Il fascino del “salario minimo” per legge è ad effetto intermittente. Quando l’indignazione per l’aumento dei lavoratori che guadagnano poco e sono meno tutelati cresce, all’opinione pubblica si offrono queste due parole magiche. Purtroppo è un’indignazione che non sedimenta nella coscienza collettiva e così la questione viene regolarmente archiviata, in attesa di una successiva fiammata di sdegno. D’altra parte, se fosse una vera soluzione sarebbe già stata adottata. In realtà, ragionando senza pregiudizi, si comprenderebbe che è una panacea. Fattibile ma senza speranza che diventi una misura senza efficacia risolutiva.
Ipotizziamo che ci sia già un salario minimo legale a 9 euro lordi per ora lavorata, come aveva proposto la ex ministra del lavoro Catalfo. E ipotizziamo che un imprenditore offra 5 euro l’ora. Il lavoratore potrebbe rifiutare; ma ha buone ragioni, a partire dal fatto che ha fame, per accettare. Dopo un po’ però andrà dal datore di lavoro e gli ricorderà della legge sul salario minimo. Se questo facesse orecchie da mercante, il lavoratore va a raccontarlo al sindacato che proverà anche a convincere il padrone ma l’accusa di essere fuorilegge non lo spaventa.
Che potrà fare il lavoratore? Specie se la legge non prevederà pesanti sanzioni automatiche contro l’azienda inadempiente, si rivolgerà prevedibilmente, su suggerimento del sindacato, ad un avvocato per avviare una vertenza giudiziaria. Se l’avvocato è bravo, il consiglio che darà, sarà quello di chiedere al giudice di applicare la tariffa salariale del contratto di riferimento (in Italia tutte le qualifiche, sia vecchie che nuove, sono riconducibili a qualche contratto) e non il salario minimo legale.
L’importanza del salario minimo è praticamente sgonfiata. Fine della trasmissione? No, perché resta in piedi la questione del crescente numero di persone sottopagate. Se si vuole affrontare il problema sul serio e in modo definitivo, non servono le scorciatoie, ma una serie di azioni che riguarda sia il Governo e il Parlamento, sia le parti sociali e il sindacato in particolare. Due mi sembrano determinanti.
In primo luogo bisognerebbe eliminare l’equivoco dei contratti pirata, che trascinerebbe anche la semplificazione del numero dei patronati, dei caf e degli enti di formazione professionale, proliferati parallelamente. Molti dei contratti certificati dal CNEL, sono stati messi in piedi più per poter aprire sportelli assistenziali che per fare la concorrenza ai contratti sottoscritti da CGIL, CISL e UIL. In ogni caso, se prevedessero minimi contrattuali più bassi potrebbero indurre il giudice, a cui il lavoratore ha fatto ricorso (per continuare con l’esempio di scuola) a dargli ragione, ma rifacendosi a uno dei contratti pirata, riconoscendogli un salario più magro. Per evitare questa spiacevole situazione, bisogna desertificare il terreno dell’inganno.
Ciò è possibile, recependo legislativamente e applicando velocemente gli accordi intersindacali sulla rappresentanza, almeno per la parte dei lavoratori, restringendo il campo della legittimità dei contratti e rendendoli di fatto erga omnes. E’ solo questione di volontà politica del legislatore, posto che le parti sociali non si possono rimangiare ciò che hanno sottoscritto da tempo. Se non avviene e ci si limita a chiacchierare sul salario minimo, vuol dire che non si vogliono tagliare le gambe alla cattiva flessibilità e al lavoro nero.
Ma non basta. Non credo che se autorevoli esponenti politici, anche di area progressista, alzando la bandiera del salario minimo legale, lo facciano in mala fede. Lo fanno anche perché pensano che così si supplisce alla carenza di rappresentatività sindacale di fasce di lavoratrici e lavoratori precarizzati quasi a vita. Non è facile sindacalizzare questa massa eterogenea di persone. Ma se non si vuole partecipare alla flebile tutela, quella del salario minimo per legge, bisogna costruire le condizioni per esercitare quella autentica.
Il sindacato italiano è nonostante tutto, nonostante la pandemia, nonostante la transizione verso la sostenibilità ambientale, ancora una forza sociale di tutto rispetto. Ma non può essere soltanto il sindacato degli occupati stabili a tempo indeterminato. Il mercato del lavoro è più vasto di questo spaccato. Le tecnologie, la globalizzazione e la cura della natura stanno proponendo scenari lavorativi inediti. Non per questo la ricomposizione del lavoro tra quello stabile e quello non standard, tra quello forte e quello fragile non debba essere ricercata, studiata, perseguita, contrattualizzata.
D’altra parte, la storia della confederalità sindacale italiana documenta che, se negli anni cinquanta del secolo scorso, non ci fossero stati “sindacalisti in vespa” che cercavano con il lanternino gli operai comuni per convincerli a mettersi insieme per tutelare i propri interessi, non ci sarebbe stata quella crescita esponenziale di rappresentatività e di tutela della dignità salariale e normativa che si ebbe nei decenni successivi, fino ai giorni d’oggi.
Siamo nella stessa situazione di allora, ed i vuoti di tutela non si riempiono con alchimie legislative ma mettendo in campo idee, tenacia e credibilità. Il sindacalismo italiano ha tutte le potenzialità – a partire dall’ unità delle tre centrali confederali – per dare corpo ad un robusto processo riaggregativo del mondo del lavoro.