“Mi dispiace, signore morese, l’algoritmo non lo consente”. Rimasi basito. Il mio interlocutore allargava le mani, quasi a dire “vorrei ma non posso”. Cercai di rimontare la situazione con argomenti tipo “ci conosciamo da anni”, “ne ho bisogno subito”, “si tratta di un semplice documento”. Niente da fare. “rifaccia la prenotazione, arrivederci”. Come cliente mi sono sentito “vecchio”. Quando non c’era l’algoritmo, si trovava il modo per non farmi perdere tempo e pazienza. Ma non mi soffermai su questo aspetto.
I pensieri si accavallarono su altro. Il primo, da ex ma incallito sindacalista, corse ai tempi della catena di montaggio. “Capo, non ce la faccio a reggere il ritmo” diceva l’operaio e la risposta era un’alzata di spalle, accompagnata con il solito “l’ha stabilito l’addetto ai tempi e metodi”. L’algoritmo dell’industrializzazione; un tizio che di tanto in tanto si affacciava nel capannone della carrozzeria, si fermava ad ogni postazione, cronometrava, segnava qualcosa sul suo taccuino e andava via. Spesso si veniva a sapere che quella visita era servita ad accelerare la velocità delle fasi lavorative. Anzi, le aziende più ciniche assoldavano psicologi per mettere vicini l’operaio che parlava solo di calcio, con quello fanatico della musica operistica, così non si distraevano.
L’algoritmo postindustriale è ancora più subdolo ma agisce con una logica identica a quella imposta agli operai delle linee di montaggio. Non punta alla maggiore fatica fisica, anzi, persegue l’obiettivo opposto: sottrarre fatica fisica e mentale con accrescimento dell’accelerazione dei processi. Ma spesso questo evidente e indiscutibile vantaggio è inquinato dall’irrigidimento delle procedure e dall’accrescimento dell’alienazione degli operatori. Il rischio di una perdita secca di autonomia, di esercizio della responsabilità, di senso del proprio lavoro è dietro l’angolo. E più in là, è in agguato la perdita del lavoro.
Il secondo pensiero si è inabissato nella comprensione di dove sta il punto di comando dell’algoritmo, il livello di decisione che può modificare la meccanica e la dinamica dell’intervento informatico. L’algoritmo, infatti, non è impostato una volta per tutte, ha le sue flessibilità. Tutto dipende da chi vuole e può proporre cambiamenti. Non è detto che il management, che nell’era industriale era responsabile assoluto del sistema organizzativo dell’azienda o di qualsiasi altra struttura di lavoro, in questa stagione digitale abbia gli stessi margini di manovra. Il potere dei gestori delle piattaforme di intelligenza artificiale (AI) è così forte ed accentrato che non sempre acconsentono a “personalizzare” gli interventi.
Si apre uno scenario del tutto inedito, che oscilla tra tentazioni luddistiche o assuefazioni fatalistiche. Le prime sarebbero insensate. E’ tale la validità della AI che impedirne l’utilizzo è darsi la zappa sui piedi. Le seconde vanno invece combattute. Si devono necessariamente evitare nuove alienazioni sul lavoro e si deve al contrario promuovere la duttilità nell’ utilizzo dei sistemi informatici per corrispondere ad obiettivi di “buona produttività”. Questo non è impossibile.
La tecnologia è ancora giovane e piena di rischi ma soprattutto di opportunità. Non dimenticare mai che l’essere pensante veramente è soltanto umano. Ovviamente, si deve intervenire perché la macchina non sconfini, non prevarichi e condizioni la dignità umana. Molto potrà fare la contrattazione collettiva intervenendo sulla qualità degli algoritmi utilizzati, ai livelli decisionali giusti. E’ una frontiera inedita, ma che va conquistata. Parecchio potrà avvenire se la discussione relativa alla democrazia economica rompa i tetti di vetro della cultura politica e intervenga per evitare nuovi e più potenti condizionatori e orientatori dell’etica e delle scelte della “società liquida”. L’algoritmo deve diventare amico di chi lo utilizza e di quanti sono destinatari della sua velocità e della sua ambiguità.