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Per il ”lavoro povero”, Shlein provi a riportare sul ring la maggioranza

Il primo round tra maggioranza e opposizione parlamentari sul salario minimo è praticamente concluso. Il centrodestra non è voluto neanche salire sul ring. Ha addotto molte ragioni, più tecniche e procedurali che politiche. L’opposizione ne aveva fatto un problema squisitamente politico, che non ha avuto risposta esplicita. 

La questione del “lavoro povero”, prima ancora che la fissazione di un salario minimo, è diventata finalmente un tema di ragionevole attualità, data la diffusione che si è determinata nel dopo Covid. La certificazione ISTAT di 3 milioni e passa di lavoratori sottopagati, sottoutilizzati e comunque malutilizzati, obiettivamente merita di essere affrontata dalle parti sociali e dalle istituzioni pubbliche.

Sotto questo profilo, l’iniziativa della Schlein, che con una certa testardaggine ha cercato di coinvolgere quasi tutti i partiti di opposizione (francamente incomprensibile il neutralismo di Italia viva), ha avuto il merito di interrompere una fase di confusione comportamentale e propositiva e prefigurare una opportunità di maggiori assonanze per il futuro.

Ma questo comporta, come ha scritto giustamente la professoressa Fornero che “l’opposizione deve andare oltre gli slogan, andare oltre i nove euro all’ora, che rappresentano un punto di partenza e presentare una proposta più articolata, studiandone in dettaglio modalità ed effetti” (La paura di aiutare i deboli per un calcolo elettorale, La stampa, 15/07/2023). 

Aggiungo di più che occorre anche porsi il problema di ricomporre l’unità delle grandi confederazioni. Senza di essa, l’iniziativa politica è zoppa. Non è la prima volta che viene presentato un progetto di legge dall’opposizione sul salario minimo, comprensivo anche delle sanzioni verso chi non lo applicava. Ci provarono nel 1954 i deputati comunisti e socialisti con primi firmatari nientemeno che Di Vittorio e Santi (proposta di legge n. 895, Fissazione di un minimo garantito di retribuzione per tutti i lavoratori). Non se ne fece niente. Rispetto ad allora, se non vi sono differenze valoriali   di fondo, ci sono situazioni di fatto differenti. Una su tutte. La diffusione della contrattazione collettiva, che ora è così estesa che si parla e si enfatizza l’esistenza dei contratti pirata. Per non ricordare la schiacciante prevalenza del lavoro agricolo, la scarsa qualificazione di tutte le professioni, la debolezza di CGIL, CISL e UIL in quel lontano momento. 

Non deve meravigliare la freddezza della CISL attuale sulla proposta dell’opposizione. Anche allora la CISL di Pastore si defilò. Aveva già in mente l’esigenza di ampliare il potere contrattuale non solo nazionale ma anche aziendale. E i fatti le diedero ragione. 

Quello da fare ora da parte di tutti è andare oltre le esigenze identitarie e costruire una piattaforma per il “lavoro povero”, che unifichi innanzitutto il fronte sindacale che a sua volta possa contare su un sostegno di tipo legislativo. L’ordine sparso non farà fare un passo in avanti alla questione. Vale per il sindacato: la CISL non ha nel suo dna la vocazione all’arroccamento e la Cgil e la UIL non hanno convenienza a mettere nelle mani della politica un tema così rilevante, qual è il “lavoro povero”. D’altro canto, tanto l’opposizione, quanto la maggioranza parlamentari non hanno autonomia e forza per sostituirsi alle divergenze delle rappresentanze sociali. 

Bisognerebbe provare a dare priorità a ciò che già ora unisce il sindacalismo confederale, la cui vitalità contrattuale è confermata dagli accordi che sta inanellando in molti settori, con un buon recupero dell’inflazione. Ma è impegno che riguarda i “garantiti”. Verso il “lavoro povero” bisognerebbe rovesciare le priorità, partire dagli aspetti strutturali per poi arrivare ai paletti salariali. Ai precari mancano tanti diritti, oltre a salari dignitosi; questioni che devono essere disciplinate per ricomporre un rapporto virtuoso con i “garantiti”.

C’è un sostanziale accordo tra CGIL, CISL e UIL sulla necessità di dare valore erga omnes ai contratti stipulati dai sindacati maggiormente rappresentativi. Si coglierebbero due piccioni con una fava: scomparirebbero i contratti pirata e si stabilirebbero diritti essenziali e soglie salariali articolate per categoria, attraverso i minimi contrattuali. Per poter realizzare questo schema, c’è bisogno che l’INPS certifichi la consistenza rappresentativa delle strutture sindacali sia dei lavoratori che dei datori di lavoro, categoria per categoria. Si chieda al Governo di dare il via libera a questa prassi, già delineata da accordi interconfederali. In pochi mesi avremmo un quadro stabile di indicazioni.

C’è anche un possibile avvicinamento tra le organizzazioni sindacali sulla necessità di ridurre il bouquet di contratti a tempo determinato. Comprese le false partite IVA. Per quelli che sopravvivono sarebbe il momento di determinare, per legge che un’ora deve costare di più di quella a tempo indeterminato e per contrattazione stabilire la sua misura quantitativa e la sua destinazione a salario o pensione, o a entrambi gli istituti. Il lavoro a tempo determinato non può essere cancellato tout court. Va delimitato e siccome è più carico d’incertezze di un lavoro a tempo indeterminato, va indennizzato.

In questo contesto, la definizione di un salario minimo per legge inevitabilmente perderebbe il significato strettamente politico di schieramento. Diventerebbe un punto di riferimento che, come tutti sanno, non produce nulla di automatico, ma consentirebbe alle aziende e alla magistratura di essere meno disinvolte e non giocare più al ribasso.

In altri termini, l’opposizione se vuole veramente combattere il “lavoro povero” deve favorire il più possibile l’intesa tra i sindacati confederali. Consiglierei di allontanare da sé la propensione a cercarsi il “sindacato amico”. Piuttosto deve agire per fare salire sul ring la maggioranza, per darsele di santa ragione. Ma anche per produrre regole condivise, senza intralciare l’ambito della gestione sindacale ma perseguendo l’obiettivo di un risultato socialmente unificante.

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