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Mestiere in continua trasformazione

Eventi come la recente conferma dell’esistenza delle onde gravitazionali producono interessanti discontinuità nella vita di ogni ricercatore. Anche quando costui o costei non appartiene all’ambito disciplinare interessato dall’evento in questione. 

La conferma dell’esistenza delle onde gravitazionali non arriva come una straordinaria scoperta scientifica, ma come la conferma di scoperte già fatte. Conferma resa possibile attraverso lo sviluppo e l’applicazione di apparecchiature e tecniche sofisticate, unite al lavoro paziente degli scienziati coinvolti. Da veri certosini, costoro hanno registrato il fenomeno e confermato l’intuizione di Einstein sugli effetti delle onde gravitazionali sullo spazio-tempo. Ma hanno anche effettuato accurati controlli per escludere che il fenomeno registrato potesse essere stato generato da altri fattori (rumore di vario genere). 

Eventi di questo genere producono diverse discontinuità nella vita di qualunque ricercatore. Alcune molto positive. Ti dici: “Cavolo…! Abbiamo veramente capito qualcosa sulla vita del cosmo. Quella che facciamo è un’attività straordinaria, che permette all’uomo di esplorare l’universo, addirittura di fare retrodizione sulla sua storia, e inferire con un alto grado di certezza eventi che sono avvenuti miliardi di anni fa.” In una parola, ti senti importante. Te ne vai in giro per strada, e guardi dritto negli occhi chi ti passa accanto: “Ahò! Guarda che io sono uno scienziato, sai? Mica pizz’e fichi…” Non sarai un fisico nucleare, ma appartieni alla grande comunità scientifica, e tanto basti a qualificarti. 

Una volta rispolverato l’ego a sufficienza, cominci a speculare su altri possibili beneficiari dell’evento. La scienza prima di tutto. Il secondo pensiero che fai in questi casi è che, almeno per una volta, la scienza è protagonista, è sotto i riflettori: la gente non può non rendersi conto della sua importanza. Persino, chessò, uno come Salvini se ne accorge.  E magari se ne accorge pure Renzi, e ci mette qualche euro in più sopra. E vai! Infine, ti perdi in riflessioni più ambiziose, per esempio sugli effetti a lungo termine che gli eventi scientifici hanno sulle applicazioni, sulla società, sull’industria, e mano a mano l’ondata di calore sale e ti riscalda la giornata.

Nei giorni successivi, però, le discontinuità tendono a cambiare valenza. Un po’ come accade dopo tutti i successi e i traguardi, si entra in un clima di depressione post-partum. Si ricomincia dall’ego, ma questa volta in chiave meno positiva.  Ti chiedi se riuscirai mai a partecipare a qualcosa che assomigli anche a grande distanza all’esperimento sulle onde gravitazionali. E sconsolata, o sconsolato, ti rispondi di no. Tanto per cominciare, non hai alcuna chance di vincere un Nobel. Anche perché magari ti capita di operare in un ambito disciplinare che non prevede questo riconoscimento. E poi perché non sei a quel livello… 

Ma le domande incalzano e sconfinano dalla sfera dell’ego. Se non si può aspirare a imprese così straordinarie, a che serve la scienza? Ma poi, serve veramente a qualcosa, la scienza? Non per essere puntigliosi, ma insomma a quanti eventi come questo hai assistito, anche come semplice osservatore? E qui resti interdetto, perché non sapresti nemmeno confrontare l’evento in questione con altri. Ti appaiono tutti come singolarità incommensurabili, inconfrontabili. 

Forse non esiste una scienza, concludi dubbioso. Facciamocene una ragione! E seppure fosse? L’importante è generare conoscenza a beneficio della società, delle istituzioni, degli altri. 

Ma questo genere di risposta non convince, o non sempre, e non acquieta quasi mai il ricercatore che sta elaborando il lutto da successo (altrui).

La vita del ricercatore medio, quello che non vince il Nobel, che non ha la minima possibilità di partecipare ad un esperimento come quello che affolla in questi giorni i giornali e i notiziari, e che forse magari non ha neanche una posizione definita, un’affiliazione stabile, una base disciplinare di tutto rispetto – come la fisica tanto per dire – è costellata di discontinuità, che interferiscono non sempre positivamente con la sua autostima, la sua self-confidence, la sua stessa autorevolezza, e quindi la sua reputazione.

E vabbè, ci sono guai peggiori nella vita, direbbe qualcuno. 

Certamente. Del resto, le frustrazioni fan parte del mestiere. Bisogna metterle in conto al momento in cui si sceglie di fare il mestiere del ricercatore. Sempre meglio, ad esempio, del povero poliziotto che deve mettere in conto ben altri rischi connessi alla sua professione. Perciò, non stiamo qui a compiangere il ricercatore medio.

Eppure, qualche ulteriore riflessione va fatta. 

 

Le discontinuità alle quali ho fatto riferimento fin qui mostrano alcuni tratti peculiari dell’attualità del lavoro di ricerca. Cercherò di illustrarne alcune, quelle a mio giudizio più salienti.

Prima di tutto, il ruolo del ricercatore è oggi sempre meno definito. Chi ne definisce l’identità e la funzione? Fino ad alcuni decenni fa, la scienza aveva un ruolo definito, lo scienziato aveva un posto socialmente riconosciuto, spesso altamente reputato, anche se non ha mai goduto di significativi incentivi economici. Una volta, lo scienziato era un signore importante. Ed era consapevole della propria importanza. Le cose hanno cominciato a traballare quando un malinteso egalitarismo della sinistra ha preteso che non si parlasse più di scienza e di scienziati, ma di ricerca e di ricercatori. E siccome la lingua costruisce e distrugge gli artefatti sociali, non diversamente da quel che fa una ruspa con un edificio, il ruolo e la posizione sociale dello scienziato ha cominciato a vacillare quando è diventato un ricercatore.

Secondo, la scienza è attraversata da solchi profondi che ingabbiano gli ambiti disciplinari. In Italia, ben prima che la sinistra cominciasse a sferrare fendenti contro gli scienziati, colpevoli di rappresentare un’élite della cultura e del pensiero, l’umanesimo storicistico crociano aveva introdotto la famosa piramide rovesciata, quella che divideva l’accademia fra scienze dell’uomo, o scienze del vero, e scienze fisico-matematico-ingegneristiche, ovvero scienze dell’utile. Le scienze del vero erano poste al vertice della piramide per importanza, ma – grazie al rovesciamento della piramide – dovevano costituire la base interpretativa di tutta la scienza. Un’inutile esercizio che forzava i rapporti fra le discipline in uno schema non troppo logico, che pretendeva di costruire inutili barriere a difesa dell’umanesimo contro la potenza di fuoco delle scienze della natura, e che contribuì ad una sostanziale incomprensione dell’unicità della scienza. Oggi stiamo pagando prezzi salati per quella incomprensione. Essa affligge ancora la scuola italiana ed è in gran parte responsabile della performance non brillante dei nostri studenti nel calcolo e nelle scienze fisiche. Quella ottusità infine ostacola la formazione di una identità comune, condivisa, fra scienziati provenienti da ambiti disciplinari diversi. E l’identità, come sappiamo, è una risorsa importante. La sua mancanza, o la sua incertezza, contribuisce alla crisi di ruolo sia della scienza che dello scienziato.  

Ma nessuno dei precedenti fattori avrebbe avuto effetti di grande rilievo senza il fattore decisivo, la progressiva riduzione dei finanziamenti nazionali in ricerca e sviluppo. Non tutti sanno che nel venticinquennio post-bellico in cui l’Italia è cresciuta al ritmo sostenuto del 5-6%, il sistema-ricerca del nostro Paese beneficiava di finanziamenti che assicuravano alle Università e agli Enti di Ricerca Pubblici, primo fra tutti il CNR, fondi ordinari con i quali pagare le proprie attività di ricerca. In quegli anni, un Ente come il CNR svolgeva funzione di agenzia, e quindi di promozione, e non solo di produzione, di ricerca. Il sistema di ricerca del Paese si articolava in distinte componenti, che competevano su un piano di parità per assicurarsi i fondi pubblici straordinari. Tuttavia, godevano anche di una discreta autonomia finanziaria, e con la propria dotazione ordinaria potevano effettuare una discreta programmazione scientifica, finanziando attività di ricerca al proprio interno su linee strategiche corrispondenti alle proprie rispettive missioni istituzionali. Tutto ciò contribuiva alla vitalità e ad uno sviluppo armonioso dell’intero sistema ricerca. 

Oggi, viceversa, nessuna istituzione scientifica italiana gode di autonomia finanziaria. L’Italia è molto al di sotto della media europea (1,25% contro 2,5%) quanto alla quota di PIL destinata a ricerca e sviluppo, in flagrante violazione del trattato di Lisbona che prescriveva l’assegnazione del 3% del PIL a questo tipo di investimento. Di conseguenza, il ricercatore medio italiano non può attingere a fondi ordinari per la conduzione di attività di ricerca, ma deve procacciarsi fondi straordinari sul mercato dei fondi di ricerca, e spesso deve competere per i fondi internazionali, prevalentemente europei. Tanto per mettere in fila alcuni numeri, Il CNR oggi riceve dal governo (per l’esattezza dal Ministero per l’Istruzione, l’Università e la Ricerca) una dotazione complessiva di 580 mln, con i quali riesce a malapena a pagare gli stipendi dei suoi dipendenti, e non copre tutte le spese di organizzazione generale. Non avanza un euro per la ricerca. Ma l’attività dei ricercatori del CNR, grazie anche al contributo del personale di supporto alla ricerca, riesce quasi a raddoppiare questa dotazione con fondi straordinari, ottenuti prevalentemente su progetti (inter)nazionali, nonché grazie ad attività di servizio per enti pubblici e privati.

Intendiamoci, l’attività progettuale innesca un circuito spesso virtuoso, che promuove la produttività scientifica e il trasferimento tecnologico e migliora la performance complessiva delle istituzioni scientifiche. Tuttavia, la necessità di rastrellare fondi esterni ostacola la programmazione scientifica. L’attività di ricerca non è più basata su obiettivi strategici che corrispondono alle finalità, alla missione dell’istituzione stessa. Al contrario, oggi fare ricerca appare molto di più come un fai-da-te, nella quale l’affiliazione del ricercatore, il suo senso di appartenenza all’istituzione si allenta progressivamente. Inoltre, la caccia ai fondi richiede una continua ridestinazione, riconfigurazione, ridefinizione del proprio ruolo e della propria competenza da parte del ricercatore, che da una parte ne accrescono dinamismo e flessibilità, dall’altra contribuiscono a quel rumore interno, a quelle discontinuità che minacciano autostima e consapevolezza di sé. Lo scienziato è uno che deve continuamente dimostrare la propria utilità al committente. Non è più un generatore di conoscenza a beneficio di tutti. E’ uno che vende prodotti sul mercato. 

In questa trasformazione, che cosa abbiamo perso, e che cosa continueremo a perdere? Una domanda che fornisce l’occasione per nuove discontinuità.

 (*)Dirigente di Ricerca. Vice Presidente del Consiglio Scientifico del CNR

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