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Modifiche strutturali al sistema tributario

Il sistema fiscale è grossomodo da cinquanta anni, momento della riforma tributaria, l’espressione delle principali categorie che lo sostengono. L’Assonime è la potente associazione che lo influenza nella sua parte proporzionale, riguardante il grosso dell’industria e le banche. Il sindacato dei lavoratori fino a poco tempo fa, assieme all’Assonime, dominava nell’Agenzia delle entrate (ma anche oggi la loro influenza è importante), imponendo i propri valori ed impedendone una conoscenza effettiva riguardo alla progressività, di cui vengono in particolare ignorati gli aspetti internazionali. Da qualche anno i lavoratori autonomi, molto importanti in Italia, hanno rappresentanze che svolgono un ruolo negli Studi di settore, ovvero si occupano della tassazione delle piccole imprese, la cui evasione è però rimasta pressoché intatta. La classe professorale si è sostanzialmente ritirata dalla conoscenza del sistema, ed indulge in modelli astratti, totalmente avulsi dalla realtà. Nonostante ciò essa continua a macinare proposte, che restano lettera morta. Un esempio è costituito dall’ultimo numero (il n.1 del 2020) di Economia italiana, dove avviene l’esercizio delle loro astrazioni. In particolare essi difendono la progressività attuale contro il modello dell’aliquota unica dell’Irpef: i due temi (progressività attuale, aliquota unica) sono, come vedremo, di significatività nulla. I professori di diritto tributario, pure divenuti importanti, si occupano in sostanza della gestione del sistema. Nel seguito discuteremo le proposte di riforma di Mirrlees, premio Nobel dell’Economia nel 1996, che ha scritto nel 2012 una proposta sul National Tax Journal, dal titolo The Mirrlees report, avendo al suo seguito i maggiori professori a livello mondiale, di cui gli autori del volume di Economia Italiana rappresentano solo una pattuglia. La discussione avverrà in parallelo a quella delle tesi di De Viti de Marco, principale sostenitore del sistema fiscale vigente fino al 1973, che ha scritto nella prima metà del secolo (1933, Principii di economia finanziaria, tradotto nelle principali lingue estere). Assieme a De Viti hanno operato a difesa di quel sistema fiscale anche Einaudi, e, nella seconda metà del secolo, Sergio Steve. Quest’ultimo ha avuto un passato di sinistra, sostenendo anche il piano del lavoro, voluto da Giuseppe di Vittorio. Nell’insieme De Viti, Einaudi e Steve rappresentano la Scuola Italiana di Scienza delle finanze. Questo scritto costituisce una sintesi dell’articolo De Viti’s and Mirrlees Fiscal Systems, che sta per uscire a mio nome sulla Rivista italiana di diritto finanziario e scienza delle finanze. 

E’ una comune credenza che l’attuale sistema fiscale sia personale, a base mondiale, e progressivo. I fondamenti di questa credenza, che Mirrlees alimenta, possono essere tuttavia criticati. Infatti la tassazione delle società di capitali è sul reddito in quanto prodotto, che differisce sostanzialmente dal reddito distribuito. Il reddito prodotto è colpito prima della distribuzione, e perciò non riguarda la nazionalità del cespite. E’ un prelievo sul prodotto nazionale (sulla parte dei profitti nazionali nel caso delle società di capitali), e per questo è di necessità proporzionale. Il reddito distribuito riguarda invece la nazionalità del percettore, e colpisce i cittadini (o, meglio, i residenti in un paese) sul loro reddito a livello mondiale. Per quest’ultima ragione esso è (o meglio, potrebbe essere) progressivo. Per tentare di rendere i due sistemi di prelievo tra loro compatibili, si è aggiunta la tassazione dei guadagni di capitale a livello personale a quella sul reddito prodotto a livello di grande impresa, creando in questo modo, in maniera occulta, un doppio livello di tassazione. Il sistema creato non funziona, perché i commercialisti riescono ad evitare abbastanza facilmente la tassazione dei guadagni di capitale. Ad ogni modo la “schizofrenia” sulla carta c’è. Il trattamento dei risparmi costituisce un’altraschizofrenia dei sistema di tassazione personale. Se, come nel caso di Mirrlees, si propone l’esenzione dei rendimenti normali del risparmio (questo per promuovere i risparmi, obiettivo assai contradditorio in un periodo in cui questi sono in eccesso – vedi il mio contributo Politica fiscale quando il saggio di interesse è basso, nel numero n. 251 di Nuovi Lavori, del marzo 2020), accade solo una confusione generale, tra la progressività, gravemente colpita da tale esenzione, e la tassazione proporzionale delle società di capitali, che è pure gravemente colpita da provvedimenti come l’ACE. Si tratta della deduzione dal reddito di impresa di un importo corrispondente al rendimento figurativo degli incrementi di capitale proprio, con sottoposizione ad un’aliquota ridotta o nulla, in omaggio alla sua doppia tassazione. L’Ace, introdotta nel 2012, è stata reintrodotta in Italia a valere dal 2020, dopo una breve abolizione nel 2019.  

Esaminiamo ora le tesi di De Viti de Marco sulla tassazione reale, nazionale, proporzionale, come esposte nel libro menzionato del 1933. Ricordiamo altresì che non si tratta di tesi in astratto, ma dell’interpretazione del sistema fiscale allora vigente, che salvo piccole modifiche ha retto fino al 1973. Ne mostriamo la superiorità rispetto all’impostazione di Mirrlees, in generale e nello specifico per quel che riguarda la redistribuzione del reddito.La tassazione reale riguarda non le persone, ma i redditi prima della loro distribuzione, quando questi sono aggregati. La nazionalità è infatti il riferimento automatico di questi redditi/patrimoni (i redditi in quanto fanno parte del Prodotto Interno di un paese, i patrimoni in quanto si trovano dentro i confini del paese, tanto per fare gli esempi maggiori). I guadagni di capitale, depurati dai profitti non distribuiti (e dall’inflazione, se questa è alta), potrebbero essere considerati in addizione. Solo che non si tratta dei guadagni di capitale delle persone, ma di quelli che maturano presso le imprese, che sono alla radice di quelli personali. Tali guadagni si possono considerare sulla base della competenza (e non della cassa, che ne distrugge l’effettività), con possibilità di rivalsa sui profitti distribuiti (che, ovviamente, tenderanno per questo ad essere maggiori). Quindi di fatto la loro dispersione nel mondo è evitata in radice, come del resto la doppia tassazione, in quanto si prevederebbe la deduzione dei profitti, già tassati, dai guadagni di capitale. Siccome i redditi esteri non sono considerati, la proporzionalità del prelievo è un’altra necessaria conseguenza. Ciononostante ciascuno dei redditi ha un’aliquota sua propria, da cui la progressività segue di fatto. Per esempio nella tassazione italiana fino al 1973 (il principale oggetto di studio non solo di De Viti, ma anche di Einuadi e di Steve), le aliquote massime erano previste per i redditi da interessi, seguite da quelle per il reddito di impresa (distinguendo tra società di capitali e piccola impresa), e poi da quelle sui redditi da lavoro (distinguendo tra lavoro autonomo e lavoro dipendente). La globalizzazione dell’economia porta alla competizione fiscale. Ma, se vi sono problemi di competizione, come accade per i redditi da interesse e da impresa, la soluzione è una reale internazionalizzazione (l’internazionalizzazione non riguarda l’amministrazione, ma solo gli accordi), che permette di rinforzare la discriminazione delle aliquote, e nello stesso tempo permette di raggiungere altri obiettivi economici importanti. Non è la resa, come sta accadendo con la tassazione personale. Ora registriamo una totale impotenza fiscale, perfino in Europa. La teoria è infatti per la proporzionalità con aliquote basse per i redditi che competono nel mondo, e la progressività per i redditi, come quelli da lavoro, che non competono. Questa teoria è avanzata peraltro mantenendo la base fiscale della personalità e della progressività a livello internazionale. Se la competizione, come avviene in assenza di accordi internazionali, tende in ogni caso ad abbassare l’aliquota sui redditi ad essa esposti, nel sistema di De Viti e nella tradizione italiana di Scienza delle finanze è almeno evitata l’internazionalizzazione della base imponibile personale, che ha effetti distruttivi specialmente sul risparmio ed i suoi redditi.Un’altra caratteristica propria del sistema di De Viti è la  conformità ai principi del beneficio collettivo. Una moderna interpretazione di tali principi porta a riservare all’imposizione indiretta il finanziamento della spesa a carattere principalmente collettivo e a riservare alla contribuzione sociale a livello individuale il finanziamento delle pensioni e dei benefici pubblici in denaro. Accanto a queste due forme di prelievo, lievemente progressive e dirette a finanziare gran parte dell’intervento pubblico, c’è il sistema dell’imposizione diretta, diminuito rispetto ad ora, ma reso maggiormente progressivo nei fatti (discriminazione delle aliquote sui redditi da capitale, eventuale sostituzione del prelievo sui redditi societari con imposte sul capitale), e diretto a finanziare la spesa pubblica redistributiva. Gli effetti di questa struttura sulla trasparenza ed efficacia del sistema fiscale sarebbero enormi.    

Passiamo ad una comparazione tra i due sistemi fiscali sulla tassazione internazionale. Di nuovo emerge la netta superiorità del sistema di tassazione di De Viti (emblema della scuola italiana, lo ripetiamo) rispetto a quello progressivo, di cui abbiamo assunto come emblema Mirrlees. Prima di tutto il sistema di Mirrlees implica un secondo livello di doppia tassazione, tra redditi interni e redditi esterni ai confini della nazione. Infatti, i redditi esterni posseduti da residenti, altra importante caratteristica dei sistemi globalizzati, sono oggi tassati due volte: una dalla tassazione nazionale del paese di residenza, un’altra volta dal paese che da ospitalità ai redditi. Solo se ci sono trattati internazionali (su base bilaterale, non multilaterale) questa doppia tassazione è ridotta, ma non è eliminata (come dovrebbe fare il paese sui redditi dei non residenti che ospita). Non solo questo. Il sistema delle ritenute interne, fonte di efficienza enorme sui redditi interni quando non evasi od elusi, è impossibile da realizzare sui redditi esterni dei residenti. Così quella che in apparenza è una doppia tassazione, se il sistema funziona solo sulle ritenute, diviene di fatto un’esenzione. Queste sono le ragioni reali che rendono la tassazione internazionale dei redditi da capitale (interessi e guadagni di capitale) assolutamente ridicola. I politici in materia urlano, senza rendersi conto che tutto dipende dalla logica di tassazione personale. Il sistema di De Viti non solo evita la doppia tassazione, ma implica una reale (e non falsata) progressività in caso di completamento con gli accordi internazionali. Tali accordi sarebbero, ripetiamo, sulle aliquote (riguardanti interessi e superprofitti), e non riguardano l’amministrazione del sistema. Questa infatti resta nazionale, al netto di alcuni scambi di dati.Un’altra implicazione del sistema reale riguarda la territorialità dei redditi. Questa è semplicemente garantita dal sistema di De Viti, anche su basi minori riguardo al territorio nazionale (Regioni, Comuni). E’ ridicola e pericolosa in Mirrlees, dove il sistema è obbligato a rispondere ad un centro di raccolta del gettito, progressivamente sempre più distante a livello mondiale al crescere della globalizzazione.

E’ il turno dell’imposizione indiretta. Anche qui De Viti, con alcune riformulazioni della teoria, domina pienamente rispetto a Mirrlees. Le tesi di Mirrlees in materia sono semplicemente ovvie. Si reclama infatti principalmente l’uniformità delle aliquote dell’Iva. La misura è semplicemente sconvolgente, specie per i paesi, come l’Inghilterra, che usano l’Iva con intento redistributivo. La tassazione indiretta è invece decisiva nello schema di De Viti. Per la sua ampiezza e perché, nella teoria rivista e nella pratica, essa, con il fatto di riferirsi al valore aggiunto, diviene particolarmente atta a finanziare i servizi pubblici collettivi. A parte ciò, vi sono due altri punti assai importanti. Il primo punto è la possibilità di decentrare effettivamente il gettito. Questa può essere ottenuta attraverso l’Iva, una volta che sia introdotto un semplice meccanismo (già introdotto nel 2004 in Italia: si tratta del quadro VT), e attraverso il resto della tassazione indiretta. Questo meccanismo semplificherebbe anche l’introduzione del regime definitivo dell’Iva per l’Europa, che aspetta fin dal 1993. Il regime provvisorio, ora in vigore, favorisce ulteriormente l’evasione dell’imposta, attraverso le cartiere fiscali ed le cosiddette frodi carosello. Il secondo punto concerne strumenti effettivi per contenere l’evasione fiscale. Anche in questo caso è decisivo il meccanismo sopra visto, che consente una effettiva rivelazione del consumo (l’imposta attuale risponde al consumo, ma non lo esplicita), per settore e per regione. Una volta che agli stessi livelli (settori, regioni) le statistiche divengano disponibili (lo sono già in gran parte), è aperta la possibilità di avere strumenti effettivi per contenere l’evasione, coinvolgendo in pieno i professionisti e le categorie produttive, sotto il controllo dello Stato. L’imposizione diretta, che per i bassi livelli di reddito diviene conveniente quando comparata con i benefici ricevuti direttamente dallo Stato, concorre all’obiettivo. La tassazione indiretta potrebbe divenire ancora più potente, con l’introduzione di una piccola aliquota effettiva sugli acquisti tra imprese (comunemente detti B to B, che sono già considerati dall’Iva, pur se non producono gettito in quanto c’è la deducibilità degli acquisti) e sull’ammortamento. Alla fine viene fuori un forte somiglianza con il sistema vigente ai tempi di De Viti. Il ruolo dell’imposizione indiretta può diventare peraltro totale, arrivando a eliminare la tassazione diretta, ma non la contribuzione sociale progressiva, se in questo campo la cooperazione internazionale non riesce ad essere effettiva. Il riferimento è alla tassazione pressoché totale degli interessi, compresi quelli privati, ove positivi; alla tassazione particolare degli extraprofitti, colpendone gli aspetti monopolistici ed oligopolistici. Quest’ultima tassazione, oltreché rimediare a gravi ingiustizie, dovrà essere diretta ad evitare la concentrazione delle imposte pagate in un solo paese, quando sono molti i paesi in cui si svolge l’attività. Se i progressi su questi due aspetti ritardano in quanto sono coinvolti molti paesi, è meglio concentrare nei singoli paesi il prelievo sull’imposizione indiretta (oltre che la contribuzione sociale progressiva), che almeno pone rimedi parziali alla situazione. 

Un ulteriore aspetto riguarda la tassazione reale del capitale e la tassazione personale del patrimonio. In De Viti la tassazione del patrimonio riguarda solamente il capitale di impresa, ove può sostituire completamente le imposte sul reddito. Si dimostra che in questo caso la tassazione del patrimonio può avere diversi vantaggi rispetto a quella del reddito. Può infatti conseguire un’evasione minore, ed un’efficienza più grande. In Mirrlees la tassazione del patrimonio è invece internazionale e travalica i confini. Con ciò di fatto si riduce a colpire solo a livello nazionale; a moltiplicare l’evasione con le fughe all’estero; a ridurre al minimo la base imponibile, nel caso ci siano le esenzioni (prima casa, un minimo di attività finanziarie, e altre). La superiorità di De Viti riguarda infine un ultimo e decisivo aspetto, la traslazione delle imposte. Infatti la contribuzione sociale si pone in maniera commutativa riguardo ai trasferimenti ricevuti, e molte tassazioni riguardano le rendite, così evitando la traslazione, come mostra l’economista Ricardo. In Mirrlees invece la traslazione è facile, perché queste ipotesi di tassazione sono escluse. Così, perfino nel caso che la progressività non abbia confini ristretti, essa perde la capacità di ridistribuire i redditi. Assai attuale è la situazione dei dirigenti, i cui redditi lordi si sono molto estesi, in parte sicuramente a causa della progressività cui sono sottoposti.

Una effettiva configurazione del sistema di De Viti porta a vederne il suo equilibrio, in valori relativi ed assoluti. Il sistema regge infatti sia nel bilanciamento, che vede le imposte indirette finanziare direttamente i servizi pubblici collettivi e vede i contributi sociali a fronte dei benefici individuali ricevuti dalla spesa, sia nella redistribuzione, che avviene massicciamente con le imposte dirette e le spese specifiche dirette a modificare i redditi. Ciò per il fatto che i contributi sociali sono graduati con il reddito, l’Iva resta progressiva e c’è un comparto di spesa redistributiva finanziato da imposte che prevedono aliquote non personali, ma fortemente progressive. C’è dunque qualcosa di profondamente sbagliato nell’accettare dei miti quali la progressività del prelievo delle imposte a livello personale. Questa accettazione parte a livello popolare, sulla base del semplice fatto che un reddito più grande deve sostenere una maggiore tassazione rispetto ad un reddito piccolo. Ciò dovrebbe avvenire a livello esplicito, coram populis, anche a costo di generare delle gravi insufficienze. I nuovi pensatori come Mirrlees rafforzano questa opinione astratta arrivando a teorizzare l’esatto contrario, cioè la regressività del prelievo in presenza di imposte personali, affermando di seguire l’economia reale. Nessuno bada a rivalutare un sistema fiscale che era in vigore fino a cinquanta anni fa, ed era sostenuto dalla maggior parte dei professori universitari in Italia. Abbiamo dimostrato invece la superiorità di tale cultura, sostenendo che grandi miglioramenti possono seguire da un suo rinnovato restauro, sia in politica economica che nel fisco.Tornando all’inizio, la speranza è che Sindacato dei lavoratori, Assonime e Confindustria, Lavoro autonomo e Professionisti prendano atto di questa realtà. Il sindacato dei lavoratori deve smetterla di rivendicare una progressività divenuta astratta, optando per una progressività concreta e fattibile. L’Assonime deve smetterla di essere ipocrita coprendo la grande elusione delle imprese, e deve rivendicare il suo ruolo di leadership per il nuovo sistema, che già nei fatti adotta, salvo fittizie bardature. I lavoratori autonomi devono smetterla di mascherare la propria evasione con gli studi di settore, evitando di farne lo strumento della piccola impresa, e rivedendoli per puntare sui consumi, al fine di ridurre significativamente l’evasione. Lo Stato deve smetterla di lanciare sempre e solo proclami, promuovendo una configurazione fiscale che permette dei ruoli pubblici al Sindacato, all’Assonime, ai Lavoratori autonomi, ai Commercialisti, e che raggiunge un nuovo equilibrio tra ruolo delle nazioni e ruolo delle Confederazioni di Stati a livello mondiale, almeno nei paesi avanzati del G20. In assenza di ciò ogni richiamo all’Europa naufraga senza possibilità, e fa diventare ridicolo un sistema che affonda nelle sue gravi contraddizioni.

 

*Insegna Economia dei tributi, facoltà di Economia, Università Tuscia (Viterbo)

 

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