La Magneti Marelli è un marchio storico e se la proprietà annuncia che uno dei suoi stabilimenti italiani – quello di Crevalcore, a due passi da Bologna – lo vuole chiudere, inevitabilmente fa notizia. Indipendentemente dal numero dei lavoratori che si sono trovati all’improvviso i cancelli sbarrati (230 su 7300 in Italia). Indipendentemente dalla precisazione aziendale che le lavorazioni sarebbero trasferite nello stabilimento di Bari. E’ un fatto grave e rischia di essere emblematico di questioni ancora irrisolte.
Il primo è che la proprietà, la giapponese Calsonic Kansei (controllata dal fondo americano Kkr, quello è interessato all’acquisto della rete TIM) decide e poi, se costretta, forse discute. E’ quello che si aspetta il Ministro che l’ha convocata, che hanno richiesto i sindacati e la Regione, che pretendono i lavoratori. La carta più forte che hanno in mano tutti gli antagonisti dell’azienda è la lotta e l’unità dei licenziati. Purtroppo, dal punto di vista legislativo non c’è vincolo che consenta di incanalare in un confronto preventivo una decisione così drastica, com’è quella della totale sospensione delle lavorazioni. C’è sempre stata una forte allergia dei Governi italiani di esercitare un “golden power” (introdotto nel 2012) con determinazione. Non è la prima multinazionale che si comporta in modo arrogante, non sarà l’ultima se non si affronta la questione della regolamentazione delle acquisizioni e delle dismissioni da parte delle aziende estere in Italia.
La globalizzazione, checché se ne dica, continua ad esserci; sta subendo aggiustamenti, ma non si tornerà ai vecchi equilibri commerciali e finanziari nazionalistici. Però, una seria politica, almeno in fatto di investimenti strategici, sarebbe il minimo sindacale per una redistribuzione, a livello europeo, delle proprietà dei mezzi di produzione e dei servizi, fondata su diritti ed obblighi condivisi.
La seconda questione che la vicenda solleva, riguarda le prospettive del settore automotive, una fetta importante del sistema produttivo nazionale, del suo export e dell’occupazione del Paese. Federmeccanica e sindacati dei metalmeccanici da tempo stanno sollevando il tema di un governo complessivo del destino del settore. Le previsioni circa l’assetto a definitiva caratterizzazione elettrica dei motori sono da tutti considerate cariche di difficoltà in termini di tenuta del mercato, di tempi per le ristrutturazioni da realizzare e di gestione dei livelli occupazionali, sia a riguardo della loro qualità professionale che del numero delle persone coinvolte.
Si è in attesa di un piano Stellantis per la produzione di almeno un milione di auto. Con questo piano si potrebbe definire una transizione che non penalizzi il motore endotermico in tempi brevissimi e di conseguenza chiarisca il peso che dovrebbe continuare ad avere la componentistica. Questa ha un mercato più ampio di quello che Stellantis può assicurare, conquistato nel mondo con la qualità dei suoi prodotti e la professionalità dei suoi addetti. Ma è ovvio che l’export non potrà mai diventare il solo garante del futuro della componentistica. Il fatto che la Marelli agisca fuori tempo rispetto al percorso indicato, spiega che siamo ancora a “ognuno corre per sé” e se passa questa logica, la situazione diventerà incandescente.
Infatti, le ipotesi occupazionali relativi all’intero settore, a transizione conclusa in modo ordinato, rilevano che ci potrebbero essere almeno 60.000 lavoratori in esubero, soltanto in parte compensati da nuove assunzioni con nuove professionalità, riguardanti nuove persone.
Un ricambio di queste dimensioni non sarebbe facilmente gestibile con gli attuali strumenti a disposizione. Come dimostra la situazione della Marelli, se il braccio di ferro in atto fosse vinto dall’azienda, all’orizzonte, nella migliore delle ipotesi, ci sarebbe soltanto un lungo ed incerto periodo di assistenzialismo salariale per i lavoratori.
Giustamente, il sindacato chiede conto delle possibilità di riconversione dello stabilimento, ma anche del riutilizzo all’interno del personale. Però, non ha a disposizione né una politica di sostegno alle riduzioni dell’orario di lavoro strutturale che potrebbe scongiurare, in parte o in tutto, il ricorso all’uso della parola “esubero”, né un sistema organizzato di presa in carico di quanti dovessero riqualificarsi per essere orientati verso le esigenze che emergono dal mercato del lavoro locale.
La formazione per gli adulti, ammesso che sia la più articolata e strutturata, ha tuttora come fondamento il “fai da te” da parte del singolo lavoratore. Una vera politica attiva del lavoro, invece, è il core business di una decente e poco assistenziale flexicurity che non lasci solo il lavoratore nella scelta del proprio riadattamento professionale. Lo orienta, lo tutela redditualmente, lo forma e nello stesso tempo lo accompagna nella selezione delle nuove opportunità di lavoro.
Questa gamma di funzioni ha bisogno di un soggetto, meglio se tripartito (ente pubblico, organizzazioni imprenditoriali, sindacati), che le assolva in maniera organica, rendendo così sopportabile una transizione che si annuncia epocale.
Senza affrontare contestualmente questi tre spaccati del cambiamento del sistema produttivo italiano, i casi come la Marelli si addenseranno nel panorama sociale, rendendolo sempre più infuocato e a rischio di ingovernabilità. Fin che si è a tempo, meglio smettere gli occhiali novecenteschi con cui tanto la politica, quanto le rappresentanze sociali hanno guardato al governo delle innovazioni. Si inforchino nuove lenti, per una lettura aggiornata delle esigenze che stanno emergendo, per generare risposte adeguate e socialmente accettabili.