Alla trappola del sottosviluppo e della “cittadinanza di serie B” nel Mezzogiorno si ribellano in molti. L’insegnante della scuola che viene giù a pezzi, quando trasferisce conoscenza e ottimismo. L’ex sindaco che, dopo essere stato “messo in minoranza dalla camorra”, torna, sfida e vince. Le “madri” del quartiere attorno all’impianto inquinato che rivendicano l’aria pulita. Il giovane allevatore che smette di riempire moduli per gli aiuti, e investe e assume dipendenti. L’amministratore o il tecnico che si battono per tutelare un sito archeologico o aprire un asilo nido. Il giovane volontario che inventa nuovi servizi in un terreno nuovo tra il pubblico e il privato.
Sono loro che mandano avanti il Mezzogiorno. Ma come ci dicono gli occhi e i numeri non bastano. I loro atti di impegno e di rifiuto del pantano, anche quando non sono sconfitti – e molte volte lo sono –, creano lavoro e qualità della vita. Ma nel loro intorno, personale e territoriale. Non fanno sistema.
Singoli cittadini – come avviene sempre di più in tutte le democrazie (ci racconta Giovanni Moro in “Cittadinanza attiva e qualità della democrazia”) – sentono di avere la competenza morale e cognitiva per cambiare le cose. E spesso riescono a cambiarle davvero. Talora – anche se in misura minore nel Mezzogiorno – si organizzano in associazioni di cittadinanza attiva, dando così continuità e potere alla loro azione, e, quando incrociano amministratori aperti, anche ottenendo risultati. Ma tutto ciò non diviene un movimento per il cambiamento: per innovare il sistema di governo e pedagogico nelle scuole; per pretendere un centro di competenza nazionale per le bonifiche; per fare compiere un salto alla gestione dei beni culturali e della cura dell’infanzia; per realizzare forme nuove di governo dei fondi pubblici. Perché?
La prima causa di questo ribellarsi che non diventa cambiamento è la fortissima tendenza al persistere delle condizioni di “sottosviluppo”. Una parte maggioritaria della classe dirigente del Mezzogiorno non vuole cambiare perché teme che il rinnovamento la danneggi, aprendo la strada ad altri. E a cascata fasce ampie di popolazione temono anche esse il cambiamento: non hanno molto, sono insoddisfatte, ma temono di stare anche peggio. In un conto approssimativo, vedono più costi che benefici nel rinunciare al “nero” (che pure li inchioda all’incertezza e a bassi ritorni e confina con l’illegalità); più costi nel tentare un progetto di cooperazione e coprogettazione che nel ricercare “aiuti”. A stanarli da questa contabilità mortificante non sentono alcuna narrativa convincente di un altro Sud.
Ecco così la seconda ragione che ha a che fare con la classe dirigente nazionale. Quando il sottosviluppo di un’area di uno Stato nazionale non si sblocca endogenamente e la ribellione rimane una somma di pur importanti e talora straordinari atti isolati, è compito della classe dirigente nazionale promuovere il cambiamento. Destabilizzare gli equilibri di sottosviluppo. Offrire il destro a chi “non ci sta”. Costruire una narrativa che dia un “alibi” per muoversi in modo sistematico. Non è questo che ha fatto in questi anni la classe dirigente nazionale, di governo, dei partiti, dei corpi intermedi della società.
Da tempo ormai, con poche eccezioni, per la classe dirigente nazionale, il Mezzogiorno è rimasto solo un serbatoio di voti, non un pezzo decisivo dell’identità nazionale. Anzi, spesso, anche quando si era del Sud, si è stati attenti a marcare la distanza. Ma se l’unico obiettivo nei confronti tuoi, cittadino del Sud, è il tuo voto di dopodomani, il metodo migliore per ottenerlo è lenire di volta in volta la tua rabbia con trasferimenti che plachino il rischio di ribellione e guadagnino almeno per un po’ il tuo appoggio. Meglio addirittura non spendere i fondi pubblici disponibili perché così ne avremo di più dopo per mantenere il tuo consenso.
Da questo perverso equilibrio di interessi locali e nazionali deriva il pantano del Mezzogiorno. Nonostante le migliaia di “ribellioni” e le straordinarie imprese individuali.
E’ un equilibrio che si può rompere solo se in questo momento di agognato risveglio nazionale le classi dirigenti nazionale e locali sono a un tempo tentate e costrette a trovare un nuovo accordo, un accordo per il cambiamento. Tentate dai benefici che potrebbero derivarne, anche a loro, se se ne ponessero alla testa. Costrette da una pressione sociale non più lenibile dai trasferimenti pubblici. Ma c’è sempre una prima mossa. E per come è messo oggi il Paese questa sta allo Stato centrale: che può e deve rompere le “filiere della spesa”; che può e deve pretendere che non un euro di spesa in conto capitale abbia luogo senza rendere noti ai cittadini i risultati attesi, per poi misurarli e verificarli; che può e sta rafforzando le proprie strutture di verifica sul campo; che può e deve dare ai cittadini un’informazione continua e creare per loro gli spazi dove tradurre ribellioni individuali in pressione sistemica.
(*) Dirigente generale al Ministero dell’Economia e delle Finanze