Ho promesso, promesso con la mia solita svagatezza e devo mantenere per dare consistenza alla mia credibilità. I bambini non perdonano e hanno ragione.
Ho avvisato anche i genitori: la terza è la classe della ribellione, delle prove generali di rincorsa per l’adolescenza, di ostilità fine a sé stessa al solo scopo di toccare i confini delle proprie azioni e dei nervi degli adulti.
Ora mi ritrovo a viaggiare verso una giornata tempestosa con le vele ancora ripiegate: ho promesso che sarebbero stati loro, i marmocchietti scuoti-nervi a farmi l’intervista. Una piccola vendetta sulle interrogazioni? Forse un semplice scambio di ruoli nel quale sperimentare quanto l’insegnante sia disponibile a farsi melodiosamente sconquassare dalle loro domande tendenti all’infinito.
Michele ha la solita fermentazione esplosiva.
Michele: “Avevi detto che ti facevamo l’intervista e adesso cominciamo, posso cominciare io?”
Io, la parola chiave dell’egocentrismo infantile, comincia a risuonare come una campana senza campanaro. Io, io, io alternati a no prima io, ho detto che comincio io e così via.
Organizzo con la solita codarda meccanica della busta con i nomi da estrarre a sorte e inizio questa corrida chiedendomi ancora una volta se l’idea sarà produttiva.
Con l’aria più angelica del mondo Giada lancia il primo punto interrogativo volante.
Giada: “Ma (ho lavorato molto su questo inizio dubitativo della frase, con chiaro insuccesso) se la plastica ci sta facendo male, perché l’hanno inventata?”
Guardo la mia vita come fosse un ritrovamento archeologico e mi rendo conto di quanta plastica di vario genere appartiene alla mia storia, e provo a raccontare.
Maestra: “Gli esseri umani hanno sempre cercato soluzioni alle difficoltà della vita e ogni volta che qualcuno ha tentato ed è riuscito, ha dato all’umanità l’opportunità di scegliere che fare della propria soluzione. Il primo inventore della plastica è della metà dell’ottocento e provava soltanto a trovare un materiale resistente che potesse servire a rinforzare colli e polsini delle camicie”.
Ovviamente parte nei miei alunni l’onda anomala dell’incredulità.
Bambini: “Come fai a mettere la plastica nei colli, te strozzi e poi come te movi?”
Ancora più increduli vista la motilità continua cui sono abituati. Ce la caviamo con qualche immagine sulla lim (lavagna interattiva multimediale, n.d.r)di un attempato signore con il collo ben disteso nella camicia inamidata fornita di colletto in cellulosa.
Maestra: “Quando io ero piccola (per loro avevo la clava) c’era una plastica molto robusta e colorata che sembrava essere la soluzione a tutto. Si chiamava Moplen e aveva una pubblicità divertente con uno slogan che usavamo spesso”.
Grazie alla lim posso far vedere ai bambini il Carosello con cui andavo a dormire canticchiando “e mo’ e mo’ moplen”, con buona pace dei pubblicitari che già allora sapevano adescare bene i bambini.
Mi è costato una decina di minuti di e mo’ moplen ripetuto a gran voce tra le risate di alunni ancora increduli nel vedere che la tv della preistoria nella quale abitavo era solo in bianco e nero. Riprendo faticosamente.
Maestra: “La ricerca quindi ha sempre caratterizzato gli umani e ha portato a trovare materiali utilissimi che diventarono anche di moda”.
Benedetta salta sulla sedia e grida contro le mode che non vanno mai mai bene, a meno che non siano quelle dei suoi video preferiti.
L’arguto Mattia chiede: “Come mai se la plastica era di moda e tutti la usavano contenti, nessuno si è accorto che faceva male?”
Mi fermo a cercare le parole.
Maestra: “La plastica ci sta facendo male?”
Bambini: “Eh no maestra, mica tu fai l’intervista a noi, adesso la risposta la devi dare tu!”
Mi salvo in corner.
Maestra: “Cerchiamo nel nostro ambiente quotidiano le plastiche presenti”.
Ovviamente ho dato il via a una canizza rumorosissima che si è sedata solo quando abbiamo cercato di registrare in un elenco (salvezza della scrittura sul quaderno) tutte le plastiche: penne, pennarelli, astucci, bottiglie, stoviglie della mensa, vasetti di yogurt della merenda scolastica ma anche tutti i contenitori delle merende, righelli, confezioni di caramelle (ehi, da quando si portano a scuola?), scarpe da ginnastica per la palestra ma anche quasi tutte le scarpe che indossiamo, il pile di Martina così bello e fosforescente ma anche i giubbotti che permettono a qualcuno una gita di verifica fuori porta (scolastica) all’appendiabiti, poi carrelli dove teniamo i colori, foderine dei cellulari (degli insegnanti: per fortuna alla scuola primaria siamo ancora in grado di evitare sollecitazioni ulteriori) e a volte persino le copertine dei libri o dei diari.
Simone, serissimo: “Mio nonno mi ha detto che ha la plastica pure dentro, perché ha i tubi che sono attaccati a un motorino per il cuore e sono proprio di plastica”.
Elia(con la voce altisonante della scoperta): “Ammazza maestra, la plastica sta dappertutto! Sì, è dappertutto”.
Mattia(non è uno che molla facilmente e torna alla domanda cruciale):“Perché nessuno si è accorto che faceva male?
Mi ergo a difensore della plastica (solo a scopo didattico, sia chiaro).
Maestra:“Nell’elenco delle cose individuate,possiamo dire che c’è qualcosa che ci fa male?Sta facendo male al nonno di Simone?”
Sanno che sto usando uno dei miei trucchetti e iniziano a fare facce sospettose, cambiando espressione e regalandomi novanta secondi di silenzio.
Martina(esplode per prima con voce perentoria):“Sì, sarà vero che fanno male ma mica adesso mentre li usiamo, lo sappiamo tutti che fanno male ai pesci che se le mangiano e dopo le mangiamo noi, le plastiche. Se la gente non è maleducata e non la butta al mare mica i pesci vengono a mangiarla addosso a noi!”
Maestra: “E’ vero, c’è una grande isola di plastica persino nel nostro piccolo mar Mediterraneo che a confronto degli Oceani sembra una pozzanghera, vi ricordate che ne abbiamo parlato?”
Colgo la palla al balzo e ritento il dribbling.
Maestra: “Davvero è la plastica colpevole di esistere, visto che ci piace tanto e l’abbiamo messa dappertutto, pure al motorino nel cuore del nonno di Simone?
Mestamente Filippo guarda il suo gemello e parlando al plurale si discolpa subito.
Filippo: “Noi mica la buttiamo al mare la plastica, la mettiamo al secchio giusto, anche qui a scuola e pure la carta sappiamo mettere al secchio giusto”.
Ottimo! Cerco di ristabilire il buonumore dopo questo nanosecondo di colpevolizzazione.
Maestra:“A quale delle cose che abbiamo elencato sapreste rinunciare?”
I tubi del motorino del nonno no, ovviamente.
Bambini: “Forse quella palletta che rimbalza, ma poi con che la possono fare?”
Bambini: “Io potrei cercare un diario con la copertina di cartone”.
Bambini: “A me piacerebbe un astuccio diverso, ma no maestra il tuo all’uncinetto chenun se po’ guarda’, diciamo che è meglio la scatola di latta dei colori di Chiara”.
Martina: “Io il pile fosforescente vorrei tenermelo maestra, tanto mica lo butto al mare, io me lo tengo nell’armadio e poi lo passo a mia sorella piccola che già me lo prende quando non guardo”.
Maestra: “No Martina, nessuno dice che devi buttare ilpile, nessuno vi chiede di tornare indietro nel tempo ma vi ricordate come abbiamo detto che si può partecipare al consumo delle cose usando le tre R?
Ridurre le cose che sono necessarie ed evitare di comprarne di inutili. Magari possiamo comprare le penne che servono e non quelle che lasciamo sul pavimento per comprarle nuove. Se non le dimentichiamo in giro, anche le scarpe possono durare tanto, persino un anno a chi non cresce di corsa!
Riusare tante tante volte le cose, come accadrà al pile di Martina, magari inventando modi diversi di utilizzare le cose (ovviamente Martina sta usando la manica per cappello).
Riciclare mettendo gli oggetti in un circuito chiuso dal quale non possano uscire, come le bottiglie che ben riciclate al 75% hanno anche un 25% usabile come combustibile o altro. Nel 75% c’è anche il prossimo pile di Martina, quando sua sorella finalmente si approprierà del suo”.
Guadagno una piccola ovazione dei consumatori in miniatura.
Bambini: “No maestra, ma davvero il pile è fatto con le bottiglie di plastica? Allora me ne compro tantissimi così sto riciclando bottiglie a missile!”
Ecco no, sì, vabbè: troppi obiettivi in un giorno solo di conversazione con bambini cui passare il testimone di un futuro a volte disegnato con colori scuri, tetro come una notte senza luna.
L’idea delle tre R scandisce la fine del tempo di attenzione di questi bambini tecnologici, così dopo un’oretta di conversazione e due appunti che stiano rigorosamente codificati nelle discipline scolastiche con codici come tecnologia, scienze, educazione civica si finisce in bellezza ruggendo come leoni dopo che il solito Riccardo incautamente chiamato Cuor di Leone scopre che possiamo ruggire al futuro e che “ere, ere, ere, ce sta pe’ daje a li pescetti un mare senza zozzerie”.
Un giorno da maestra, concetti complessi mescolati a speranze attuali con un bel finale così, fra tanti ruggiti.
* Pedagogista