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Ma quando le parti sociali azzereranno il lavoro indecente?

Il lavoro mal pagato e mal tutelato continua ad aumentare. Riguarda prevalentemente i giovani, ma non solo. La nota trimestrale sulle tendenze dell’occupazione pubblicata da ISTAT, INPS, INAIL, ANPAL parla chiaro. Nei primi tre mesi dell’anno sono state registrate 183.000 posizioni lavorative in più rispetto all’ultimo trimestre del 2021. Crescono in quasi tutti i settori e si dividono quasi a metà tra contratti a tempo indeterminato (85.000) e contratti a tempo determinato di varia natura (98.000). Questi hanno durata sempre più corta: il 9,2% durano un giorno, il 33,3% un mese, il 27,5% da due a sei mesi, l’1% supera l’anno. L’area della flessibilità selvaggia è dilagante. Inoltre, secondo uno studio dell’INAPP al Sud “c’è una doppia fragilità: contratti a tempo determinato e pure part-time. Lo è il 52% dei contratti a termine attivati con lo sconto Sud: le donne hanno la metà dei contratti a termine degli uomini, ma nel 79% dei casi è a part-time contro il 39% degli uomini. È a tempo parziale anche l’80% dei contratti a termine attivati con l’incentivo donne.”

Si potrebbero, a questo punto, mettere in fila le dichiarazioni di politici, imprenditori, sindacalisti, studiosi a commento di questi dati sconfortanti. Non ne vale la pena. Indignazione alta, senso di meraviglia, minacce di rigore investigativo, promesse di interventi risolutivi. Assoluta vaghezza e conseguente nuovo silenzio, in attesa di incontri tra le parti sociali e Governo. E quindi, non suscita molto clamore la denuncia tramite TiK Tok (e non tramite l’ispettorato del lavoro o un sindacato) di Francesca Sebastiani di aver ricevuto un’offerta di lavoro come commessa per 10 ore al giorno con compenso di 280 euro al mese.

Guardare in faccia la realtà è sempre compito arduo. Ci si accorge che il miracolismo non è a portata di mano. Né sventolando il salario minimo, né facendo gli inflessibili, chiedendo che gli impieghi siano sempre a tempo indeterminato. Dominare la realtà è possibile soltanto con un forte senso di concretezza e saldi principi che orientino le realizzazioni. Non a caso, la contrattazione ha avuto successo nel nostro Paese. Essa è flessibile, adattiva, innovativa più della legge che, nel campo del lavoro, per sua natura è lenta, rigida, inadeguata.

Quello che serve è un rilancio delle relazioni industriali che consenta di avere un mercato del lavoro ragionevolmente ordinato e si rivolga alla legislazione del lavoro come sostegno e non in alternativa ad esse. Sono le parti sociali che dovrebbero avere chiari gli obiettivi da perseguire su almeno quattro questioni cruciali.

Innanzitutto, come ridurre il gap tra domanda e offerta del lavoro in merito alle professionalità. Non basta lagnarsi della mancanza di personale qualificato. Le parti sociali dovrebbero mettersi d’accordo per ottenere che l’orientamento professionale diventi un esercizio sistemico nelle scuole (dalle medie inferiori in su) propedeuticoad una alternanza scuola-lavoro svolta con serietà, e non una opzione lasciata alla responsabilità e alla sensibilità dei presidi. 

In secondo luogo, per i lavori di breve durata e stagionali bisognerebbe rivedere la decisione affrettata ed emozionale sull’eliminazione dei   voucher; essi si sono rivelati un notevole volano di emersione dal lavoro nero, nonostante le deviazioni e perversioni nel suo uso e per le quali andrebbero previste pene severe per gli imbroglioni e assicurato il patrocinio gratuito agli imbrogliati.

C’è poi la questione dei lavori a tempo determinato, la cui area di utilizzazione dovrebbe essere sottratta alla intrusione dei contratti pirata   e limitata ai contratti sottoscritti dalle organizzazioni maggiormente rappresentative, che si impegnano a  riconoscere una paga lorda superiore a quella del lavoratore a tempo indeterminato, in considerazione del maggior rischio di disoccupazione e per evitare che questa forma di occupazione venga utilizzata principalmente per rendere più ricattabile e precario il lavoratore.

Inoltre, per i lavoratori a tempo indeterminato, soprattutto nei settori più esposti all’intelligenza artificiale, sarebbe utile per tutte le parti sociali riconoscere “periodi sabbatici” lungo l’arco della vita lavorativa per riqualificarsi, con un “salario di formazione” il cui costo è da ripartire tra azienda, Stato e lavoratore.

Infine, sarebbe grave che, per i lavoratori che saranno inevitabilmente esposti all’impatto con la transizione ecologica e digitale, gli unici strumenti di tutela siano quelli tradizionali (Naspi e indennità di disoccupazione o come sussurra qualcuno prepensionamenti). Soprattutto agli ultra quarantenni, o alle lavoratrici che rientrano al lavoro dopo una maternità, non si potrà dire “arrangiatevi” o “datevi da fare”. Occorreranno strumenti nuovi, come riduzioni del tempo di lavoro generalizzate, per contenere al minimo l’impatto disoccupazionale e quindi considerarle un investimento e non un costo aggiuntivo, ovvero progetti di riqualificazione per i quali le parti sociali, come nel modello degli edili, assolvono un ruolo di orientamento, gestiscono un “contributo di riqualificazione”, a carico dello Stato, per il lavoratore fino a quando non si è individuato un nuovo posto di lavoro.

Mai come ora, occorrerebbe alzare lo sguardo oltre le emergenze attuali.  Non vanno banalizzate, ma esse non possono essere l’orizzonte in cui si muovono i protagonisti sociali. Ammortizzatori, bonus, ristori non spiegano il futuro. A mala pena leniscono il presente. E non riducono ansie, paure e collere. Riuscire a dare una qualche prospettiva positiva non è affatto una fuga in avanti, ma definisce le condizioni di un ordine nuovo, di un assetto sociale più solidaristico, di una coesione meglio governata. 

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