ma al prezzo di un ulteriore ridimensionamento della forza del giovane presidente. Al primo turno, la destra lepenista del Rassemblement National ottiene il 33 per cento dei voti, la sinistra unita nel Nuovo Fronte popolare il 28, il centro macroniano il 20. È di nuovo tripolarismo, ma il centro stavolta è terzo, di nome e di fatto. Macron ascolta in silenzio l’onda di disappunto che si leva dal suo stesso partito e di deplorazione, talvolta perfino irrisione, da parte di avversari e commentatori. Poi scatta, inesorabile, il meccanismo del doppio turno.
Dinanzi al pericolo dell’onda nera, di una schiacciante maggioranza lepenista in Assemblea nazionale e di un primo ministro di destra eletto a furor di popolo e quindi più pesante, almeno politicamente, del presidente sconfitto, si moltiplicano “le desistenze”, il ritiro di quasi tutti i terzi arrivati (che fossero di sinistra o di centro) in favore dei secondi piazzati. Il polo di sinistra e quello di centro simulano così l’esistenza di un polo unico di centrosinistra, per provare a vincere nei collegi. Gli elettori capiscono e apprezzano. Vanno a votare in massa (66 per cento, un record per le parlamentari francesi, di solito considerate un appuntamento minore) e capovolgono il risultato: col 37 per cento dei voti, la destra lepenista conquista solo 142 collegi (su 577), scivolando al terzo posto, dopo il fronte delle sinistre unite (178) e il centro macroniano (150) che sostenendosi a vicenda hanno fatto il miracolo.
Il terzo parlamento della stagione macroniana ha di nuovo messo la destra in minoranza. Ma dopo aver perso, nel 2022, la maggioranza assoluta, Macron ha perso anche quella relativa. E tuttavia, il presidente ha evitato il peggio. In Assemblea nazionale non c’è una maggioranza che possa imporgli un primo ministro. Nessuno dei tre poli ha la maggioranza assoluta e la sinistra è talmente divisa al suo interno, tra socialisti, verdi, comunisti e “indomiti”, da rendere poco significativa la sua stessa maggioranza relativa.
Nell’immediato quindi, Macron resta il “dominus” della politica francese, indebolito ma di fatto incontrastato. Può prendere tempo, per vedere se e come evolve la situazione a sinistra e nel suo stesso schieramento. Può nominare un primo ministro a lui gradito, o quanto meno non sgradito, facendo leva sulla Costituzione francese, che considera sufficiente, perché il governo nominato dal presidente si insedi e lavori, la “non-sfiducia” (e non la fiducia) dell’Assemblea nazionale. Ed è semplicemente impensabile che nell’Assemblea possa formarsi una maggioranza, sia pure solo per sfiduciare un primo ministro scelto da Macron, che sommi i deputati del Fronte popolare con quelli del Rassemblement lepenista.
Altro è il discorso di prospettiva. Macron è stato abile, dal 2017 ad oggi, ad usare il doppio turno per favorire il suo terzo polo in uno schema di governo “dal centro”. Ma tra il sistema istituzionale francese e la politica tripolare resta una tensione irrisolta che non può reggere a lungo. Probabilmente la contraddizione è ora arrivata alla soglia del punto di rottura. Nel 2027 Macron non potrà ricandidarsi. Si tratta di capire se tra meno di tre anni la politica francese resterà organizzata su tre poli o se invece tornerà bipolare. E se Marine Le Pen (o chi per lei) si troverà a competere di nuovo con un centro e una sinistra strategicamente e programmaticamente divisi, salvo unirsi “contro” la destra al secondo turno, o se invece dovrà fare i conti con il candidato del centrosinistra, capace di saldare in una proposta coerente e potenzialmente maggioritaria, l’affidabilità europeista del centro con le istanze di rinnovamento sociale e civile della sinistra.
Le pesanti incognite che gravano sul futuro della democrazia americana, rese ancora più drammatiche dall’attentato a Donald Trump, e la persistente fragilità della costruzione europea, nonostante le buone notizie giunte da Londra, dovrebbero suggerire ai protagonisti della politica francese di “comportarsi da adulti”, come ha saggiamente raccomandato il leader socialista Raphaël Glucksmann.