Quasi in contemporanea, la scorsa settimana, CGIL e CISL hanno celebrato un momento di sindacalismo che si potrebbe definire “extraparlamentare”. Cioè perseguire, anche se legittimamente, obiettivi di carattere generale con strumenti più consoni ai soggetti della politica, pur rimanendo fuori dalla rappresentanza istituzionale. In altri tempi, a ridosso della fine del Novecento, il sindacalismo confederale, unitariamente, ha svolto un ruolo da soggetto politico autonomo ma lo ha esercitato con gli strumenti propri della contrattazione, della concertazione, della lotta per realizzare quanto richiesto, accrescendo fortemente la loro rilevanza sociale e politica. Ma veniamo ai fatti.
La CGIL ha convocato a Bologna un’ampia riunione di delegati e dirigenti per preparare la campagna referendaria sui cinque quesiti da essa richiesti e dalla Corte Costituzionale ritenuti ammissibili. Questi puntano ad abolire il job act e i relativi indennizzi; a ripristinare la causale per i contratti a tempo determinato; a estendere la responsabilità in caso di infortunio in capo al committente dell’appalto; a ridurre da 10 a 5 anni gli anni di residenza legale per ottenere la cittadinanza italiana. L’evento non ha avuto grande risonanza pubblica, anche perché non è stata ancora fissata la data della realizzazione dei referendum, ma ha rappresentato un momento significativo della strategia dominante nella Confederazione: privilegiare la via legislativa.
La manifestazione della CISL si è svolta a Roma, ha avuto per tema “il coraggio della partecipazione” e ha riguardato la proposta di legge di iniziativa popolare sull’attuazione dell’articolo 46 della Costituzione, che sostiene la presenza dei lavoratori nella gestione dell’impresa. Ha avuto più fortuna mediatica sia perché l’articolato è entrato in un iter parlamentare deliberativo, sia perché convocata alla vigilia dell’avvicendamento tra Luigi Sbarra e Daniela Fumarola alla guida dell’organizzazione, sia e forse soprattutto perché ad essa ha partecipato Giorgia Meloni. Infatti, non sono mancate interpretazioni maliziose sui rapporti privilegiati tra Governo e CISL.
Il fatto sostanziale è che le due maggiori Confederazioni si trovano esposte nella stessa misura su un terreno squisitamente politico parlamentare. Scelta che le ha impegnate per mesi a cercare le centinaia di migliaia di firme necessarie per rispettare le procedure previste per iniziative del genere. Si tratta di uno sforzo mobilitativo di conferma della solidità associativa delle due organizzazioni (mai messa in discussione da alcuno). Ma anche di opzioni inedite che, al di là del merito delle questioni poste, affidano ad altri soggetti – il giudizio degli elettori la CGIL, il voto parlamentare la CISL – la sorte delle loro richieste. Questo implica la disponibilità ad un tasso di rischio, diversamente calibrato per ciascuna Confederazione, dato che il risultato di ciò che si intende ottenere, non è nella piena disponibilità dei proponenti. La mediazione e la sintesi conclusiva non sta nelle loro mani.
Tra le Confederazioni, chi corre di più l’alea è la CGIL. Ai suoi quesiti manca il traino del referendum sull’autonomia differenziata, interdetto dalla Corte Costituzionale ma anche il raggiungimento del quorum (il 50% più 1 degli aventi diritto al voto) non appare scontato. E qualora si acquisisse, c’è lo scoglio della maggioranza del sì. Landini ha chiesto a ciascuno dei propri iscritti (sono dichiarati 5,1 milioni) di convincere 5 persone, almeno. C’è del titanismo nell’ottimismo del Segretario della CGIL, ma è comprensibile. Tanto se vince, il merito è tutto della sua organizzazione. Se perde può relativizzare la sconfitta, condividendola con i partiti che hanno appoggiato i referendum e che non si sono cautelati lasciando libertà di voto ai loro elettori.
La CISL ha scelto una strada più istituzionale per alzare la bandiera della partecipazione dei lavoratori alle scelte gestionali ordinarie e straordinarie delle imprese. Prime crepe nella sua impostazione le ha già subite nella riscrittura della Commissione Lavoro della Camera, che ha però fatto salva (ci mancherebbe altro!) la possibilità che la contrattazione nazionale o aziendale definisca contenuti e modalità dell’applicazione della normativa di legge. E’ sperabile che non vi siano ulteriori manipolazioni nel prosieguo dell’iter parlamentare, ovvero che la maggioranza governativa accolga gli emendamenti dell’opposizione che riavvicinerebbero il testo uscito dalla discussione in Commissione a quello della CISL.
Ma al di là dell’esito dell’una e dell’altra vicenda e fermo restando che entrambe le organizzazioni si sono esposte politicamente, resta che nei prossimi mesi il solco della differenziazione resterà profondo. Finora non ha ancora intaccato i rapporti tra i lavoratori e bisogna dare merito ai gruppi dirigenti confederali centrali di non aver calcato la mano sui distinguo e a quelli delle categorie e dei territori di aver mantenuto in larga parte intatta, soprattutto nel settore privato, la capacità di contrattare unitariamente sia a livello nazionale che locale o aziendale. Ma si è ad un palmo dal rendere inossidabile e scontata l’abitudine che ciascuno parli ai propri iscritti, lasciando crescere l’area dei lavoratori disinformati e non coinvolti.
A chi gioverà, questa prospettiva non è data sapere. Non è chiaro se questo dinamismo nell’uso di strumenti propri all’ambito della politica è una parentesi nelle scelte del sindacalismo confederale o sarà una costante. In questo caso, lo sbocco più lineare sarebbe quello di farsi partito o corrente di partito. Sarebbe un bel salto all’indietro, ma avrebbe una sua intrinseca coerenza. Nell’altro caso, dovrebbe comportare un confronto serrato che intreccia il destino dell’unità sindacale, con il declino della priorità finora assegnata all’identità della “ditta” e soprattutto con la complicata misurazione e trasformazione del lavoro che è già in atto.
Essa riflette il profondo processo di transizione dal passato modello di sviluppo incentrato sulla manifattura e sulla dimensione nazionale delle politiche economiche verso un altro schema dominato dalla innovazione tecnologica e digitale e dalla dimensione come minimo europea delle scelte per assicurare benessere alle popolazioni. Se il sindacalismo confederale volesse rilanciare il suo ruolo di soggetto politico autonomo, dovrà fare un’accurata valutazione di questa esperienza sia alla luce di quelle passate che delle sfide che riserva il futuro.