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Madia applichi le parti non approvate dalla consulta

Fra i tanti “ismi” che affollano in questi giorni le pagine dei giornali non va dimenticato il pessimismo o meglio, come dicevano gli  antichi, la lettura in malam partem delle vicende quotidiane.

E’ quello che è avvenuto la scorsa settimana allorchè la Corte costituzionale ha pubblicato la sentenza n. 251 del 2016 (Pres. Grossi, red. Sciarra) con la quale ha sancito l’illegittimità costituzionale di alcune norme della cosiddetta riforma Madia contenuta nella legge delega n. 124 del 2015 recante “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”.

Detta così la notizia non sarebbe tale perché non ha niente di eccezionale e quindi è bene dire – giornalisticamente parlando -che la Corte Costituzionale ha bocciato o affossato la riforma Madia.

“E’ la stampa bellezza” direbbe Humpery Bogart!

In realtà cosa è successo?

E’ successo, a quanto è dato capire dalla motivazione della sentenza, che la Corte ha condiviso l’affermazione della ricorrente Regione Veneto di violazione da parte della legge delega del “principio di leale collaborazione (fra istituzioni dello Stato) di cui agli artt.5 e 120 della Costituzione, poiché, pur incidendo su ambiti di competenza regionale e sacrificando la possibilità per la Regione di adottare proprie scelte organizzative, prescriverebbe una forma inadeguata di raccordo con la regione, considerando che la stessa legge stabilisce che i relativi decreti legislativi di riordino siano adottati previa acquisizione del mero parere della Conferenza unificata” e non di un’”intesa”.

Per evitare di concludere che il tutto si risolve in una disputa linguistico-terminologica, sarebbe stato utile – se non necessario – che fosse chiarito in motivazione se la Regione ricorrente avesse eccepito e dimostrata l’inadeguatezza sostanziale e non solo formale della procedura voluta dalla legge delega, a ciò non bastando il semplice richiamo del principio semplicemente enunciato dall’art. 120 cost., tanto più che la definizione di “intesa” è contenuta nell’art. 3 del D. Lgs. 28.8.1997 n. 202 e non in una norma di rango costituzionale. Secondo la Consulta tale accertamento è rilevante e indispensabile, ma dovrà essere rinviato all’eventuale (?) impugnazione dei decreti attuativi e solo in quell’occasione “si dovrà accertare l’effettiva lesione delle competenze regionali, anche alla luce delle soluzioni correttive che il Governo riterrà di apprestare al fine di assicurare il rispetto del principio di leale collaborazione”

Ma in concreto la Corte Costituzionale non ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tutta la legge delega n.124 del 7.8.2015, ma solo e parzialmente degli artt. 11 (Dirigenza pubblica), 17 (Riordino della disciplina del lavoro alle dipendenze delle Amministrazioni pubbliche), 18 (Riordino della disciplina delle partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche) e 19 (Riordino della disciplina dei servizi pubblici locali di interesse economico generale), esclusivamente “nella parte in cui prevede che i decreti legislativi attuativi siano adottati previa acquisizione del parere reso in sede di Conferenza unificata, anziché previa intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni.”

Se questo è vero, che cosa vieta al Governo di applicare le norme dei numerosi decreti legislativi approvati una volta depurate delle disposizioni colpite dalla censura di incostituzionalità?

Vorrà dire che, ad esempio, nel Ruolo unico della Dirigenza pubblica affluiranno tutti i dirigenti delle Amministrazioni pubbliche, ma non quelli delle Regioni. Ma sarebbe assurdo e questo sì contrario ad ogni coerenza costituzionale bloccare una riforma di riorganizzazione di tutte le Amministrazioni pubbliche in attesa di sanare il vulnus procedurale a carico delle Regioni. Ed è quello che si accinge a fare il Ministro che ha dichiarato di aver già convocato i Presidenti delle Regioni.

La regola del Buon Governo non consiste solo nello stimolare il Legislatore, ma soprattutto nell’applicare tempestivamente le leggi.

Il resto è rumore, fastidioso forse, ma solo rumore al quale si unisce, purtroppo, anche l’informazione più accorta e professionale: c’è chi assimila l’imminente confronto referendario alla battaglia di Waterloo (e Matteo Renzi a Napoleone Bonaparte)!

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