Se ne è andato con la discrezione che ha sempre avuto nella sua lunga ed intensa vita terrena. Sto riferendomi ad una persona di 92 anni, spentasi il 2 settembre scorso: Pietro Merli Brandini.
I necrologi che ho letto, giustamente, danno conto appieno dello spessore morale e del rigore intellettuale che contrassegnò la sua esperienza nel sindacato. Ma dire di lui che è stato un “sindacalista” è un po’ fuorviante e in un certo senso lo sminuisce.
Il sindacalista, specie se della CISL, è considerato dalla vulgata popolare e dall’opinione pubblica uno che mangia pane e contrattazione tutti i giorni. Pietro non ha negoziato poco, non ha mai fatto un comizio, né ha guidato un corteo di protesta. Non perché non ne fosse capace, ma perché la sua opzione è stata sempre quella del servizio, trovando terreno fertile nella CISL che allo studio e alla formazione ha dedicato dalla sua nascita tanta attenzione e tante risorse.
Anche per questo, oltre per il suo carattere schivo, è poco noto ai più. Il suo posto preferito era la seconda fila, quella in cui l’elaborazione precede l’iniziativa, il respiro culturale alimenta la mobilitazione organizzativa. Per la sua competenza, anche internazionale, avrebbe potuto aspirare ed ottenere ruoli e posizioni istituzionali di prestigio, ma è rimasto sempre “nel” e “del” sindacato.
Pietro ha attraversato la trasformazione del sindacato da soggetto minoritario tra i lavoratori e diviso per le diverse visioni ideologiche che prevalsero negli anni 50 e 60 del secolo scorso, a sindacato di massa ed autorevole degli anni successivi, fino ai più travagliati giorni d’oggi.
Sempre nella CISL. Sia quando da giovane formava le nuove generazioni sindacali in abili attori della contrattazione in azienda (iniziò con gli alimentaristi). Sia quando si trovò – negli anni della grande trasformazione sindacale – in posizione marginale a sostenere la cultura originaria della Cisl, con qualche chiusura derivante dalla sua esperienza nell’organizzazione. Sia quando – cogliendo, con la sua fervida intelligenza, i segni dei tempi – partecipò alla ricomposizione dell’unità della CISL, dopo due Congressi di divisioni interne. Questo suo impegno intellettuale e conciliativo gli fu riconosciuto con l’entrata nella Segreteria confederale di Carniti, una delle più carismatiche della storia della CISL. Sia, infine, dopo che ne uscì (1983), coltivando la sua passione di attento lettore e suggeritore di visioni strategiche del sindacato, producendo considerevoli e mai banali ricerche, saggi e libri (l’ultimo è significativamente “Tornare al futuro. Per l’autonomia delle parti sociali. Edizioni Lavoro, 2014)
Chi l’ha conosciuto, gli ha voluto bene, indipendentemente dalla condivisione o meno delle sue idee. La ricchezza delle argomentazioni e la disponibilità al confronto gli consentivano di raccogliere rispetto da parte di tutti, ben oltre la CISL.
Eppure, il modo garbato di porsi al dialogo, non faceva velo alla fermezza delle sue opinioni. Era per l’autonomia del sindacato. Sinceramente. Un’autonomia da conquistare sul campo (inizialmente fu un fiero oppositore dello Statuto dei lavoratori perché riteneva che fosse sufficiente il diritto di associazione previsto dalla Costituzione), nel duro confronto con il mondo imprenditoriale, ma con il quale costruire solide basi di reciproca “istituzionalizzazione”. All’americana, se si vuole trovare un riferimento che non confonda la sua posizione con il corporativismo. Alla maniera di Ardigò, il teorico dei “mondi vitali”, che tanta letteratura sulla essenzialità del protagonismo dei corpi intermedi ha alimentato anche nelle file del sindacato.
Un’autonomia che, di per sé, portava al pluralismo sindacale. Irriducibilmente, considerava la CGIL in particolare, non più una mera cinghia di trasmissione del PCI e delle sue successive identità ma certamente sempre intrisa di posizioni e valutazioni politicizzate. Da ciò, una ricorrente riserva verso l’unità sindacale, a partire dalla messa sotto accusale delle varie forme che hanno assunte le sperimentazioni delle categorie dell’industria negli anni 70 e 80. Nutriva, infatti, seri dubbi sul substrato culturale del sindacato unitario, in quanto, specie nel rapporto con il movimento studentesco, intravvedeva una componete di cultura negativa fortemente ideologizzata, che mal si conciliava con la tradizione sindacale.
Di conseguenza, la sua sana ossessione è stata sempre quella degli assetti e dei contenuti contrattuali e della loro influenza sugli equilibri economici complessivi. A questi temi non solo ha dedicato buona parte della sua attività nel sindacato, ma soprattutto ha fornito argomenti e convincimenti che sono il suo lascito più prezioso per l’intero sindacato, specie se confrontato con le sue difficoltà di oggi.
C’è qui, tutto il paradosso Merli Brandini: non fu mai unitario nella forma, ma quando si passa a vagliare la sostanza delle sue proposte relative alla struttura e alle politiche della contrattazione, l’orizzonte si dilata. Non solo la CISL, ma anche la CGIL e la UIL diventano i suoi interlocutori. E questi – ne sono convinto – hanno perduto una voce capace di alzare sempre il livello della discussione e della ricerca intorno alle migliori prospettive di tutela della condizione dei lavoratori.