dalla Newsletter n.97 del 30/10/2012
Sembra oramai indiscutibile il riconoscimento di una stretta relazione tra illegalità – nelle sue varie forme e dimensioni – e contesto socio- economico del Paese. Assai più complicato è quantificare e qualificare in maniera rigorosa la direzione, la rilevanza e i meccanismi di questa relazione. Sebbene in molti rapporti di enti e istituti di ricerca si leggano cifre e resoconti sui «danni» dell’illegalità diffusa, sul «fatturato» della criminalità organizzata o sui «costi collettivi» della corruzione contribuendo a tenere alta l’attenzione su questi fenomeni, non sempre si hanno a disposizione fonti o metodologie di stima chiari e attendibili (Asmundo e Lisciandra 2008).
Un limite in qualche modo intrinseco a un oggetto di studio che per sua stessa sostanza è occulto, intenzionalmente nascosto e dissimulato, costituendo un vincolo difficilmente superabile specie se si ha l’obiettivo di conoscere non solo gli effetti diretti dei comportamenti illegali (rapine, usura, estorsioni ecc.) ma anche i loro effetti indiretti sul funzionamento del tessuto economico (es. sottosviluppo, assenza di competitività, bassa produttività) e sociale (es. sfiducia nelle istituzioni, insicurezza, bassa qualità della vita), o sulla fruibilità dei beni collettivi (consumo del territorio, insalubrità dell’ambiente, malfunzionamento dei servizi pubblici, inefficienza della pubblica amministrazione ecc.) (La Spina 2008; Di Gennaro e La Spina 2010).
Consapevoli di questi limiti, e senza alcuna pretesa di esaustività, il contributo che segue propone una breve rassegna di analisi e stime relativamente recenti, che forniscono una scala dimensionale del peso che le illegalità comportano per l’assetto socio-economico del Paese, in termini sia di costi sostenuti che di limiti allo sviluppo. Non mancano contributi autorevoli sullo specifico rapporto tra produttività (al centro di questo numero) e comportamenti illegali[1], ma in questa sede ci è sembrato più attinente considerare in termini generali l’impatto delle diverse forme di illegalità per il Paese nel suo complesso, riflettendo sui loro costie prendendo in considerazione tre dimensioni del fenomeno: i costi della corruzione, che rappresenta una forma peculiare di comportamento illegale; i costi della criminalità organizzata di stampo mafioso; il peso che la criminalità organizzata può giocare come limite allo sviluppo[2].
Prima di passare in rassegna le cifre e i resoconti summenzionati, a ciascuno dei quali è dedicato un paragrafo a sé, è opportuno delimitare il campo nel quale ci muoviamo, distinguendo analiticamente le diverse forme di illegalità.
Quattro diverse forme di illegalità
Nel recente saggio di La Spina e Scaglione (2011), che riprendono una tipologia già utilizzata in loro precedenti studi, sono individuate quattro forme principali di illegalità: la criminalità comune; la corruzione; la legalità debole; la criminalità organizzata di stampo mafioso. Di seguito se ne valutano – in maniera estremamente semplificata – i tratti principali, specie dal punto di vista dei potenziali oneri che comportano per la collettività.
I costi direttamente attribuibili alla criminalità comune comprendono, prevalentemente, i reati atti a sottrarre beni o denaro di proprietà dei cittadini. A essi si affiancano i costi della repressione e del risarcimento delle vittime. Vanno poi aggiunti i costi immateriali, connessi alla sensazione di insicurezza collettiva che la diffusione del crimine comune può comportare, con la successiva inibizione di investimenti, consumi, fruizione di spazi pubblici ecc.
La corruzione rappresenta storicamente una vera e propria patologia politica per il caso italiano, nel senso di una forma diffusa di degenerazione dell’amministrazione pubblica, che si è negli anni consolidata in stretta relazione con un altro fenomeno, il clientelismo, configurando in alcune aree del Paese un sistematico scambio occulto tra cittadini e cosa pubblica (Della Porta 1992; Davigo e Mannozzi 2007; Vannucci 2012). I fenomeni di corruzione, pur manifestandosi in un’ampia varietà di formule e comportamenti, destano particolare preoccupazione quando – come spesso accade – tendono a coinvolgere gli «eletti», vale a dire in quei casi in cui si afferma una politica basata su incentivi estrinseci e strumentali rispetto a una basata su benefici intrinseci ed espressivi. In queste circostanze si parla di privatizzazione della politica e di una struttura di preferenze orientata alla mobilitazione individuale. Le cose si complicano ancor di più quando la corruttela coinvolge anche i «tecnici» (professionisti, amministratori pubblici, consulenti ecc.) amplificando – come vedremo di seguito – i costi per la collettività e il malfunzionamento dello Stato.
Malfunzionamento che rappresenta una delle principali cause della diffusione di legalità debole, vale a dire di condizioni di diffusa e normalizzata violazione delle norme giuridiche che dovrebbero rendere prevedibile e calcolabile il contesto entro il quale si esplica l’attività degli operatori economici e dei cittadini (La Spina e Scaglione 2011). I costi, specie indiretti, sono anche in tal caso immaginabili. Si pensi, sul fronte pubblico, alla degenerazione ravvisata in molte aree del Paese nella gestione dei rifiuti urbani e industriali, della rete idrica o dei servizi pubblici e, sul fronte privato, all’abusivismo edilizio, al lavoro irregolare e semi-irregolare, allo sfruttamento dell’immigrazione clandestina. Tutti fenomeni esito di una carenza diffusa di controlli e dell’incapacità del pubblico di profondere nel corpo sociale elementi di coscienza civica e tutela della legalità.
La criminalità organizzata di tipo mafioso trae ampio vantaggio e fonte di riproduzione proprio dalla sedimentazione delle precedenti forme di illegalità, specie nella misura in cui assumono aspetti di concentrazione territoriale. Ovviamente non trattasi di una causazione univoca; a sua volta
la presenza mafiosa può fungere da stimolo e da regolatore delle attività illegali in un territorio. Il tratto peculiare che la distingue dalle precedenti forme di illegalità risiede nell’organizzazione, o meglio in un network di organizzazioni il cui fine è, per coloro che vi appartengono, il conseguimento di guadagno, sicurezza e reputazione, attraverso un mix di attività lecite e illecite svolte anche attraverso la mobilitazione di capitale sociale interno (tra i singoli mafiosi) ed esterno (reti e risorse relazionali in ambiti e contesti istituzionali diversi). Ecco che le forme di corruttela diffusa e di collusione, che vedono nella pubblica amministrazione e nella politica importanti sostegni esterni, foraggiano quell’area grigia fonte di arricchimento e riproduzione, riscontrabile a intensità variabili in tutte le aree del Paese[3]. Anche per le cronache recenti e per l’ampliarsi delle attività di repressione, è questa forma di illegalità che sembra evocare le preoccupazioni più diffuse, anche – e soprattutto – per i costi che comporta per il tessuto economico e sociale. Sebbene infatti l’esercizio della violenza rappresenti la risorsa principale delle mafie, che trovano ancora nell’attività di estorsione-protezione fonte di profitto e di controllo del territorio, le organizzazioni operano parallelamente e in maniera crescente ingenti reinvestimenti a cavallo tra i mercati legali e illegali, ampliando così le potenzialità di porsi come meccanismo di regolazione economica e sociale. Nei territori più colpiti la concorrenza si svolge in forme scorrette e violente, che rende irrazionale l’avvio diun’attività imprenditoriale «normale», ascrivibile a una acquisività di mercato. È in questo quadro che si assiste a fenomeni diffusi di “aggiustamento patologico” (Asso e Trigilia 2011, p. XV) del mercato alla prassi mafiosa, con un’inversione della relazione: è l’impresa a rivolgersi alle organizzazioni mafiose per ottenere sostegni e opportunità di profitto. In questo quadro, provando a stabilire la radice dei principali costi della presenza mafiosa sull’economia si possono individuare almeno tre ambiti: a) i costi, diretti e indiretti, che derivano dalle attività che le organizzazioni criminali svolgono nei mercati illegali; b) i condizionamenti imputabili al controllo del territorio, che trova la sua massima espressione nel meccanismo dell’estorsione-protezione;c) le distorsioni al funzionamento del mercato indotte dalla partecipazione dei mafiosi in attività legali o formalmente legali.
L’«orgia» della corruzione
L’espressione, quanto mai esplicita, è utilizzata nel recente rapporto di Avviso Pubblico / Libera / Legambiente (Vannucci et al. 2012) per designare i tratti sistemici e dilaganti della corruzione in Italia. Sebbene resti la politica al centro delle principali evidenze empiriche, il mutamento nelle organizzazioni di partito, la riforma dello Stato in senso federale e il ricorso massiccio alle partnership pubblico-privato nella prassi amministrativa stanno trasformando i meccanismi di obbligazione reciproca e i codici di condotta informali delle reti di corruttela. In primo luogo, la destrutturazione delle macchine di partito e l’emergere di leadership personali e locali spinge, da un lato, i singoli esponenti a gestire affari (appalti, concessioni, consulenze ecc.) in maniera del tutto autonoma e, dall’altro, le imprese e i privati a cercare contatti personalicon la politica. Su 47 Paesi, inclusi tutti quelli più importanti dell’Unione Europea e dell’Ocse, l’Italia si colloca al penultimo posto, sopra la Russia, per l’elevata percentuale di imprese “politicamente connesse” con ministri o parlamentari. Misurando solo i collegamenti politici ufficiali, sanciti dalla proprietà di quote rilevanti o dalla presenza dei politici in organi societari, in Italia il 10,3% delle imprese è politicamente connessa, contro una media dell’1,98% (ibid., p. 13). Ai politici e alle imprese si affiancano burocrati, dirigenti e professionisti, portatori di competenze tecniche specialistiche, che operano in veste di corruttori (quando beneficiano di decisioni favorevoli: contratti, perizie, incarichi) o di corrotti (quando rilasciano certificazioni, omettono controlli). Anche il fenomeno dei professionisti con tessera (di partito) che affollano i centri di spesa pubblica è una caratteristica italiana, frutto di un processo di selezione di consulenti pronti a fare da intermediari, promotori, camera di compensazione dei flussi sotterranei di risorse (ibid. p. 16).
Flussi il cui ammontare non è certo facile da stimare, anche per le ragioni anticipate in apertura. Secondo la World Bank (2008), nel mondo sono pagati circa mille miliardi di dollari di tangenti all’anno, pari al 3% del Pil mondiale. La Corte dei Conti ha applicato questa percentuale all’Italia e, pur nei limiti di un tale espediente statistico, ha calcolato che nel 2009 l’onere sui bilanci pubblici era “nella misura prossima a 50-60 miliardi di euro l’anno, costituenti una vera e propria tassa immorale e occulta pagata con i soldi prelevati dalle tasche dei cittadini” (2009, p. 237). Un dato eclatante, ma che non si accompagna a una adeguata azione di contrasto: nel corso del 2008 la stessa Corte di Conti ha richiesto con citazioni in giudizio per danno erariale il recupero di appena 69 milioni di euro, pari ad appena l’uno per mille del costo presunto. Anche inchieste e condanne sono clamorosamente al di sotto delle stime monetarie, tanto da poter asserire che la corruzione in Italia è pressoché depenalizzata (Vannucci et al.2012, p. 28): le denunce alle forze di polizia mostrano un andamento sostanzialmente stabile fino al 2010, quando con sole 223 denunce si registra uno dei livelli più bassi di corruzione svelata dal 1992. Le oscillazioni più marcate caratterizzano invece l’ammontare di persone denunciate per reati di corruzione e concussione, che passano da un minimo di poco più di 900 nel 2005 e 2007 a un picco di oltre 1800 nel 2009, per poi tornare a circa 1200 nel 2010. Anche le condanne sono chiaramente inadeguate, e per di più decrescenti nel tempo: si passa da oltre 1.700 condanne per reati di corruzione nel 1996 ad appena 295 del 2008 (SAeT 2010).
Alcuni dati in qualche modo «certi» per comprendere i costi della corruzione per il Paese sono riferiti al sovraprezzo tra il valore di ciò che lo Stato acquista e il prezzo effettivamente pagato se maggiorato da corruzione e inefficienze varie. Si pensi alla linea ad Alta Velocità: si ‘viaggia’ in media sui 32 milioni di euro al km a prezzi del 2006 per le tratte Firenze-Roma, Roma-Napoli e Torino-Novara e 45 milioni al km per la Novara- Milano, Milano-Bologna, Bologna-Firenze contro i 10 milioni al km della Francia e i 9 milioni al km della Spagna[4]. Le inchieste condotte a Firenze, Perugia e Roma su 33 grandi opere appaltate – in realtà affidate senza gara – dalla Protezione civile nella gestione delle emergenze nel triennio 2007-2010 hanno mostrato che il costo sostenuto dalle casse pubbliche è passato dai 574 milioni di euro dell’assegnazione iniziale a 834 milioni di euro. Un onere aggiuntivo per i cittadini quantificato con precisione in 259.895.849 euro, pari al 45% del valore iniziale di aggiudicazione.
Ma al di là delle cifre, che pur nell’indeterminatezza delle stime forniscono il senso della misura del fenomeno, va ricordato che la corruzione comporta costi immateriali connessi prima di tutto alle conseguenze della corruzione percepita. È stato stimato che il peggioramento di un punto dell’indice di «percezione della corruzione» (CPI) in un campione di Paesi determina una riduzione annua del Pil pari allo 0,39%, del reddito pro- capite pari allo 0,41%, della produttività pari al 4% (Lambsdorff 2003). Visto che l’Italia nel decennio 2001-2011 ha registrato un crollo nell’indice di percezione della corruzione da 5,5 a 3,9 (più è alto l’indice, meno corruzione c’è), si potrebbe stimare una perdita di ricchezza causata dalla corruzione pari a: a) circa 10 miliardi di euro annui in termini di prodotto interno lordo; b) circa 170 euro annui di reddito pro capite; c) oltre il 6% in termini di produttività (Vannucci et al., p. 19).
Per concludere, un cenno va fatto ai costi ambientali della corruzione, nel senso del suo impatto sul patrimonio naturale e sulla qualità della vita. Dal 1° gennaio 2010 al 30 settembre 2012 sono state arrestate 1.109 persone in 78 inchieste connesse a corruttele attorno ad attività dal forte impatto ambientale (ciclo dei rifiuti, ciclo del cemento, grandi appalti, gestione emergenze ecc.). L’Italia Nord Occidentale (Lombardia, Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta) conserva il primato dei procedimenti, con 442 ordinanze di custodia cautelare, pari al 39,9%. Seguono le quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa (Campania, Calabria, Puglia e Sicilia), con 409 ordinanze (36,9%). La classifica regionale per numero di arresti, invece, vede al primo posto la Calabria, con 224 ordinanze, mentre la classifica del numero di inchieste consegna il primato alla Lombardia (15).
I costi della criminalità organizzata di stampo mafioso
Come detto in apertura, la quantificazione dei costi del crimine organizzato non è semplice. Alcuni tentativi sono proposti da Confesercenti nel rapporto «Sos Impresa», che nella XIII edizione (2012) su Le mani della criminalità sulle imprese stima il fatturato della «Mafia SpA» in 140 miliardi di euro l’anno con un utile che supera i 100 miliardi al netto di investimenti e accantonamenti e con una liquidità di 65 miliardi di euro. Dati che non si discostano di molto – tenuto conto del tempo trascorso – da quelli prodotti in uno studio meno recente di Eurispes (2004) che stimava il «fatturato» delle quattro organizzazioni mafiose italiane (Cosa Nostra, Camorra, ‘Ndrangheta e Sacra Corona Unita) in 100 miliardi di euro, pari al 9,5% del Pil nazionale. Tuttavia, come è stato notato, “non è chiaro il percorso che conduce a tali importi” (La Spina e Scaglione 2011, p. 87). Per evitare dunque di addentrarci in questioni metodologiche già ampiamente discusse in letteratura, ci concentriamo di seguito sulle cifre fornite da Asmundo (2011) in una recente analisi sui costi economici diretti e indiretti della presenza mafiosa sul territorio[5].
A partire dalle più recenti statistiche sulla delittuosità dell’Istat (periodo 2004-2007) Asmundo analizza i costi aggiuntivi della presenza mafiosa – al netto dei fenomeni ascrivibili alla criminalità comune – distinguendoli in tre diverse categorie: i costi di anticipazione (sostenuti a fronte della possibilità che il delitto si verifichi, spesso invisibili poiché ampiamente “metabolizzati” dal tessuto sociale ed economico e dati per scontati: per assicurazione, sicurezza, monitoraggio e controllo); i costi di conseguenza (danni pecuniari diretti, spese sanitarie, costi intangibili, mancati guadagni); i costi di reazione (per le attività inquirenti e giudicanti, spese per l’esecuzione delle pene). Le cifre sono ingenti: la spesa pubblica e privata necessaria a coprire i costi di anticipazione, conseguenza e reazione supera l’1% del Pil nazionale (più di 40 miliardi di euro), toccando il 2,6% medio nel Mezzogiorno (più di 17 miliardi di euro).
Tab. 1) Costi del crimine organizzato (cluster PSy + ESy)* per regione e ripartizione, 2007, in €
* Sono comprese sia le cifre connesse sia ai reati ascrivibili a Power Syndicate (Associazione mafiosa, Beni confiscati, Scioglimenti consigli comunali, Omicidi di tipo mafioso ed Estorsioni) che ai reati ascrivibili a Enterprise Syndicate (Associazione a delinquere, Associazione per produzione o traffico di stupefacenti, Rapine in banca e negli uffici postali, Usura, Sfruttamento della prostituzione).
Qui il dettaglio regionale dimostra che proprio nelle regioni con ritardi di sviluppo si concentrano i maggiori costi: solo in Campania i costi del crimine organizzato superano i 5,7 miliardi di euro (2.7% del Pil). Proporzionata alla spesa nazionale, il Mezzogiorno assorbe quasi la metà delle spese di conseguenza (49.3% del totale, più di 6 miliardi di euro). Si tratta delle spese sanitarie, dei costi intangibili e dei mancati guadagni e investimenti, tutti elementi che possono presentare limiti per lo sviluppo locale. Il dato risulta ancor più evidente se si guarda al costo medio per abitante.
Tab. 2) Costi del crimine organizzato (cluster PSy + ESy)* per abitante, regione e ripartizione, 2007, in €
Nel Mezzogiorno si tocca quota 298€ pro-capite, pari al 139,8% della media nazionale, praticamente quasi il doppio di quanto speso per il Centronord (78,3%, 167 euro per abitante). Tuttavia nel Centro Nord risultano più elevate le spese per la sicurezza: 73,1% dell’ammontare nazionale delle spese di anticipazione pro-capite, a fronte del 26,6% del Mezzogiorno, per un valore di circa 43€ per abitante a fronte dei 29€ del Sud. Le evidenze aggregate relative alle spese di reazione risultano invece distribuite in maniera più omogenea sul territorio nazionale, con una quota del 35% circa che, assorbita dalle regioni del Mezzogiorno, rispecchia sostanzialmente la quota di popolazione residente.
In conclusione, i costi complessivi del crimine organizzato risultano ingenti e diversamente distribuiti sul territorio nazionale. Nelle regioni del Centro Nord si concentrano i costi degli investimenti e delle attività di prevenzione; nel Mezzogiorno i più pesanti oneri imposti dal crimine organizzato, in termini di costi di conseguenza e di reazione. Resta da stabilire se e quanto la presenza del crimine organizzato sia in grado di influenzare lo sviluppo, e in particolare quello del Mezzogiorno.
Criminalità organizzata e sviluppo locale
Il nesso tra la presenza mafiosa e lo sviluppo economico è al centro di un ampio dibattito che, a seconda delle risultanze ottenute, può individuare nel crimine organizzato tanto una (con)causa del sottosviluppo (in presenza di regolazione mafiosa si pongono limiti allo sviluppo), quanto una sua conseguenza (in condizioni di svantaggio si creano i presupposti per l’agire mafioso). Nelle analisi di matrice macroeconomica, questo interrogativo è stato affrontato osservando, ad esempio, l’impatto della criminalità sui redditi (Centorrino e Signorino 1997), sulla disoccupazione (Buonanno 2006), sulla fiducia interpersonale nelle relazioni di mercato (Zamagni 1993), sui prestiti alle imprese (Bonaccorsi di Patti 2009) o addirittura sugli investimenti dall’estero (Pazienza et al. 2005; Daniele e Marani 2008). Seguono le indagini basate sulla somministrazione di questionari a campioni di imprenditori, che pure forniscono interessanti indicazioni in merito alle forme possibili del fare impresa e alla percezione di insicurezza degli operatori del mercato. Un esempio in tal senso è la ricerca Censis e Fondazione BNC (2003) sulla percezione della diffusione di fenomeni quali l’estorsione e l’usura, replicata nel 2006 (Censis 2009) nelle regioni meridionali. I risultati vanno tuttavia presi con cautela: le risposte degli intervistati su temi delicati e paralleli a comportamenti non leciti risentono di inevitabili distorsioni. I dati contraddittori sembrano confermare tale cautela. Nello studio del 2006 emerge che il 33,1% degli operatori economici ritiene che l’imposizione del pizzo sia «molto diffusa», ma soltanto il 30,9% sostiene infatti che la presenza della criminalità organizzata influisca molto o abbastanza sul libero svolgimento delle attività imprenditoriali. Sulle percezioni della sicurezza nelle regioni in cui si svolge la propria attività la maggior parte degli imprenditori calabresi (il 49,4%) e siciliani (il 54,4%) dichiara addirittura di svolgere la propria attività in una zona abbastanza o molto sicura, mentre soltanto una percentuale residuale (l’8,5% in Calabria e il 7,8% in Sicilia) sostiene che i reati siano molto frequenti. Da tempo, comunque, gli studiosi hanno evidenziato come la presenza mafiosa accresca i costi di transazione e ostacoli la crescita della produttività, finendo per costituire uno svantaggio competitivo nazionale (Campiglio 1993; Sciarrone 2000). Interessante è la recente indagine svolta da Paolo Pinotti per conto della Commissione Parlamentare Antimafia (2011), nella quale si cerca di valutare l’impatto della presenza mafiosa sullo sviluppo economico di due regioni meridionali, la Puglia e la Basilicata, caratterizzate da una più recente diffusione di questo tipo di criminalità, stimandone una incidenza negativa che avrebbe provocato – a partire dalla metà degli anni Settanta fino ai giorni nostri – una mancata crescita del reddito pro-capite pari a oltre il 20%.
Accanto a queste analisi, un’altra modalità interessante per affrontare il nodo mafia/sviluppo può essere centrata sul territorio, inteso come l’insieme delle diverse dotazioni infrastrutturali, politiche e sociali che possono condizionare lo sviluppo locale. Questa riduzione di scala permette non solo di valutare la variabilità interna al tessuto economico del Mezzogiorno, ma anche di meglio analizzarne l’influenza mafiosa, che in alcune aree appare molto più intensa rispetto ad altre.
Alcuni spunti di particolare interesse in tal senso vengono dal lavoro di Busso e Storti (2011; 2012) che analizzano l’andamento di alcune variabili economiche (livello di sviluppo, dinamismo economico e tessuto produttivo) distinguendo tra le province meridionali caratterizzate da un’elevata presenza mafiosa (high power syndicate), le altre province del Mezzogiorno e il dato medio su scala nazionale[6]. Ebbene, l’insieme delle 13 province in questione (Caserta, Napoli, Crotone, Catanzaro, Vibo Valentia, Reggio Calabria, Messina, Agrigento, Catania, Salerno, Trapani, Palermo e Caltanissetta) si colloca al di sotto della media delle altre aree del Mezzogiorno e del Sud e isole nel complesso. Particolarmente interessante è il dato sull’occupazione: se per Pil e reddito le province del Mezzogiorno sono molto distanti dalla media nazionale, guardando al tasso di occupazione le zone «non mafiose» si collocano a metà tra il dato sintetico dell’Italia e quello delle aree high power syndicate. Riguardo al dinamismo economico, il trend è analogo al dato sullo sviluppo: su tutti gli indicatori le aree a elevata densità mafiosa si collocano sotto la media del Mezzogiorno e dei territori meno coinvolti dal fenomeno. Busso e Storti mostrano in particolare il dato sulla nati- mortalità delle imprese, particolarmente basso per le 13 province sopra elencate e invece più elevato della media nazionale per le altre province del Mezzogiorno. Infine, in riferimento alle esportazioni e all’apertura dei mercati, la distanza che separa le province a elevata densità mafiosa dalle altre del Sud è circa doppia di quella che le distanzia dal resto del paese. Le «altre zone del Mezzogiorno», in sostanza, risultano più vicine alla media nazionale che non ai valori delle aree mafiose.
Tab. 3) Medie dei valori provinciali, confronto tra province high power syndicate, Mezzogiorno e Italia, anno 2007
Fonte: Busso e Storti 2011, p. 87.
Si conferma dunque l’affermazione posta in apertura, riferita a una relazione tra illegalità – specie nella sua variante del crimine organizzato – e contesto socio-economico. Ovviamente ciò non esaurisce le problematiche connesse alla quantificazione e qualificazione di questa relazione, ma fornisce alcuni punti essenziali per la conoscenza del fenomeno e per l’indicazione di policies di contrasto. Specialmente la riduzione del focus sulla scala territoriale permette di valutare: in primo luogo che un tratto peculiare delle organizzazioni criminali di stampo mafioso è la loro capacità – politica – di esprimere un certo controllo del territorio attraverso l’uso della violenza e la regolazione alterata del mercato, ed è dunque attorno a esso che occorre costruire seri strumenti di contrasto; in secondo luogo, optando per un’analisi disaggregata a livello sub ripartizionale, si possono individuare quelle aree all’interno del Mezzogiorno in cui la relazione tra sviluppo e presenza mafiosa è più evidente, superando l’approccio emergenziale e totalizzante degli strumenti di sviluppo (flussi monetari, incentivi alle imprese) e mirando a politiche bottom up, di capacitazione delle opportunità localizzate.
Una questione che riguarda certamente il Mezzogiorno, ma che appare sempre più rilevante anche nelle regioni del Centro e Nord Italia, come emerge con tutta evidenza da recenti indagini giudiziarie. Il problema non è soltanto quello di una espansione dell’area dell’illegalità, bensì quello ben più preoccupante di una compenetrazione tra economia legale ed economia illegale e criminale, ovvero il fatto che i confini tra l’una e l’altra divengono sempre più opachi e porosi, rendendo di fatto difficile distinguere le due sfere. Si configura così un’area grigia, costituita da rapporti di contiguità e collusione, che costituisce una seria ipoteca per lo sviluppo non solo del Mezzogiorno ma del Paese nel suo complesso.
Vittorio Martone (*) Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Sociologia dell Universita’ di Napoli Federico II. Ricercatore ANL Rocco Sciarrone (**) Insegna Sociologia all’Univerisita’ di Torino ed è co-direttore di Meridiana
Bibliografia
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http://www.nuovi-lavori.it/Newsletter/section.asp?sid=110&iid=146&printme=1 Pagina 20 di 29
NEWSLETTER NUOVI LAVORI 07/06/13 14:53
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Pignatone G. e Prestipino G. (2012), Il contagio Come la ‘ndrangheta ha infettato l’Italia, a cura di G. Savatteri, Laterza, Roma. Sciarrone R. (2000), “I sentieri dello sviluppo all’incrocio delle reti mafiose”, in Stato e mercato, 59, 2.
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NEWSLETTER NUOVI LAVORI 07/06/13 14:53
Sciarrone R. (2009), Mafie vecchie mafie nuove. Radicamento ed espansione, Donzelli, Roma.
Sciarrone R. (2011) (a cura di), Alleanze nell’ombra. Mafie ed economie locali in Sicilia e nel Mezzogiorno, Donzelli, Roma. Servizio Anticorruzione e Trasparenza – SAeT (2010), Relazione al Parlamento, Roma.
Vannucci A. (2012), Atlante della corruzione, Edizioni Gruppo Abele, Torino.
Varese F. (2011), Mafie in movimento. Come il crimine organizzato conquista nuovi territori, Einaudi, Torino.
[1] Si tratta di contributi prevalentemente centrati sul Mezzogiorno e sulla criminalità organizzata di tipo mafioso, indagata nelle sue attività più direttamente gravanti sull’impresa. Tra gli esempi di questo filone, il recente lavoro di Centorrino e Ofria (2008) che analizzano l’impatto negativo della presenza mafiosa sul tasso di crescita della produttività del lavoro nelle regioni a tradizionale presenza mafiosa nel periodo 1983-2005. Si veda anche Felli e Tria (2000).
[2] Il complesso tema dei costi dell’illegalità è stato al centro della II Edizione dellaSummer School diretta da Nando Dalla Chiesa intitolata La tassa mafiosa. I costi economici e sociali della criminalità organizzata: analisi e strategie di intervento presso il Dipartimento di Studi Sociali e Politici della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano (settembre 2012).
[3] Sull’espansione del crimine organizzato in altre aree del Paese non mancano importanti riferimenti. Per la letteratura scientifica si rimanda, tra gli altri, a Sciarrone 2009, Ciconte 2010 e 2012, dalla Chiesa 2010 e 2012, Varese 2011. Altri interessanti contributi di carattere più divulgativo sono, ad esempio, in Chiavari 2011 e Pignatone e Prestipino 2012.
[4] La quantificazione è fornita dal presidente delle ferrovie Mauro Moretti in una audizione al Senato. Senato della Repubblica, resoconto stenografico seduta VIII Commissione lavori pubblici, 21 marzo 2007, p. 13 (cit. in Vannucci et al., p. 20).
[5] L’analisi rientra in un più vasto progetto di ricerca, promosso dalla Fondazione RES – Istituto di Ricerca su Economia e Società in Sicilia, i cui risultati sono editi in Sciarrone 2011. Oltre alla stima dei costi, l’analisi di Asmundo propone la misura dell’intensità del crimine organizzato nelle province italiane, delineandone i profili di Power Syndicate (PSy – incidenza della attività delittuose collegate al controllo del territorio) ed Enterprise Syndicate (ESy – incidenza di attività legate al profitto da traffici illeciti).
[6] Anche questa analisi rientra nel progetto di ricerca della Fondazione RES summenzionato, con ulteriori sviluppi interpretativi riferiti al rapporto tra sviluppo territoriale e presenza mafiosa successivamente discussi in convegni dedicati. Le province meridionali a elevata presenza mafiosa
sono pertanto le province con alti indici di Power Syndicate, e dunque quelle in cui è elevata l’incidenza di attività delittuose collegate al controllo del territorio (si veda tabella 1).