Puntuale come ogni anno, la Regina delle Dolomiti esprime la sua tragica vendetta mietendo vittime di escursionisti, o meglio di turisti sprovveduti, che frequentano l’alta quota con supponenza e senza capire che la montagna stessa, come tutto il pianeta, non è solo un corpo minerale inerte, bensì la componente di un insieme che vive nel tempo, con l’acqua, la vegetazione, l’aria, la luce e soprattutto con l’uomo in una simbiosi naturale che protegge il pianeta stesso.
Una massa turistica allo sbando, su per le strade e le montagne senza nessuna iniziativa per la sicurezza, quali potrebbero essere dei presìdi dislocati nei punti strategici e maggiormente frequentati per monitorare i flussi degli escursionisti, la destinazione e il proprio grado di preparazione, quasi come una guida alpina che offre suggerimenti e consigli per evitare la sistematica disgrazia di montagna.
In questo quadro di assoluta incertezza, a un tratto ci si accorge che tutto cambia, il mondo si modifica e si distrugge sotto i colpi letali di azioni che le esigenze economiche pilotate impongono come modello di sviluppo sociale imprescindibile. La politica, schiava volontaria di tali imposizioni per mere ed egoistiche ragioni di sopravvivenza, interpreta le costanti e persistenti decomposizioni della natura, che avvengono sempre più frequenti sotto gli occhi di tutti, come fatti isolati dovuti alla “fatalità”, parola magica che costituisce l’alibi formale per nascondere le vere cause, per sfuggire alle proprie responsabilità e per difendere consapevolmente i veri responsabili del disfacimento del pianeta.
Autorevoli pensatori possono esprimere meglio il concetto e le cause del decadimento globale cui assistiamo, purtroppo come spettatori inermi di una commedia ormai nota, la cui regia è attuata da quei veri responsabili che governano l’economia e il sistema nascondendosi dietro la politica.
Eppure viene quasi negata l’evidenza dal momento che persiste il modello di sviluppo basato sull’uso e consumo degli idrocarburi e fonti inquinanti per alimentare la macchina di un’economia di sfruttamento, distorta e polarizzata. Tiepidi accenni alla volontà di perseguire fonti rinnovabili sono solo vaghe promesse per smorzare gli animi degli ecologisti di nuova generazione, ma intanto il tempo passa, i danni si susseguono in ogni parte del mondo e la Marmolada cade a pezzi! Fatalità?
Al riguardo sarebbe opportuna una sintetica analisi che potrebbe chiarire l’analogia tra il modello di sviluppo economico di cui sopra e il modello economico di chi, in modo circoscritto e più da vicino, subisce la “vendetta” della Marmolada, messaggio di difesa dalle origini meno immediate e legate al surriscaldamento planetario.
Il modello di sviluppo economico di Canazei è basato sull’affluenza della popolazione turistica, ossia sulla massificazione e sulla mobilità. Canazei, che raggiunge a malapena 1.800 residenti, nella stagione invernale si riempie di una popolazione turistica di oltre 10.000 vacanzieri e altrettanti provenienti dai vicini paesi della stessa Val di Fassa e dai paesi della Val di Fiemme, tutti per raggiungere il “Sellaronda”, il circuito sci-impianti che permette il trasferimento giornaliero in Val Gardena, Val Badia e Valle di Livinallongo, ossia intorno al massiccio dolomitico del Piz Boè che comprende il gruppo del Sella e il massiccio del Pordoi.
Dunque Canazei diventa il nodo intermodale della mobilità, dal fondovalle all’alta quota dove si snodano ulteriormente i collegamenti sci-impianti. Il carosello dell’alta quota diventa dunque lo sfruttamento della mobilità quale obiettivo finale.
Piste sempre più larghe e lisce, sci sciancrati che facilitano la discesa, impianti razionalmente distribuiti per evitare i tempi morti delle code d’attesa per la risalita, portata oraria ottimale degli impianti, tutti fattori che favoriscono la dinamica dei percorsi e del dislivello complessivo che lo sciatore medio può sopportare in una giornata di vacanza, tutto per la produzione dei “bip” (obliterazione della tessera dell’impianto).
Nella stagione estiva le cose sono diverse, ma il turismo è sempre organizzato sulla preponderanza della stagione invernale, ossia sui numeri a scapito della qualità che nella stagione invernale è rappresentata dalla sola cura delle piste da sci che facilita l’esigenza dello sciatore e il guadagno del settore trasporti.
La qualità in senso stretto, ossia la qualità dei servizi per l’ospite (dagli alberghi al commercio e alla vivibilità urbana) per Canazei non arriva a raggiungere lo standard sufficiente, pertanto la stagione estiva risente di tale carenza dal momento che non può più esibire le piste da sci, strumentalmente ben curate per garantire maggiori “bip” possibili. Tuttavia anche nella stagione estiva si sollecita l’utilizzo degli impianti (ma non a basso costo) per invogliare le escursioni in quota senza caroselli, mantenendo invece le tariffe invernali per sfruttare il nuovo sport estivo rappresentato dal “downhill-bike”, ossia la discesa con mountain-bike o, in alternativa, sollecitando le risalite in quota per consentire i voli in parapendio.
Dunque è un turismo basato sulla massa, ma soprattutto sulla sua mobilità, che è ciò che alletta l’organizzazione degli impianti a fune, divenuta oggi l’azienda privata trainante dell’economia locale, che si arroga il diritto di abbattere sei ettari di bosco pregiato (cirmolo e abete rosso), che meglio una tempesta Vaia non avrebbe potuto fare, per realizzare l’invaso con diga di 150.000 metri cubi d’acqua, a ridosso del Sass Pordoi, per l’innevamento artificiale. Tutto col benestare della politica locale e provinciale, nonostante il progetto preveda, nella relazione dam-break (simulazione di rottura), la distruzione di Canazei in soli 13 minuti. Solo questo aspetto, collaterale e comunque legato all’argomento Marmolada, avrebbe dovuto far riflettere la politica! Come se la disgrazia di Stava non avesse insegnato nulla.
In definitiva, è un’economia basata sullo sfruttamento forsennato delle risorse e soprattutto del turista, usato e visto solo come mera risorsa economica, costruendo una barriera tra chi gestisce e chi viene gestito, dunque senza nemmeno una comunicazione di scambio sul piano culturale per capire chi era questa popolazione “ladina”, che tale non è più, ormai senz’anima, distrutta dalla politica che ha voluto imporre una logica economica di sfruttamento che ha radici lontane, ossia da quando la soppressione di una vacca da latte veniva risarcita dalla politica con egual valore in denaro.
Questa logica di sfruttamento ha permeato le attività degli abitanti, in particolare delle guide alpine locali che per una vita sono passate e ripassate, nel tragitto per raggiungere la vetta della Marmolada (Punta Penìa), proprio al di sotto del sovrastante seracco tragicamente precipitato; le guide alpine dunque non hanno mai posato lo sguardo verso quella calotta di ghiaccio, chiamata “cupola” e dove si allenava Tone Valeruz per le sue discese? All’epoca era ancora immune da fratture trasversali rispetto alla pendenza, dunque praticabile con gli sci, da dove partiva anche la Via Lidia, il Gigantissimo, cui parteciparono ai loro tempi Zeno Colò e Tony Sailer.
Oggi invece, diverse fratture verificatesi sulla superficie della calotta sferica di ghiaccio, emergente dal versante scosceso Nord della Punta Rocca, hanno permesso consistenti rovesci d’acqua al loro interno, alzando la temperatura e creando una pressione sul fondo che ha divelto l’intera calotta, alloggiata nell’invaso di roccia modellato nei millenni, facendola sgusciare e precipitare.
Non solo, lo scroscio assordante dell’acqua, che invisibile scorre sotto il ghiacciaio, avrebbe dovuto essere un campanello d’allarme e destare la massima preoccupazione nelle guide alpine che in stagione lo calpestano quotidianamente, ma ormai senza sensibilità perché compromesse dalla commercializzazione, anch’essa esasperata, dei propri servizi.
Una volta esisteva sulla Marmolada la Via dei Seracchi, ovvero un percorso suggestivo fra i ghiacci per appassionati, frequentato da turisti con guida alpina, documentati peraltro da numerose fotografie dell’epoca.
Naturalmente i seracchi, tra cui si insinuava quel percorso, altro non erano che dei pinnacoli di ghiaccio, ossia dei residui del ghiacciaio che andava scomparendo negli anni e che oggi esistono solo nella memoria, ma soprattutto dovrebbero costituire patrimonio prezioso dell’esperienza, anche indiretta, delle guide alpine.
Mentre la calotta era posizionata sulla cima di Punta Rocca, la Via dei Seracchi era localizzata in un’area a più bassa quota, caratterizzata da irregolari e frastagliate conformazioni di ghiaccio, proprio al di sotto del tracciato, per raggiungere la vetta di Punta Penìa, cui era frapposto.
Migliaia di sguardi si sono comunque posati inconsapevolmente su quelle fratture in movimento della calotta, perché migliaia di turisti sono approdati in vetta alla Punta Rocca a mezzo dell’impianto a fune collegato con Malga Ciapèla (Veneto), che nella stagione primaverile è sempre parte, seppur marginale, di quei caroselli sugli sci tanto agognati dalle aziende del settore ed era, in tempi quasi recenti, mèta dello sci estivo.
Ma tant’è che anche le guide alpine, accecate e assorbite dal massimo profitto nell’accompagnare i turisti in quota, magari anche con due escursioni giornaliere, non hanno certo dimostrato la proverbiale sensibilità, né si sono posti qualche riflessione, né hanno capito quanto poteva succedere e quanto sarebbe stato prudente rinunciare a qualche escursione ai fini della sicurezza. La calotta, ormai ridotta quasi alle caratteristiche di seracco, aveva il destino segnato, evidente e prevedibile, come era stato il destino della Via dei Seracchi presente nella memoria delle guide alpine, la cui scomparsa, comunque indenne da disgrazie, non ha però prodotto alcuna analogia di pensiero rispetto alle attuali condizioni del ghiacciaio e, in particolare, della calotta precipitata.
Sono state le guide alpine i custodi della montagna, i conoscitori e scrutatori degli aspetti più reconditi e meno visibili ai più, capaci di percepire piccoli e inconfutabili segnali di cambiamento. Per natura propria, non essendo mai state perfettamente aderenti alla quotidianità della comunità, e quasi come asceti che dalle cime spaziano e vedono costantemente l’orizzonte, le guide alpine hanno assunto anche il ruolo di mediazione con il turista del passato, il turista consapevole, acculturato ma, con il cambiamento negli anni successivi e fino ad oggi e la massificazione del turismo, le guide stesse hanno subìto il processo di assimilazione alla logica dello sfruttamento esasperato del settore che le riguarda, in tutti i suoi aspetti, ovvero anche nell’ambito privilegiato e speciale del rapporto con la montagna di cui la guida alpina era il solo mediatore e interprete.
Non è un’accusa, ma un monito nei confronti della guida alpina che ha perso il proprio ruolo, anch’essa vittima delle trasformazioni economiche nel tempo.
*architetto, già consigliere comune Canazei dal 1980 al 2015