La mancanza di una condanna o anche la semplice volontà di ignorare le atrocità commesse da Hamas il 7 Ottobre sono il frutto di una cultura che si è sviluppata da anni nelle università americane d’élite. Quali sono le radici di questo fenomeno? Ne parliamo con il sociologo e politologo Andrea Molle. Andrea Molle è Professore Associato di Scienza Politica e Direttore del Master in Studi Internazionali, Chapman University e Ricercatore senior per START InSight (Lugano).
Professore, l’opinione pubblica internazionale è rimasta molto colpita, in negativo, nei giorni scorsi dalle prese di posizioni di associazioni studentesche ,di alcune università prestigiose (Havard e Berkeley per esempio), a favore di Hamas. Come possibile che nel ” tempio” della cultura liberal si affermino posizioni così?
Io non ne sono affato stupito. Il supporto, la mancanza di una condanna o anche la semplice volontà di ignorare le atrocità commesse da Hamas il 7 Ottobre sono il frutto di una cultura che si è sviluppata da anni nelle università americane d’élite. Harvard e Berkeley sono solo la punta dell’iceberg e non si tratta unicamente degli studenti, ma anche di molti docenti che condividono, fomentano e purtroppo in molti casi sono gli ispiratori del supporto ad Hamas. È un processo che arriva da molto lontano, che assieme al collega Luigi Curini della Statale di Milano abbiamo descritto varie volte come una forma di puritanesimo e che consiste sostanzialmente in una radicalizzazione, o meglio in una talebanizzazione dell’esperienza intellettuale degli studenti. Studenti che sono esposti ad un unico punto di vista, perlopiù ideologizzato e non fondato su realtà empiricamente osservabili. Non si rischia di esagerare parlando di lavaggio del cervello e indottrinamento. Oggi la cultura liberal americana di matrice cosiddetta woke, da non confondere con il mainstream democratico e tanto meno con la tradizione liberale europea, è ispirata a posizioni massimaliste che riducono la complessità delle interazioni sociali, politiche ed economiche ad una distinzione arbitraria tra “buoni” e “cattivi” dove, naturalmente, i cattivi sono sempre gli altri.
Qual è il loro humus culturale?
In primo luogo la scelta di molti accademici di venire meno al loro compito di educare per abbracciare il proprio desiderio di diventare, e formare, degli attivisti. Senza voler generalizzare eccessivamente, vorrei dire poi che in larga parte si tratta prima di tutto di una concezione del mondo che suddivide l’umanità in modo astorico in eterni oppressi ed oppressori. In altre parole del paradigma degli studi postcoloniali. Laddove gli oppressi hanno sempre ragione, o comunque sono giustificati anche nel compiere delle atrocità, mentre i cosiddetti oppressori vengono deumanizzati e costantemente messi sotto accusa. Dico astorico perchè, ad esempio, nel caso del conflitto israelo-palestinese è evidente che tale distinzione si basa su una precisa scelta temporale che rende possibile, per chi la propugna, la definizione degli ebrei come colonizzatori e quella degli arabi palestinesi come le vittime della colonizzazione. Questa prospettiva, proprio in ragione della scelta di considerare il 1917, ovvero la pubblicazione della Dichiarazione Balfour, come l’inizio del conflitto ignora consapevolmente la storia della colonizzazione araba e quella della dominazione ottomana. Questo perchè non è funzionale alla narrazione semplicistica che si vuole dare degli eventi. Un altro elemento fondamentale della narrazione woke è il concetto di intersezionalità, proposto nel lontano 1989 dall’attivista statunitense Crenshaw che descrivere la sovrapposizione, o intersezione, delle identità sociali di minoranze soggette a discriminazioni od oppressioni. Nell’ideologia intersezionalista la militanza per una causa impone l’azione congiuta di supporto a tutte le altre cause che vedono la costruzione di una contrapposizione riduttiva tra dominanti e dominati. E lo fanno anche quando le cause sono apparentemente incompatibili, come ad esempio la causa per i diritti LGTBQ+ e il supporto ad un movimento teocratico e fondamentalista. La combinazione di un approccio postcoloniale militante e del principio dell’intersezionalità, che elimina la complessità e le contraddizioni sociali, nel quadro di quella perversione del concetto di giustizia che passa sotto l’etichetta di “social justice warrior”, ha fatto si che le università diventassero dei centri di formazioni per attivisti abiurando al loro ruolo di case della cultura, del dialogo e della crescita intellettuale.
Quanto sono diffuse nei campus americani queste posizioni “Pro Hamas”?
È molto difficile da capire, quantitativamente, quanto siano diffuse queste posizioni. Apparentemente sembrano molto diffuse. Diciamo però che, come sempre, chi fa più rumore gode di una maggiore esposizione mediatica. È ragionevole sperare che la cosiddetta maggioranza silenziosa sia in realtà su posizioni molto diverse. Sono molte poi le amministrazioni universitarie che hanno cercato di contenere o sanzionare queste manifestazioni di supporto. Ma è molto difficile. In parte, ovviamente in base al principio di garantire la libertà di espressione. Certo è che sostenere il terrorismo non è un’opinione, ma un crimine. Dunque chi sostiene Hamas, secondo me, dovrebbe essere perseguito legalmente. A questo proposito vorrei ricordare tuttavia che la maggioranza di chi supporta e manifesta in sostegno della causa palestinese non condivide posizione estreme. Ma purtroppo è molto difficile prevenire un’infiltrazione delle frange più radicali e la conseguente diffusione virale delle loro posizioni. In parte poi ciò sembra anche dovuto alla presenza di meccanismi di controllo informali all’interno delle università, che puniscono severamente la deviazione dalla linea ideologica accettabile, creando una sorta di sistema omertoso laddove anche chi vorrebbe contrastare questa deriva non lo fa per timore di perdere il proprio posto di lavoro a causa del bullismo, spesso online, di studenti e colleghi estremisti.
Nella sua Università la situazione com’è?
Nella mia università, grazie ad una leadership accorta e molto bilanciata, non si sono verificati scontri ad alta intensità come è avvenuto in altre università del paese. Si è trattato al massimo di scontri verbali e qualche piccolo incidente, come la rimozione di bandiere israeliane dalla piazza centrale del campus. Io sono stato preso di mira da una campagna diffamatoria orchestrata dal gruppi “Studenti per la liberazione della Palestina” a causa della mia presunta posizione filo-israeliana. Dico presunta perché in realtà ho sempre cercato di mantenere un approccio obiettivo e bilanciato al conflitto, incorrendo anche nella critica delle associazioni studentesche legate alla comunità ebraica. Questo comunque non è bastato agli studenti palestinesi, per i quali o si è schierati completamente dalla loro parte o niente. Ma voglio anche aggiungere che questa associazione è considerata una delle più estreme e diversi capitoli presenti in altre università, in Florida per esempio, sono stati chiusi proprio con l’accusa di apologia del terrorismo.
Più in generale quanto è diffuso l’antisemitismo nella società americana?
È una domanda molto complessa, la cui risposta affonda nel mondo del cospirazionismo che, come sappiamo, abbonda di riferimenti concettuali antisemiti. Vorrei ricordare però alcune statistiche che possono aiutare il lettore a comprendere la gravità di questo fenomeno. Gli ebrei costituiscono circa il 2% della popolazione americana. Ciononostante, nel 2022, secondo i dati recentemente pubblicati dall’FBI, tra i cosiddetti “hate crimes” quelli a sfondo antisemiti rappresentato ben il 9,6% e sono più della metà di quelli basati sulla religione, una tendenza coerente con i dati riportati negli anni precedenti. Gli episodi definiti come “hate crimes” ammontano nel 2022 a 11.634, il numero più alto mai registrato da quando l’FBI ha iniziato a monitorarli nel 1991. La porzione di attacchi antisemiti è cresciuta di oltre il 37%, raggiungendo il numero impressionante di 1.122 incidenti, la cifra più alta registrata in quasi tre decenni. Percentuale che sale al 41% se prendiamo in considerazione solo le istituzioni universitarie dove l’antisemitismo tende a prendere la forma della lotta al sionismo. L’Anti Diffamation League, che include nelle proprie statistiche anche gli attacchi che non costituiscono un atto criminale, parla di un totale di 3.697 episodi di antisemitismo avvenuti nel 2022. Anche in questo caso si tratta del numero più alto mai registrato da quando questo gruppo ha iniziato a monitorare il fenomeno nel 1979. Le aggressioni – considerate la forma più grave di incidente perché consiste nella violenza fisica contro una persona – presentano un aumento del 26%. Non sorprende dunque che, secondo le stime più recenti, una percentuale compresa tra il 75% e l’80% degli ebrei americani consideri l’antisemitismo come la principale fonte di pericolo per la propria persona e un ebreo su quattro ne abbia avuto esperienza diretta. D’altronde, come dimostrano diverse ricerche sulla diffusione di questo fenomeno, circa il 20% degli americani crede a sei o più tropi antisemiti. Un dato trasversale che accomuna l’estrema destra alla sinistra radicale.
La comunità ebraica come sta reagendo a questo fenomeno?
In generale la tensione è molto alta e il livello di guardia si è alzato, anche a seguito dell’evolversi della situazione del conflitto tra Israele e Hamas. Purtroppo è molto probabile aspettarsi un aumento dell’antisemitismo nel paese che vedrà sicuramente la convergenza di diverse sigle e movimenti sotto la bandiera dell’antisionismo militante. Va premesso anche che, proprio in ragione di quanto detto in precedenza, le comunità ebraiche nel paese hanno sempre favorito gli investimenti nella sicurezza sia dei luoghi istituzionali come sinagoghe e scuole sia delle strutture residenziali. In futuro c’è da immaginarsi un aumento degli investimenti in tal senso accompagnata da una chiusura o comunque riduzione della presenza di non ebrei nella vita delle comunità. In queste ore stiamo assistendo all’evolversi della campagna militare israeliana a Gaza. Indipendentemente dal successo militare di questa fase del conflitto, i danni reputazionali per Israele saranno enormi e ricadranno inevitabilmente sulla diaspora ebraica. Temo purtroppo che si profili una spaccatura tra il mondo ebraico e il resto della società che non potrà che aggravare la situazione attuale.
Alla Presidenza Usa c’è un democratico, Biden, cattolico liberal. Le chiedo la cultura e la politica liberal come stanno affrontando questo fenomeno?
Distinguerei il giudizio sull’amministrazione Biden in due periodi temporali. Nella fase precedente all’attacco del 7 Ottobre, il mio giudizio sulla presidenza Biden rispetto alla lotta all’antisemitismo è sostanzialmente negativo. Proprio a causa della necessità di favorire una certa retorica progressista “woke” che tra le altre cose, come dicevamo prima, privilegia una certa narrazione del conflitto Israelo-palestinese in cui abbondano ampiamente i riferimenti antisemiti, l’ostilità più o meno violenta verso gli ebrei è stata messa in secondo piano da altre campagne, come i diritti delle comunità LGTBQ+ o l’islamofobia, spesso meno rilevanti statisticamente ma legate alla piattaforma politica della minoranza estremista del partito democratico. Ala politica tra cui spiccano le parlamentari della cosiddetta “squad” come Alexandria Ocasio-Cortez, Ilhan Omar, Ayanna Pressley, Cori Bush e Rashida Tlaib che come abbiamo visto anche recentemente ha minimizzato, se non negato, l’attacco del 7 Ottobre e la conseguente onda di antisemitismo nel paese. Il giudizio sull’amministrazione relativo alla fase attuale è invece molto positivo, anche grazie alla posizione americana di completo supporto a Israele nel conflitto contro Hamas. Questa postura si è manifestata, internamente, in una condanna dell’antisemitismo e dell’antisionismo e in un rinnovato sforzo volto a riallacciare le relazioni con le comunità ebraiche.
L’opinione pubblica americana come ha trattato il fenomeno?
Direi con la consueta polarizzazione che caratterizza da tempo il paese e cioè con gran parte dell’opinione pubblica che ignora il fenomeno dell’aumento dell’antisemitismo nel paese, a cui si contrappongono i due fronti politicamente trasversali. Il primo composto di chi considera questo fenomeno non solo come un attacco verso gli ebrei, ma una minaccia per le fondamenta liberali e democratiche della società americana. E un secondo fronte che invece abbraccia, per diverse ragioni, l’antisemitismo giudicando positivamente la violenza quotidiana contro gli ebrei e sempre più spesso rendendosene partecipi. Ad oggi, purtroppo, devo rilevare che il secondo fronte è in aumento soprattutto a causa dell’evolversi del conflitto in Medioriente, perché è sempre più evidente che l’equivalenza tra antisionismo e antisemitismo è un dato fattuale.
Dal sito: www.rainews.it