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Maradona, Pelé e lo scugnizzo di Scampia

Penso che il più grande sia Pelé, perché nel mio giudizio valuto oltre ai piedi anche e soprattutto la testa, sianelle “giocate” sul campo sia nella vita:ebbene, uno ce l’ha, l’altro no.

Parlando di calciatori è d’obbligo iniziare le valutazioni partendo dal campo di gioco. Qui i valori sono chiari; nel gioco a terra i due giocatori sono stati equivalenti (ognuno può mettere le piccole differenze che vuole, ma in tutti i casi saranno e dovranno essere proprio minime); nel gioco aereo non ci sono confronti. Pelé ha avuto un colpo di testa che equivaleva alle giocate di piede, un‘elevazione fantastica con la capacità di rimanere in alto più a lungo degli altri. Nei dribbling si equivalgono? Forse sì, ma il “drible de vaca” che nel mondiale del 1970 Pelé giocò al portiere dell’Uruguay non l’ho più rivisto in un campionato del mondo: il pallone scivolò senza essere toccato verso la destra del portiere e Pelé si lanciò a sinistra (ripeto, senza toccare il pallone) rincorso dal portiere che, finalmente accortosi, non poté che voltarsi e vedere il pallone in rete.

Se, come tutti sappiamo, l’unità è superiore a una sua parte, la conclusione è ovvia: Pelé è l’unità dell’atleta, dell’essenzialità, dell’eleganza dei movimenti, della visione di gioco, degli assist e dell’altruismo. È un 10 completo. Ma è sull’unità dell’uomo che il divario si accentua, e per ciò che mi riguarda non lascia alcun dubbio sull’assegnazione del primato.

Andiamo per ordine (e scusatemi se inizio da Bertolt Brecht): un uomo è un uomo, tutto intero dalla testa ai piedi, tanto è vero che ha il “difetto” di pensare, di essere individuo e società, elemento sociale e non monade riversata su se stessa. Ci sono molti individui che possiedono grandi capacità tecniche ma che sono possessori e applicatori solo di tecniche; sono solo riproduttori e ripetitori. Pensiamo ai manieristi, agli scrivani, ai falsari e al loro ruolo nella società, nella storia dell’arte, nella cronaca.

Nell’ artista, come per tutti i numero uno, la tecnica è solo una parte; il numero uno è tale se produce l’opera d’arte, figlia non di una parte (la tecnica) ma dell’unità (pensiero e attuazione).

È solo in un mondo in cui crescono a dismisura i disvalori degli individualismi, in cui abbiamo lo squilibrio nella ripartizione della ricchezza, del benessere e della stessa capacità di sussistenza, in cui i riferimenti sociali non sono più i soggetti che interpretano l’unità culturale, morale, storico-sociale, è in un mondo così che può diventare “il più grande” chi si propone come portatore di parzialità tecniche e di disvalori morali e sociali.

Senza enfatizzare, Pelé è un’unità e Maradona una parte, anzi una sub-parte (il gioco, ma solo a terra) che lo ha comunque portato agli onori facendolo il mantice della girandola di interessi che il mondo del calcio può produrre.  E con lui li ha prodotti tutti. Oltre che un fenomeno del gioco a terra, è stato un fenomeno del mercato che lo ha esaltato perché espressione di grande tecnica e di grande sregolatezza, spinta ben oltre il confine delle legittimità. Per il mercato è stato una pacchia su cui ha costruito fortune, incassi, consenso sociale e, purtroppo, emulazione soprattutto nelle parti deboli della società che ha imparato (ancora una volta) che a un “grande”, per legittimazione del mercato, tutto è permesso.

A quale società e a quale morale è stato utile avere un personaggio che fosse contemporaneamente la manina di Dio e il diavolo? È solo una letteratura d’appendice, narratrice dell’uomo genio e sregolatezza che gli ha permesso di essere accettato e di frequentare ambienti e personaggi, tra cui alcuni di grande rispetto (Fidel Castro), altri mefitici (la camorra).

Non è sufficiente farsi il tatuaggio di Guevara, bisogna essere Guevara.

Purtroppo spesso è sufficiente vincere per essere acclamato. Ma ricordiamoci che chi ti acclama perché hai vinto, poi ti vuole emulare; e su che cosa ti emula? Non sul gol all’Inghilterra (perché sa che non riuscirà mai a realizzarlo) ma indossando la maglietta con il numero 10 e, non potendo essere genio, si accontenterà di essere sregolatezza.

Quanti bambini e ragazzi di Scampia (cito la parte per il tutto), perennemente sul crinale del crimine, quando hanno indossato la sua maglietta numero 10, hanno sognato il loro idolo che tira coca e hanno sperato di conoscerlo un giorno, anche come loro cliente?

Se c’è chi vuol tacciare queste considerazioni di perbenismo si faccia un giro sui messaggi pubblicitari e ‘conti’ quante volte sono presi come testimonial i calciatori. E allora? Allora sono convinto del valore dell’unità e ribadisco: sul gioco a terra nulla questio (ognuno faccia la sua graduatoria perché sono talmente grandi che il giudizio fa parte solo dell’individualità del giudice) ma con la testa sia nel gioco aereo sia nella società non c’è confronto.

Un mio amico e compagno di Reggio Calabria, con un figlio giovane calciatore, mi ha ricordato in questi giorni che suo nonno gli diceva: “figghiu, l’uomo non è un’arancia, non si dà a spicchi”; nel ricordarmi il vecchio adagio, mostrava tutta la sua preoccupazione nella considerazione che la bravura, anche se eccelsa, non può né far dimenticare, né legittimare, né tanto meno affrancare una vita piena di illeciti legali (e insisto sul termine legali), come (sempre la parte per il tutto) i rapporti con la camorra. 

In conclusione, e a prescindere dalla completezza del giocatore-atleta per la quale credo sia Pelé il più grande, non educherò mai né figli né nipoti alla consapevolezza che un individuo, (anche qualora fosse il più grande giocatore di calcio) possa permettersi quello che al resto degli individui (nella nostra società) non è permesso.

Non dimentichiamo mai che i veri simboli sono “simboli tutti interi” e, come diceva il nonno, non se ne può prendere solo uno spicchio.

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