Ci sono i dati dell’Istat che segnalano la secca perdita del potere d’acquisto dei lavoratori a causa di una crescita dei prezzi tre volte superiore a quella delle retribuzioni, ma ci sono anche quelli dell’Ocse che raccontano di una débâcle trentennale, perlopiù delle politiche contrattuali, nel tutelare il salario reale. La fiammata inflazionistica (un aumento del 4,8 per cento non si registrava dalla metà degli anni Novanta quando ancora c’era la lira), dovuta essenzialmente all’esplosione dei prezzi del gas e dell’elettricità, sembra destinata a rientrare – secondo la stessa Bce – nell’arco del prossimo anno, con la seria incognita, tuttavia, della durata delle guerra in Ucraina. Resta strutturale, invece, la questione salariale in Italia. Perché gli italiani guadagnano troppo poco e da troppo tempo.
Il declino italiano
“Negli ultimi trent’anni di globalizzazione accelerata, tra il 1990 e oggi – scrive il Censis nel suo ultimo Rapporto – l’Italia è l’unico Paese Ocse in cui le retribuzioni medie lorde annue sono diminuite: -2,9 per cento in termini reali rispetto, ad esempio, al +276,3 per cento della Lituania, il primo Paese in graduatoria. Lavorare in Italia rende meno rispetto a trent’anni fa e siamo l’unica economia avanzata in cui ciò è avvenuto”. È il declino e insieme la svalorizzazione del lavoro. Un processo lento ma costante. Che, dopo la dissoluzione dei partiti di massa ancorati alle classi sociali del Novecento, contribuisce a spiegare perché, in questa interminabile transizione politica, il consenso del mondo del lavoro si sia alla fine depositato in buona parte sulle forze populiste, in un crescente disincanto verso la democrazia rappresentativa. La fine della scala mobile, che appiattì i salari e alimentò l’inflazione, coincide di fatto con la fine della prima Repubblica. Da lì in poi, con i vincoli dell’inflazione programmata fino all’attuale Ipca (l’indice dei prezzi al consumo armonizzato e depurato dalla dinamica dei prezzi dell’energia importata) e al di là delle reali volontà dei protagonisti, le retribuzioni sono rimaste al palo. La moderazione salariale è servita per agganciare prima i parametri di Maastricht e poi la moneta unica. Ha rafforzato il ruolo politico e istituzionale delle grandi confederazioni sindacali. Ha raffreddato il conflitto sociale. Ha profondamente eroso il potere d’acquisto di chi lavora, ma non è servita a cambiare l’assetto del nostro sistema produttivo che ha continuato a far leva sui bassi costi di produzione per competere sui mercati globali, dopo il doping delle svalutazioni competitive. Non è successo così nelle altre economie simili alla nostra: in Francia – sempre dati dell’Ocse relativi al trentennio 1990-2020 – le retribuzioni sono cresciute del 31,1 per cento e in Germania del 33,7 per cento. L’Italia, con la sua permanente stagnazione anche a causa di una domanda interna congelata e di una produttività immobile, rappresenta un’anomalia. Che andrebbe corretta.
Chi ha un reddito fisso colpito dall’inflazione
I dati dell‘Istat hanno, dunque, riaperto la nostra questione salariale. E il rischio concreto è che a pagare l’effetto della ripresa inflazionistica, spinta dai prezzi energetici, siano soprattutto i lavoratori a reddito fisso. Hanno ragione i sindacati a dirlo perché – già sta accadendo – le filiere produttive scaricheranno sul consumatore finale gli incrementi di prezzi. L’Ipca, per sua natura, non permetterà, in sede di rinnovo dei contratti di categoria, di far recuperare il potere d’acquisto reale. E gli industriali, anche i più dialoganti, hanno cominciato ad alzare le barricate spostando l’attenzione sulla contrattazione decentrata di secondo livello. Perché è lì – sostengono – che si può recuperare il salario perduto legandolo a parametri aziendali. Certo, se solo si facesse dovunque la contrattazione integrativa. I dati – questa volta del Centro studi della Confindustria – dicono altro. Secondo l’ultima indagine sul lavoro di Viale dell’Astronomia, infatti, solo un terzo delle imprese associate è coinvolto nella contrattazione aziendale, tra queste ci sono prevalentemente le grandi aziende industriali del Nord. La contrattazione di secondo livello, con il principale intento di distribuire la produttività, continua a interessare una parte minoritaria dei lavoratori, nonostante lo sforzo, anche con incentivi fiscali, di allargarne la platea.
Ma c’è anche un altro aspetto, anch’esso strutturale. Realizzando esclusivamente (o prevalentemente) a livello aziendale il legame salari-produttività “gli effetti – ha scritto l’economista Antonella Stirati – sono perversi in quanto ciò consente alle imprese meno innovative di restare sul mercato grazie alla possibilità di pagare salari più bassi, invece che essere costrette dalla concorrenza ad adeguarsi agli standard delle imprese più efficienti”. Il tradizionale recupero della competitività agendo sui fattori di costo, in particolare quello del lavoro. Un male antico del nostro capitalismo.Il cerchio si chiude con il fatto (anche questo anomalo rispetto agli altri Paesi europei) che abbiamo un mercato del lavoro nel quale si assiste a una concentrazione dell’occupazione nelle qualifiche più basse, va da sé precarie, e quindi meno remunerate. Servirebbe una ridefinizione delle regole della contrattazione. Forse – come molti sostengono – un nuovo Patto sociale tripartito tra governo e parti sociali per rimettere la questione salariale nell’agenda del Paese. Tuttavia il contesto generale non sembra favorevole a questo sbocco con un governo destinato a indebolirsi via via che si avvicina il voto politico nel 2023 e con i partiti destinati a riprendersi la scena; con i sindacati divisi e una Confindustria in crisi di identità conclamata. Più abbordabile un altro (più modesto) obiettivo, quello di approvare una legge per introdurre anche in Italia (come in tutti i Paesi europei) un salario minimo. Un primo passo per tutelare chi sta più in basso e guadagna di meno; un colpo alla giungla dei contratti pirati e non – checché se ne pensi come dimostra l’esperienza nordeuropea – un affronto al ruolo delle parti sociali. Ne sta discutendo il Parlamento e, ricordiamocelo, ce lo chiede l’Europa.
*da Repubblica, 28/02/2022