Quali sono le sfide della nuova America Latina alla Chiesa di Papa Francesco?
Il Continente Latinoamericano sta vivendo un delicato periodo di transizione politica ed economica. Tra sfide vecchie e nuove, qual è il ruolo, geopolitico, di un Papa figlio di quella terra ancora, per dirla con lo scrittore Edoardo Galeano, dalle “venas abiertas” (le vene aperte)? Ne parliamo, in questa intervista, con lo storico milanese, esperto di America Latina, Massimo De Giuseppe. De Giuseppe insegna Storia Contemporanea all’Università “IULM” di Milano.
Professore, facciamo un piccolo bilancio del recente viaggio di Papa Francesco in America Latina. Un viaggio che si presentava difficile ed insidioso, in Cile è stato fatto oggetto di contestazioni (sulle vicenda del vescovo Barros che è stato allievo del prete pedofilo Karadima). In Cile era in gioco la ripresa di credibilità della Chiesa cilena. Una Chiesa, non dimentichiamolo, che durante la dittatura di Pinochet è stata un baluardo coraggioso in difesa dei diritti umani. Pensa che questo viaggio aiuterà il cammino di “risalita” della Chiesa cilena?
Il viaggio in Cile di Papa Francesco era considerato da molti piuttosto delicato per un insieme di ragioni. La prima, forse banale ma non insignificante, rimanda a una certa resistenza di una parte di cileni ad accogliere un Papa argentino. Esistono ancora in Cile retaggi non troppo sopiti di un nazionalismo forgiatosi tra Otto e Novecento e rilanciato in termini esasperati negli anni seguenti al golpe di Pinochet che sembrano impermeabili agli sforzi di rilancio di una cultura continentale, sostenuti anche dall’attuale pontificato. A ciò va aggiunto che la destra cilena, sostenuta in questo anche da altre componenti nazionaliste, non ha gradito il dialogo avviato dal papa con il presidente Evo Morales intorno alla questione spinosa delle richieste di accesso al mare da parte della Bolivia, conseguenza della Guerra del Pacifico del 1879-1884; una controversia geopolitica complessa, oggi in attesa di una sentenza (più che altro simbolica) da parte del Tribunale dell’Aja. In tal senso gli attacchi a Francesco erano iniziati già nel luglio del 2015, all’indomani della sua omelia a La Paz, in cui aveva invocato la necessità di riaprire un dialogo diplomatico, e a margine del discorso di fronte ai movimenti popolari tenutosi a Santa Cruz de la Sierra, per ripetersi in seguito alla visita del presidente boliviano in Vaticano dello scorso dicembre. Infine l’altro nodo caldo riguardava la questione della mancata rimozione del vescovo di Osorno, Juan Barros, accusato di connivenza con il suo maestro spirituale, il sacerdote Fernando Karadima, condannato nel 2011 per pedofilia. Se il Papa è riuscito, nella costruzione del viaggio e grazie ai suoi interventi, a ridimensionare le resistenze politiche, rilanciando il senso della diplomazia di pace vaticana e adattando all’esperienza cilena i temi chiave del suo pontificato (dall’ecologia integrale della Laudato si’ al rilancio della pastorale sociale e del senso di comunità), proprio la questione Barros si è dimostrata la più spinosa a livello mediatico internazionale, riguardando un tema drammatico come quello degli abusi contro minori commessi da esponenti ecclesiastici. Non è bastata infatti a calmare le acque la richiesta di perdono che ha aperto la visita apostolica durante l’incontro a Santiago con le autorità e i rappresentanti della società civile del 16 gennaio, quando, lanciando un appello all’ascolto e promettendo appoggio alle vittime e impegno affinché ciò non si ripeta, Francesco ha espresso «il dolore e la vergogna, vergogna che sento davanti al danno irreparabile causato a bambini da parte di ministri della Chiesa». Le polemiche seguite ad alcune dichiarazioni a caldo del pontefice nella Conferenza stampa sull’aereo che lo riportava a Roma (la richiesta di “prove concrete”), forse frutto di stanchezza, sono state poi rettificate, con un coraggioso atto di umiltà, dopo un puntuale intervento di richiamo alla gravità del caso, da parte del cardinale O’Malley, sono montate rapidamente, anche se una risposta concreta è poi giunta dalla decisione, giunta a fine mese, di inviare in Cile l’arcivescovo di Malta Charles Scicluna per incontrarsi con le vittime e indagare a fondo le accuse nei confronti di Barros. Credo che questo non possa che consolidare gli sforzi di chiarezza intrapresi dagli ultimi due pontificati, dopo una lunga stagione di inquietanti silenzi.
Non c’era solo la questione degli abusi ma, ed è un male che attraversa molti paesi del Sudamerica, anche quella della corruzione politica. In Perù la classe politica su questo lato ha dato il peggio di sé. Come sono state accolte le parole del Papa?
Questo è senz’altro un leit motiv degli interventi papali che sta accompagnando i suoi viaggi latinoamericani (ma che vive anche sullo sfondo di tanti interventi che toccano la dimensione e le trasformazioni mancate della politica nei paesi più ricchi e che riverbera nei suoi richiami alla dimensione transnazionale, da holding, di molti cartelli criminali). Il tema è d’altronde caro a Francesco almeno fin dai suoi anni alla guida dell’arcidiocesi di Buenos Aires, ed è stato ripreso esplicitamente nei suoi interventi in Paraguay nel 2015, in Messico nel 2016 (quando contrappose alla politica della corruzione e dell’abuso le “tre T”, techo, trabajo e tierra), ora in Perù nel 2018. Nell’incontro con le autorità, il 19 gennaio, nel palazzo di governo di Lima, Francesco ha voluto esplicitamente connettere il tema del degrado ambientale che ha connotato il suo incontro con le popolazioni amazzoniche con quello del degrado morale, richiamando genesi e impatto delle estrazioni minerarie irregolari, l’incapacità politica di frenare la presenza di nuove forme di schiavitù, la poca trasparenza nei rapporti tra bene pubblico e interessi privati, connotandoli come una sorta di “virus sociale” che investe tutti, compresi rappresentanti delle istituzioni ecclesiastiche.
Questo intervento, particolarmente deciso (che ha un chiaro precedente nella meditazione in Santa Marta del 29 gennaio 2016, Dal peccato alla corruzione), richiama la necessità di una profonda ricostruzione etica dei gangli sociali che rimetta in circolo antidoti efficaci alla corruzione che si manifesta in modo ancor più drammatico in paesi segnati da una cronica fragilità della classe media e da sperequazioni sociali estremizzate. Il dato interessante e che in tutti questi casi il richiamo non era rivolto solo alla leadership politica nazionale, ma anche alla classe dirigente, a vescovi e clero, nonché ai semplici cittadini, invitati a non nascondersi dietro facili ipocrisie. L’attacco alla corruzione è d’altronde associato alla critica degli squilibri esasperati che costellano il continente (e non solo), all’assenza di politiche sociali, alla debolezza di intervento pubblico degli stati in campo educativo, assistenziale e pensionistico, temi che hanno inquietato diversi osservatori che accusano Francesco di essere anti-moderno e anti-liberale, ma che ritrovano un riscontro prepotente nella situazione di molti paesi che associazioni imponenti sperequazioni e indici macroeconomici in forte ascesa.
Un altro aspetto, importantissimo, è stata la questione degli Indios. In Cile e Amazzonia (dalla sua parte cilena). Le parole del Papa sono parole definitive sulla scelta della Chiesa a difesa degli Indios. Il Papa desidera una Chiesa india. Un “sogno”?
L’attenzione per la questione indigena è un altro tema forte del pontificato di Francesco e questo è un dato importante sotto molti punti di vista. Se infatti i occasione delle contestate celebrazioni del 1992, l’anno del cinquecentenario della “scoperta-conquista” delle Americhe e del Nobel per la pace a Rigoberta Menchú, il tema era tornato all’attenzione globale, sollevando un’interessante riflessione su questioni quali diritti, multiculturalismo, sincretismo religioso, evangelizzazione…, conoscendo una ulteriore ondata d’attenzione mediatica all’indomani della rivolta del 1994 dell’Ezln in Messico e degli appelli di mons. Samuel Ruiz, negli anni successivi è seguito una sorta di oblio. Eppure i cosiddetti indigeni non sono scomparsi e non sono nemmeno rimasti staticamente congelati in un tempo immobile e sospeso, anzi. Hanno vissuto in prima persona i mutamenti dei processi sociali, ambientali, migratori, alimentari, finanziari, minerari …, offrendo spesso risposte originali di resistenza (o forse meglio resilienza) culturale e riadattamento alle pressioni della contemporaneità. Francesco, forgiatosi nell’esperienza dinamica del magistero latinoamericano sembra aver colto (almeno fin dai tempi della V conferenza del Celam, ad Aparecida in Brasile nel 2007) la dimensione profonda e tutt’altro che folklorica delle diverse anime correlate alla questione indigena. Se a San Cristóbal de las Casas, in Chiapas, nel 2016, il papa si era concentrato infatti su due elementi guida, quello della pluriculturalità e quello dell’inculturazione, aprendo una serie di riflessioni originali sulla complessità e vitalità (sociale, etica, perfino epistemologica) della religiosità popolare e sulla priorità del senso comunitario, a Temuco, tra i mapuches, storicamente ai margini della società e dei processi di nation-building cileni, e soprattutto in Perù, nell’amazzonico Coliseo regional Madre de Dios (a Puerto Maldonado) ma anche in occasione della celebrazione mariana della Virgen de la Puerta (la “Mamita de Otuzco”) e nella messa nella base aerea de Las Palmas a Lima (luogo di reminiscenza non ancora smarrite della “guerra sucia” peruviana che tante vittime ha provocato proprio nel mondo indigeno) ha voluto insistere sulla dimensione dell’ecologia integrale alla base della Laudato Si’. Quando il 19 gennaio ha affermato «probabilmente i popoli originari dell’Amazzonia non sono mai stati tanto minacciati nei loro territori come lo sono ora», il papa si riferiva tanto alla dimensione globale del «neo-estrattivismo», della deforestazione selvaggia, all’impatto ambientale delle monocolture agro-industriali, senza però rimuovere una netta critica alle logiche alla base di alcune scelte che toccano stati e impianti multilaterali (e anche di certo ecologismo istituzionale), riportando l’attenzione su uomini, donne e comunità, fino a lanciare un invito a «rompere il paradigma storico che considera l’Amazzonia come una dispensa inesauribile degli Stati senza tener conto dei suoi abitanti». Anche il richiamo ai popoli indigeni (lo stesso lanciato al mondo degli altipiani) come memoria viva della cura della “casa comune” non è apparso paternalistico bensì incentrato su una forma di rispetto profondo per la pluriculturalità che ammanta il continente americano (e non solo) e che rischia di essere schiacciata da logiche predatorie.
Non è mancata la critica al modello economico di sfruttamento economico delle Multinazionali , con la complicità di alcuni governi, che con le loro scelte decidono il destino delle popolazioni latinoamericane. E’ così Professore?
Certo questa è l’altra faccia della stessa medaglia e la stessa che spesso inquieta, provocando critiche nei confronti di alcune scelte del pontificato. L’attenzione alla dimensione ecologica del territorio e dei suoi abitanti implica una riflessione sui caratteri dell’economia del XXI secolo, che non va confusa con un anti-globalismo tout-court ma che va ripresa per l’essenza del suo messaggio. Alcune nuove forme di schiavitù che sembrano caratterizzare l’attuale dinamica dei mercati globali, l’impatto di una finanziarizzazione esasperata che tende a spingere le élite economico-finanziarie a non reinvestire nei territori, la svalorizzazione (anche culturale del lavoro), sono processi che vanno ben oltre le reti produttive e distributive e che hanno una ricaduta sociale complessa. L’attenzione al rispetto della persona e dell’ambiente rimanda quindi a una necessaria ripresa di vitalità culturale che parte dal basso, dai sistemi sociali ed educativi, dalle sintesi e miscele prodotte dagli effetti di ritorno delle migrazioni, dalla ridefinizione degli immaginari e dalla ricostruzione di forme di rispetto. Anche le basi della politica e dell’economia potrebbero trarre beneficio da un nuovo approccio propositivo ai temi complessi dello sviluppo e le chiese possono giocare un ruolo di accompagnamento culturale e sociale, oltreché religioso, tutt’altro che banale. Questo significa anche avviare un percorso dal basso di prevenzione di una cultura della violenza che colpisce in primis proprio gli elementi più fragili di società giovani, dinamiche e in divenire.
Nel 2018 l’America Latina, o meglio alcuni suoi Paesi importanti (Colombia, Messico, Venezuela, Costa Rica, Paraguay e Brasile), conoscerà una stagione politica decisiva per il suo futuro. 350 milioni di persone voteranno per il loro destino. Tra mille difficoltà è ancora possibile sperare un cammino di giustizia il Continente latinoamericano? La Chiesa che ruolo giocherà? Il Papa fa molto affidamento ai movimenti popolari…
Dopo le polemiche seguite al recente voto in Honduras (uno dei paesi con i più alti tassi di violenza al mondo), il 2018 rappresenterà indubbiamente un banco di prova importante dal punto di vista politico per alcuni dei principali paesi del continente. Il quadro è estremamente composito. Dopo la fine dell’onda rosa (suggellata dal successo di Piñera in Cile) e la crisi conclamata del progetto bolivariano post-chavista, resta la grande incognita di quale sarà la soluzione per il Venezuela, paese in cui la diplomazia vaticana ha fatto grandi sforzi per aprire vie di dialogo (tutt’altro che semplici da raggiungere) tra il governo Maduro e l’opposizione. La crisi economica del paese resta poi la grande incognita sullo sfondo della politica. In un altro ambito, la transizione del Brasile post-Lula arriverà a una svolta decisiva per un paese che sta giocando anche il suo ruolo e la sua credibilità all’interno del G20; diversa è invece la situazione del Messico, sospeso tra indici macroeconomici positivi, la necessità di pacificare alcuni stati della federazione e di riequilibrare politiche sociali e spinte alla crescita di una delle maggiori e più emblematiche “open economies” del XXI secolo. La maturità democratica di questi paesi latinoamericani è dunque alla prova, ma in una stagione dinamica in cui le prospettive di dialogo e apertura internazionale potrebbero crescere e di cui anche l’Europa, piuttosto disattenta (con alcune eccezioni) nel corso degli ultimi anni, rispetto agli interlocutori latinoamericani, potrebbe e dovrebbe prendere coscienza.
Lei ha scritto un saggio, pubblicato dalla prestigiosa casa editrice Morcelliana, dal titolo: L’altra America. I Cattolici italiani e l’America Latina. Sappiamo che negli anni del post-Concilio Vaticano II per i cattolici di punta l’America Latina era una fonte di ispirazione religiosa e politica. Le chiedo: perché ancora oggi è importante, per un cattolico italiano e non solo, guardare all’America Latina?
L’America latina postconciliare ha rappresentato nell’immaginario italiano, e nello specifico in quello dei cattolici (ma non solo) un luogo simbolico, fatto di esperienze e volti che hanno toccato in profondità l’anima del paese. Si pensi all’impatto di vicende quali il golpe cileno del 1973, la desparación argentina, le guerre civili centroamericane, alla risonanza della teologia della liberazione, alla riscoperta dell’Amazzonia di Chico Mendes o all’impatto di nomi quali Hélder Câmara, Marianela García Villas o Oscar Romero. Il libro prova a riprendere, tra documenti d’archivio e storia orale, alcuni di quei fili e intrecci per ragionare sulle forme di solidarietà del cattolicesimo italiano con l’America latina, la loro evoluzione e resistenza, e, pur senza nessuna pretesa di esaustività, tenta di dar conto della pluralità di attori che si mobilitarono e dell’articolazione delle reti che vennero edificate. In alcune stagioni della nostra storia contemporanea questo nesso euro-latinoamericano (che in fondo rimandava anche al retaggio della conquista evangelizzazione, a Cortés a Colombo ma anche a Las Casas e alle reti che hanno segnato in profondità la nostra età moderna) è emerso in modo più chiaro e rilevante; in altre meno e la distanza (anche mediatica) è parsa farsi più netta alimentandosi di silenzi e stereotipi. In fin dei conti, a pensarci bene, anche la storia di Jorge Mario Bergoglio, è figlia di quegli intrecci e incontri, nel tempo e nello spazio, attraverso l’Atlantico e due mondi sospesi.
Dal sito: http://confini.blog.rainews.it/2018/02/02/papa-francesco-e-la-nuova-america-latina-intervista-a-massimo-de-giuseppe/