I programmi elettorali dei maggiori partiti sembrano suggerire che nel prossimo parlamento esisterà una maggioranza a favore di un’ambiziosa revisione del nostro sistema fiscale. Ciò non significa che per questo si riuscirà a farla: il centrodestra punta alla flat taxe all’abolizione dell’Irap, i 5 Stelle alla revisione delle aliquote Irpef e a sussidi generosi e generalizzati per disoccupati e incapienti, il PD alla decontribuzione sui contratti a tempo indeterminato e all’estensione degli 80 euro ai lavoratori autonomi. Molte di queste proposte sono irrealizzabili per difetto di coperture. Ogni anno servono tra i 15 e i 20 miliardi per disinnescare le clausole di salvaguardia e la flat taxe il reddito di cittadinanza sono misure costose, destinate al libro dei sogni di chi li propone.
Eppure, nonostante la diversità dei programmi, a noi sembra possibile scorgere almeno due obiettivi minimi che potrebbero essere condivisi: una seria riforma dell’IRPEF e un aumento delle risorse da dedicare al contrasto alla povertà. Sono due capitoli fondamentali per rendere più razionale ed efficace il nostro sistema di imposte e trasferimenti.
Riguardo al primo punto, occorre innanzitutto ridurre lo scalino dell’aliquota marginale dal 27 al 38%, che scatta alla soglia dei 28.000 euro. Un livello di reddito troppo basso che coinvolge il grosso dei lavoratori dipendenti, determina un cuneo fiscale eccessivo e danneggia il sistema produttivo italiano. Più in generale, molte ragioni suggeriscono di pensare a un’estesa riforma delle imposte dirette per tenere conto dei cambiamenti profondi della nostra struttura produttiva, senza invocare demagogicamente il requisito della progressività. Non è detto, infatti, che una struttura più “piatta” dell’Irpef, associata a una riforma generale del sistema di prelievo, riduca inevitabilmente la progressività del sistema tributario – riferita cioè a tutti i redditi. Anzi, la riduzione del ruolo dell’Irpef e l’aumento del peso sulle altre basi imponibili potrebbe rendere il sistema fiscale più equo.Il grado di progressività, infatti, non dipende necessariamente dal numero di aliquote marginali nominali. Del resto, per effetto delle detrazioni, che decrescono al crescere dell’imponibile, i lavoratori dipendenti sono, già oggi, soggetti (sostanzialmente) a due sole aliquote effettive: la prima al 30% e la successiva tra il 41 e il 43%,mentre gli altri tipi di redditi hanno sostanzialmente un’imposizione di tipo proporzionale. Il fatto che l’Irpef sia poco progressiva non è una scelta politica ma un dato di fatto e la diffusione delle nuove basi imponibili digitali non potrà che accentuare questa tendenza. Inoltre, la progressività può essere perseguita agendo su voci diverse del bilancio pubblico, e soprattutto sul lato della spesa.
E qui veniamo al secondo punto presente nei programmi dei partiti: le risorse che lo Stato è in grado di dedicare al contrasto alla povertà e al sostegno delle famiglie disagiate con minori a carico. A nostro parere non occorre inventarsi nulla di nuovo. Esiste uno strumento già disponibile, cioè il REI. Si tratta solo di potenziarlo. La domanda, a questo punto, è se i due obiettivi appena delineati possano essere realizzati in coerenza con un piano credibile di contenimento del debito pubblico.
Quasi tutti gli schieramenti politici hanno deciso di finanziare i propri programmi di spesa con un taglio delle spese fiscali più o meno esteso. Si tratta di un obiettivo condivisibile per molte ragioni. Le spese fiscali, infatti, redistribuiscono le risorse in modo arbitrario, hanno spesso effetti regressivi e determinano una perdita di gettito notevole, che potrebbe essere usata per riformare il sistema tributario; infine, generano sussidi distorsivi a favore di gruppi d’interesse particolari. La ragione per cui nessun governo è stato capace di eliminare le spese fiscali sono note: i partiti non vogliono alienarsi il consenso delle lobbiesche si giovano delle spese fiscali. Nella prossima legislatura potrebbe esserci l’occasione per sconfiggere queste resistenze, magari con un accordo bipartisan. Ma va fatto all’inizio della legislatura e coniugando tale obiettivo con le riforme fiscali sopra accennate.
Purtroppo non possiamo farci troppe illusioni. Il grosso delle spese fiscali è costituito da voci che hanno natura strutturale e una stima credibile di recupero di gettito per questa via si può collocare prudentemente intorno ai 10 miliardi. Una cifra inadeguata in rapporto ai due obiettivi di cui sopra. Restano allora altre strade possibili, certamente difficili sul piano del consenso, e tuttavia necessarie per avere un sistema fiscale più equo ed efficiente. Si potrebbe rivedere, almeno in parte, il numero di voci con aliquote IVA del 4 e del 10%, che contribuiscono a una perdita di gettito stimata intorno a 40 miliardi. Basta scorrere l’elenco dei prodotti con aliquota agevolata per rendersi conto che, in molti casi, si stenta a riconoscere la motivazione originaria di “beni di prima necessità” o “utilità sociale”. Inoltre, una modifica della composizione del sistema tributario appare opportuna, rivedendo il peso tra redditi, patrimoni e consumi e forme di tassazione reale delle nuove basi digitali legate ai dati. Queste misure sono difficili politicamente. I contribuenti potrebbero non vedere i vantaggi di una redistribuzione del carico fiscale. Per questo occorre un Parlamento molto determinato nell’effettuare questa riforma e nello spiegarne i vantaggi agli elettori. Non c’è più tempo per fallire un’altra occasione.
* Il sole 24 ore del 01/03/2018
** professore ordinario di Scienza delle Finanze alla Luiss, Roma
*** professore economia politica, Luiss, Roma